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Frate Martino - 3


di adad
23.03.2021    |    8.854    |    8 9.3
"Si protese in avanti, sollevò delicatamente l’orlo della camicia, scoprendogli del tutto le natiche, poi come in preda ad un sacro furore, si protese e ci..."
I giorni successivi, non ci furono occasioni perché i due giovani avessero modo di incontrarsi: frate Martino fu occupato a tempo pieno nell’orto e nel laboratorio di frate Salterio, occupato in quei giorni a rinnovare la scorta di unguenti, balsami e sciroppi in previsione dei malanni invernali prossimi venturi; frate Marcello, invece, messo sotto dal frate cuciniere, sembrò di non aver modo di liberarsi un solo istante. Si incrociavano al refettorio, ma l’aiuto cuciniere abbassava ogni volta la testa con occhi vergognosi e frate Martino non ebbe l’ardire di richiamare la sua attenzione, quasi lo toccasse il rimorso per averne infangato la virtù.
Qualcosa si era rotto nell’armonia del loro rapporto. Ma il demonio raramente si interrompe, una volta che abbia iniziato a tessere le sue trame ai danni di noi poveri mortali.
Un giorno, era passata qualche settimana, frate Lupino, giovane allievo dello scriptorium stava pulendo le latrine, punizione che gli era stata affibbiata dal Priore in persona, per essersi distratto diverse volte durante la dettatura di un testo, facendo degli errori così madornali nella copiatura, che era stato poi necessario raschiare a lungo la pergamena per poter ricopiare tutto daccapo, con una grave perdita di tempo. Il ragazzo aveva provato a spiegarsi, ma il severo Priore non aveva voluto sentire ragione: una settimana alle latrine!
Le latrine si trovavano discoste dal corpo principale del monastero, in modo da non turbare il sensibile olfatto dei monaci con il tanfo graveolente che vi aleggiava attorno. Si trattava di una bassa costruzione di legno, all’interno della quale, addossato ad una parete, correva un basso sedile con una serie di larghi fori nella seduta, in modo da potervi espletare le funzioni fisiologiche in tutta comodità
Le deiezioni finivano direttamente nel pozzo nero: di qui il tanfo permanente che le ammorbava e che non rendeva propriamente gradevole doversene servire, possiamo immaginare doverci lavorare!
Il lettore mi perdoni questa spiacevole digressione, ma mi premeva dare un’idea delle comodità del tempo, anche per far capire lo stato d’animo in cui si trovava quella mattina il povero frate Lupino, dopo tre giorni di servizio in quell’avamposto dell’inferno, inginocchiato a raschiare con una spazzola di saggina il luridume di vario genere che incrostava le tavole del pavimento.
Per non sporcarsi, si era rimboccato le maniche fino al gomito e si era tirato su il saio fin quasi alla vita, stringendolo poi bene con il cordiglio, in modo che non penzolasse sino a terra. Così facendo, però, era rimasto praticamente con il culo mezzo di fuori; ma, o che non se ne fosse accorto, o che non gli interessasse, frate Lupino continuava il suo lavoro, dando di sé uno spettacolo a dir poco disonorevole. A dire il vero, il suo vero nome era frate Lupo, ma siccome era piccolino e aggraziato, per tutti era noto come Lupino.
Il fraticello era, dunque, prono a terra, col posteriore rivolto verso l’ingresso, concentrato nel lavoro, più che altro per reprimere le proteste dello stomaco, quando all’improvviso una mano leggera gli lisciò le natiche, scivolandogli impudica nello spacco del culo. Sul momento si sentì gelare, forse accorgendosi solo allora della sua nudità, un po’ come Adamo dopo aver mangiato la fatale mela nel giardino dell’Eden. Mille pensieri gli turbinarono nella testa: saltar su e ricoprirsi, affrontare l’importuno in malo modo… ma la sfrontatezza di quel gesto, o meglio la piacevolezza che ne derivava, lo disarmò e lasciò che l’altro continuasse l’approccio e fu solo quando sentì la punta di un dito premergli sul forellino inviolato, che si riscosse, si raddrizzò col busto e si voltò indietro con volto atteggiato a furioso disdegno, mentre l’uccello fino ad allora penzoloni fra le gambe gli si drizzava, mettendosi in posizione di tiro. Si voltò, dunque, pensando che fosse frate Raffaele, il maestro degli amanuensi, che già diverse volte aveva provato a circuirlo, ma quello che si trovò di fronte fu il volto acceso di libidine di frate Martino, che era capitato lì per caso e non aveva potuto fare a meno di fermarsi a guardare i suoi vezzosi meloncini.
