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Bella figlia dell'amore


di adad
27.11.2020    |    7.802    |    7 8.5
"Allungò, allora, la mano fra le cosce dell’amante e strinse con un gemito di voluttà, l’enorme randello sotto i pantaloni, nella trepidante aspettativa di..."
BELLA FIGLIA DELL’AMORE

Il tenore Anacleto Verdelli, detto Anaconda, era letteralmente inviperito. Si aggirava per il minuscolo camerino come una belva impazzita, l’aria era sempre più soffocante, sempre più irrespirabile, le immagini, che il grande specchio gli rimandava, sempre più odiose.
Neanche lui sapeva come aveva fatto a cantare, poco prima, l’apertura del secondo atto, con la voce che gli si strozzava nella gola per l’angoscia di quanto aveva appena scoperto. La disperazione con cui aveva urlato “Ella mi fu rapita”, aveva fatto vibrare di commozione tutto il pubblico, inconsapevole di quanto era successo dietro le quinte e del turbamento che lo sconvolgeva.
La disperazione del Duca di Mantova in quel momento era la sua stessa disperazione: l’oggetto del suo amore gli era stato sottratto! Con la differenza però che al Duca la donzella era stata sottratta da altri, a lui il donzello si era sottratto da solo in cerca di altri!
Ma cos’era successo? Era successo… Beh, prima di tutto chiariamo la situazione, altrimenti i nostri lettori rischiano di non capirci niente, per lo meno quelli che non sono addentro al mondo della melomania.
Siamo nel teatro di *** e va in scena una replica del Rigoletto. Il tenore Anacleto Verdelli, detto Anaconda, impersona superbamente il Duca di Mantova, affascinante e libertino, di cui, mai come altri, lui aveva il “fisico del ruolo”, alto e prestante, tanto più ora, nel suo costume quattrocentesco, con le belle gambe tornite inguainate nella calzamaglia, il corpetto sgargiante, il sorriso sarcastico sul volto dai lineamenti regolari e dalla corta barba che ne rimarcava la maschile baldanza. Era stato un mattatore per tutto il primo atto, dominando la scena sia con la presenza conturbante, che con la voce magnifica.
Si era reso odioso al punto giusto e aveva tenuto testa all’altro protagonista del dramma, il buffone Rigoletto, impersonato a fatica dal baritono Romeo Calcabrina… dico a fatica non per la voce, grazie a Dio, morbida e potente nello stesso tempo, ma per la difficoltà con cui aveva dovuto storpiarsi per impersonare il Gobbo.
Anacleto Verdelli e Romeo Calcabrina, due delle voci più belle del panorama lirico. La terza figura del dramma era il soprano Renata Zolli, Gilda, che se nell’opera era il fulcro dell’azione, oggetto delle cupide bramosie del Duca e della possessiva protezione di Rigoletto, nella realtà non interessava a nessuno dei due, poiché, a questo punto bisogna dirlo, il tenore Anacleto e il baritono Romeo erano felicemente amanti e lo erano ormai da diversi anni.
Quel pomeriggio, prima della recita, nel chiuso della camera d’albergo, nudi sul letto, tra un sollazzo e l’altro Romeo gli aveva ventilato perfino l’idea di sposarsi.
“Bella figlia dell’amo-o-re, - aveva canticchiato, mentre gli leccava golosamente l’anaconda – schiavo son dei vezzi tuo-o-i..”, poi non aveva detto più niente, avendo la bocca occupata a slurpare la mastodontica cappella dell’amico, che in effetti definire super dotato sembrava riduttivo.
Erano messi a sessantanove, Anacleto sotto e Romeo sopra: unica posizione che gli permetteva di operare agevolmente su quel cazzo da primato.
A quella proposta, formulata in una situazione così intrigante, Anacleto si sentì gonfiare il cuore.
“Parli sul serio?”, chiese, estraendogli la lingua dal buco del culo.
“Certo”, mugugnò Romeo, leccando via una corposa goccia di siero che sgorgava in quel momento dalla boccuccia carnosa.
“Se ci sposiamo, allora, dovrai lasciarmela scopare questa deliziosa fighetta…”, sospirò Anacleto deponendo un bacio voglioso sul bramato pertugio.
“Ma di’, sei impazzito? – scattò Romeo togliendoglisi di dosso e rigirandosi a fissarlo negli occhi – Vorresti ficcarmi nel culo questo… questo?...”, e impugnò l’anaconda, come incredulo a quella balzana pretesa.
“Che matrimonio sarebbe, allora?”, fece Anacleto con un sorriso dal sapore amaro.
Fino a quel momento, infatti, nonostante fossero amici e amanti da così tanto tempo, Romeo si era sempre rifiutato di farsi possedere, adducendo a pretesto le dimensioni dell’anaconda che, come minimo, lo avrebbero spedito dritto al pronto soccorso a farsi ricucire il culo.
“Amore, - cercò allora di blandirlo Romeo – lo sai che ti amo da morire, ma il tuo coso mi fa davvero paura…”
“Sì, lo so… - tagliò corto Anacleto – Si sta facendo tardi… dai, fammi venire, ché dobbiamo andare a teatro.”
Consapevole dell’atmosfera che si era raggelata e quasi se ne sentisse in colpa, l’altro tornò ad occuparsi della poderosa appendice, prestandole il miglior servizio di mano e di bocca che Anacleto potesse desiderare e che in breve trasformò il suo cazzo in un geyser di sborra bollente, la maggior parte della quale schizzò con vigore sulla faccia di Romeo, che lungi dal provarne ripulsa, si calò rapido sull’apertura del cratere e lasciò che gli ultimi getti gli dilagassero sulla lingua, prima di ingoiarli.
Continuò, quindi a leccare tutt’attorno, fra le pieghe del prepuzio, finché, ridottosi il pomello a dimensioni accettabili, lo prese interamente in bocca e lo poppò, spremendone fuori anche gli ultimi residui.
Avrebbe voluto che Anacleto gli restituisse il favore, ma quello era ancora ombrato per il suo rifiuto a farsi inculare, per cui:
“Dai, si fa tardi, andiamo.”, gli disse con un sorriso, fingendo indifferenza.