Era rimasto ad ammirarli per un bel pezzo, accosciandosi perfino per osservare meglio e individuare nella peluria il grinzoso buchetto. Da quanto tempo… La mano si era mossa da sola a lisciare quelle chiappe vellutate, a insinuarsi nello spacco, a cercare col dito l’agognata apertura.
“Da come sei stretto, si direbbe che sei ancora pulzello.”, disse frate Martino, leccandosi le labbra.
A quelle parole e sentendo il dito entrargli ancora più dentro, frate Lupino boccheggiò, fissando quel fratacchione alto e robusto, che lo fissava con un sorriso che era l’immagine della libidine.
“Co… cosa stai facendo?”, balbettò del tutto spiazzato, non potendo negare il piacere che quel ruvido dito gli stava procurando.
“Ti sto ficcando un dito nel buco del culo.”, rispose frate Martino, senza alcuna remora.
“Perché lo fai?”, disse l’altro con voce tremolante.
“Voglio preparartelo per ficcarci il cazzo!”
“Eh!!!!”, fece per divincolarsi frate Lupino, ma frate Martino, ormai infoiato, lo afferrò per il cordiglio e lo trattenne, spingendogli il dito ancora più a fondo.
Artigliato in quel modo, il povero fraticello si ritrovò inerme impossibilitato ad accennare la minima difesa. Avrebbe potuto gridare, certo, voltarglisi a morsi, piantargli in un occhio la spazzola di saggina, ma innegabilmente la cosa gli piaceva, come dimostrava il suo cazzo sgocciolante.
Non appena capì d’averlo in suo potere, frate Martino gli affondò nell’ano un altro dito e, agganciandolo a quel modo, lo sollevò, come una puleggia, e lo spinse avanti, addossandolo ad una parete della latrina. Estrarre le dita e ficcargli il cazzo nel buco aperto fu tutt’uno e il povero frate Lupino non ebbe neanche il tempo di dire “ahi”, che già ce l’aveva piantato dentro fino alle palle.
“Mi fai male…”, cercò di protestare, ma frate Martino non lo ascoltò, ormai la lussuria aveva preso il sopravvento su qualsiasi altro sentimento.
“Finalmente…”, sospirò infatti, mentre il suo cazzo si apriva la strada nelle vergini carni, spinto da una voglia cresciuta negli anni fino allo spasimo.
“Sta calmo… ti passa subito… - gli mormorava concitato – ti piacerà… sarà bello vedrai… ah, come sei stretto… fantastico… “, mentre cominciava l’eterno dentro e
fuori della mazza infoiata.
Senza preoccuparsi se i gemiti che sentiva fossero di dolore o di goduria, e di momento in momento più accalorato, via via che il piacere cresceva, frate Martino ci dava dentro, quasi volesse recuperare tutti gli anni di astinenza. Era incredibile quanto si godesse a fottere un culo!
Ma anche per frate Lupino le cose cambiarono ben presto: al dolore per la subitanea penetrazione era subentrato un indolenzimento attorno all’ano per lo stiramento dello sfintere e piano piano un senso di pienezza , un languore gratificante. Allungò le mani e tastò la base del cazzo che gli scorreva dentro e fuori, meravigliandosi che un affare così grosso avesse potuto entragli dentro… Allungando ancora un po’ la mano, arrivò a tastare i coglioni ondeggianti del maschio alle sue spalle e la sensazione che ne ricavò lo turbò a tal punto, che si sentì ribollire tutto e in un attimo venne senza toccarsi.
L’orgasmo di frate Lupino, spedì dritto Martino in dirittura d’arrivo e infatti, mentre l’uccello gli veniva munto dalle contrazioni anali di frate Lupino, lui diede un ultimo affondo, poi, premendogli forte il bacino contro il culo, gli svuotò dentro tutta la sua sborra.
“Sei stato bravo.”, gli disse poi, mentre gli sfilava l’uccello dal culo e se ne andava, lasciandolo lì a scolare la sua sbroda dal pertugio sconnesso.
Possiamo accusare frate Martino di scarsa sensibilità? A prima vista non ci sono dubbi: aveva appena stuprato un confratello e lo abbandonava senza neanche una buona parola, senza un gesto carino che gli fosse di minima consolazione; dobbiamo però tener presente che quelli erano tempi duri, tempi ancora soggetti alla legge del più forte, che prevarica il più debole e si prende quello che vuole. Qualcuno si chiederà: “Anche in un ambiente sacro?”. Ahimé sì, anche in un ambiente sacro e ne son piene le cronache. Intendo le cronache del tempo, che ho consultato per ricostruire questa storia. Ma non credo che le cose siano cambiate: il lupo perde il pelo soltanto, lo sappiamo.
Dobbiamo anche dire, però, che frate Martino in fondo non era un così cattivo soggetto: erano state le circostanze a spingerlo sulla cattiva strada e nel caso specifico di frate Lupino era successo tutto così in fretta e così inaspettatamente, che lui stesso ne era rimasto frastornato e incapace di gestire la cosa nel migliore dei modi. C’è anche da dire che frate Lupino, dal canto suo, non ci diede peso più di tanto e quando l’altro tornò a cercarlo, si prodigò a placarne gli ardori con molta più partecipazione e direi quasi entusiasmo.
Ma il sogno segreto di frate Martino, il suo chiodo fisso, rimaneva frate Marcello, che però da quel famoso pomeriggio sulla riva dello stagno, aveva accuratamente evitato qualsiasi occasione di rimanere da solo con lui. Che quanto successo gli fosse piaciuto, non c’erano dubbi, visti gli effetti: perché allora lo evitava? Questo era l’assillo di Frate Martino; che il povero frate Marcello potesse essere divorato dai sensi di colpa, non lo sfiorava minimamente. Ma questa era la realtà: messo davanti a qualcosa che gli era stato insegnato a rifiutare in quanto opera del demonio, frate Marcello era rimasto sconvolto dal dirompente piacere che aveva provato.
Una notte, frate Martino non riuscì a resistere: si alzò, aprì silenziosamente la porta della sua cella e, in camicia com’era, sgusciò fuori nel buio corridoio e si diresse verso quella di frate Martino. Ci aveva meditato sopra a lungo e quella notte si era deciso.
L’eccitazione gli pompava adrenalina nel sangue e lui procedeva tentoni, strusciando sul muro il dorso delle dita e contando le porte che incontrava.
Quando calcolò di essere giunto a quella di frate Marcello, cercò la maniglia e la girò lentissimamente… quindi aprì uno spiraglio e sgusciò dentro. Si fermò per abituare gli occhi al buio ancora più denso, poi al fievole chiarore che entrava da una finestrella in alto, distinse la sagoma del lettuccio, su cui era disteso un corpo immerso in un sonno profondo.
Strusciando i piedi per terra, per non inciampare a qualche ostacolo nascosto, frate Marcello fece qualche passo avanti, orientato adesso dal debole candore della camicia che il frate indossava. Il dormiente era disteso sul fianco, dando la schiena a frate Marcello: la camicia era scomposta, tirata su e mostrava le cosce nude fin quasi all’orlo delle natiche.
Il cuore di frate Martino prese a battere all’impazzata, si avvicinò ancora, fino a inginocchiarsi a fianco al lettuccio. Si protese in avanti, sollevò delicatamente l’orlo della camicia, scoprendogli del tutto le natiche, poi come in preda ad un sacro furore, si protese e ci depose un soffice bacio.
Il pensiero che l’altro potesse svegliarsi e coglierlo sul fatto, cominciando magari a urlare per chiedere aiuto, non gli sfiorò neanche la mente, tanto era preso dal suo delirio erotico. Infine, non resse più: si sedette per terra, incrociando le gambe, e prese a masturbarsi, mentre con la punta della lingua sfiorava delicatamente quelle magnifiche rotondità. Venne con un gemito strozzato, tamponandosi con l’orlo della camicia, per non sporcare a terra, e rimase ancora un po’ ad ammirare lo splendore di quelle natiche inviolate; poi si rialzò, premendosi all’inguine il tessuto bagnato e scivolò fuori nel corridoio, raggiungendo in fretta la sua cella.