Il primo atto filò tutto liscio e le rispettive esibizioni furono seguite dagli applausi scroscianti del pubblico. Ritrovarsi fianco a fianco sul palcoscenico valse a calmare il risentimento di Anacleto, detto Anaconda: le paure di Romeo erano comprensibili, un arnese come il suo non poteva non provocare danni al suo passaggio. Cominciò anche a sentirsi in colpa e, durante l’intervallo, pensò di raggiungere Romeo in camerino per fare la pace.
Ma Romeo in camerino non c’era e nessuno sembrava saperne niente. Così, prese ad aggirarsi nei meandri dietro le quinte, sentendosi prendere ad ogni passo da
una comprensibile inquietudine: dove diavolo si era cacciato?
E fu così che, muovendosi cautamente nella fitta penombra, udì ad un tratto un gemito soffocato proveniente da dietro un cumulo di cassoni. Si avvicinò in punta di piedi, sporse la testa oltre l’angolo e… lo vide! L’esimio baritono Romeo Calcabrina, l’amore della sua vita, impareggiabile interprete di Rigoletto, piegato a novanta gradi, con le braghe calate sotto le chiappe e l’uccello del siparista Marcello che gli stantuffava gagliardamente nel deretano, nonostante l’impaccio della gobba.
Il sangue gli salì alla testa… per un momento vide tutto nero, si sentì stringere la gola e gli sembrò di soffocare. Lo sbalordimento fu tale, che dovette aggrapparsi alla prima cosa che gli capitò sottomano per non crollare a terra. Subito dopo,
l’impulso fu di correre lì, agguantarli e spaccargli la testa a tutti e due, ma si trattenne fortunatamente e riuscì in fretta a recuperare il controllo: non voleva che scoppiasse uno scandalo, che li avrebbe resi quanto meno lo zimbello di tutto il personale del teatro, e non voleva che ci fossero ripercussioni sul proseguimento dello spettacolo. Ma gliel’avrebbe fatta pagare, questo era poco ma sicuro. Così, strinse i pugni, si allontanò in silenzio, lasciando i due a portare a termine il loro misfatto, e tornò in camerino, meditando vendetta.
Poco dopo fu chiamato in scena per l’apertura del secondo atto, quell’aria “Ella mi fu rapita”, che con la sua accorata disperazione aveva commosso non poco il pubblico in sala.
Uscito precipitosamente di scena dopo le ultime battute, senza neanche fermarsi ad assaporare gli applausi scroscianti, Anacleto si era abbandonato finalmente alla sua furia feroce: passato il primo momento di doloroso sconcerto, ormai il suo unico chiodo era la vendetta… Doveva fargliela pagare a quel farabutto, doveva fargliela pagare cara.
Continuava ad aggirarsi per il minuscolo stanzino come una belva impazzita, l’aria era sempre più soffocante, sempre più irrespirabile, le immagini, che il grande specchio gli rimandava, sempre più odiose, l’idea di un altro atto da recitare gli dava la nausea: sarebbe andato via sbattendo la porta, se solo avesse potuto.
D’un tratto, gli arrivò, da lontano, dal palcoscenico la voce attutita del gobbo, quella voce così bella, così pastosa, così dura nella sua furia violenta:
“Sì, vendetta, tremenda vendetta
Di quest’anima è solo desio…”.
“Sì, vendetta! – mormorò allora a denti stretti – Ma sarai tu a subire la mia, farabutto! Ti farò rimpiangere il momento stesso in cui hai pensato di tradirmi! Con me hai sempre fatto lo smorfioso e poi ti fai sbattere il culo dal siparista! Cos’ha più di me quella mezza sega?”
E naturalmente non gli passò neanche per la testa cosa potesse avere LUI qualcosa più di Marcello il siparista e come quel “qualcosa” potesse davvero costituire un ostacolo insormontabile per il povero Romeo.