Frate Marcello si accorse di quanto era successo, del pericolo che la sua virtù aveva corso? Non lo sapremo mai, anche perché al mattino l’intenso aroma di sperma che frate Martino si era lasciato dietro, era ormai scomparso.
Da quella volta, furono parecchie le notti in cui il giovane frate si intrufolò nella cella dell’altro, beandosi alla vista del suo culo nudo, che ad un certo punto cominciò a trovare già del tutto scoperto, quasi fosse in attesa della sua estatica adorazione.
Ma fu questo alla fine che lo perse: una notte, infatti, mentre tornava silenziosamente nella sua cella, venne scorto dal frate Priore, che aveva deciso di fare un giro di ricognizione per controllare che tutto procedesse regolarmente. Il Priore scorse solo un’ombra; seguendola però zitto zitto, scoprì che si trattava di frate Martino. Ma perché era uscito nel cuore della notte e dove era stato? Frate Gambino, infatti, non aveva visto da quale cella era uscito.
Gli erano giunte voci di traffici poco onesti tra i monaci del monastero, sospettava che tra i frati più giovani si intrecciassero tresche peccaminose… questo non poteva che esserne la riprova: frate Martino era andato a consumare il suo losco peccato… ma con chi?
La mattina, di buon’ora, il Priore riferì tutto all’Abate e insieme decisero di far prendere frate Martino e interrogarlo.
Fu lo stesso Priore che si incaricò di cercare il giovane frate e accompagnarlo dall’Abate, senza ovviamente spiegargli il motivo della convocazione. Ad attenderlo, assieme all’Abate, frate Martino trovò anche gli anziani frati censori, che avevano il compito di vigilare sulla condotta morale dei confratelli.
La cosa gli parve strana, ma al momento si sentiva tranquillo, ignorando di essere stato scoperto.
“Hai qualcosa da confessare, fratello Martino?”, lo interpellò bonariamente l’Abate.
“No, reverendo Abate… non capisco…”, balbettò il giovane, cominciando ad avere la sensazione che qualcosa non andasse.
“Dov’eri questa notte?”, intervenne bruscamente il frate Priore.
“Questa notte? Nella mia cella… dormivo.”
“Bugiardo! Sei stato visto aggirarti nel corridoio.”, tuonò uno dei censori.
Frate Martino sbiancò.
“Ero… ero andato alle latrine… reverendo…”, improvvisò.
“Le latrine si trovano dalla parte opposta a dove ti hanno visto!”
“Sei andato nella cella di qualcuno…”
“No!”, gridò frate Martino, intuendo finalmente la gravità della sua situazione.
“Qualcuno con cui intrattieni rapporti peccaminosi!”
“No, non è vero!”
“Da chi sei stato?”
“Da nessuno…”
“Chi è il tuo complice?”
Continuarono a tempestarlo di domande, ma frate Martino si chiuse in un ostinato silenzio e non rispose più a nessuno: se per lui era finita, non voleva coinvolgere nessun altro e men che meno l’innocente frate Marcello, che era stato solo vittima inconsapevole della sua lussuria.
Alla fine:
“Il tuo silenzio ostinato – sentenziò l’Abate – è indice della tua colpevolezza. Noi ordiniamo pertanto che tu venga affidato alla misericordia di Nostro Signore.”
Frate Martino si sentì crollare il mondo addosso: sapeva bene cosa significasse quella formula: lo avrebbero murato in una cella a morire di fame e di sete per dargli tempo di pregare e pentirsi dei suoi peccati.
Subito dopo la sentenza, lo presero di forza e lo condussero verso il luogo del supplizio nei sotterranei del monastero, senza che avesse la forza di accennare la minima resistenza, annichilito com’era dalla prospettiva della morte imminente.
Giunti alla fine di un corridoio umido e maleodorante, lo spinsero in un antro buio e immediatamente due frati muratori cominciarono a chiudere l’ingresso con pietre e calcina, mentre gli altri monaci intonavano lugubremente il Miserere… la preghiera dei moribondi.

(continua)
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