Ed eccoci al terzo atto: il Duca corteggia la sfacciata Maddalena, mentre in disparte, nascosti dietro un riparo, Rigoletto e la povera Gilda assistono a quelle schermaglie amorose.
Anacleto, nei panni del Duca di Mantova, si sentiva il cuore in tumulto, mentre cercava faticosamente di mantenere il controllo in scena. Fu facile cantare “La donna è mobile”: gli bastò focalizzare la mente sul volto del traditore Romeo, il che contribuì a dare all’aria quel certo tono sprezzante, che il pubblico e la critica apprezzarono molto; ma quando si placarono gli applausi, il tenore Anacleto ebbe quasi un mancamento.
“Non ce la faccio…”, mormorò e fu sul punto di perdere il fiato e fuggire dal palcoscenico.
Ma ecco giungere Maddalena, ecco iniziare la schermaglia: “Un dì, se ben rammentomi, o bella, t’incontrai…”, e la musica ebbe allora il sopravvento, i suoi crucci per un momento si sopirono; e quando, prendendole la mano, iniziò: “Bella figlia dell’amo-o-re, schiavo son dei vezzi tuo-o-i…”, il ricordo dell’ultima volta che Romeo glielo aveva bisbigliato lo travolse, la commozione lo punse, l’amore tornò a illuminare il suo cuore e lui decise che lo avrebbe perdonato… sì, avrebbe perdonato quel bastardo traditore, ma non senza avergliela fatta prima pagare!
A memoria d’uomo, quella rimase una delle più memorabili esecuzioni del sublime quartetto: il suo trasporto sembrò trasfondersi in tutti gli altri, che cantarono in uno stato di grazia assoluta.

Rientrati in albergo, dopo la consueta cena in ristorante, più che altro uno spuntino, vista l’ora:
“La recita è andata bene, non trovi?”, disse Anacleto.
“Credo proprio di sì. – concordò Romeo, abbracciandolo – Sei stato magnifico… E con quel costume, poi… stavo per innamorarmi pure io di te…”, e lo strinse fra le braccia, cercandone le labbra.
Era un bell’uomo Romeo, baritono dalla voce possente e dal fisico prestante; i primi fili argentati dei suoi quarant’anni alle tempie e nella corta barba ne accentuavano il fascino virile. Facevano davvero una bella coppia lui e il talentuoso tenore Anacleto, detto Anaconda, e si amavano molto, anche se sulla scena si ritrovavano spesso ad essere accaniti rivali e mortali nemici.
Il lungo bacio non poteva avere che una conclusione: dopo pochi minuti i due erano avvinghiati sul letto, senza essersi nemmeno tolti le scarpe. L’anaconda spasimava nelle mutande già bagnate di Anacleto e Romeo spasimava dalla voglia di lapparne il nettare amarognolo, che sgorgava copioso nei momenti di massima eccitazione.
Allungò, allora, la mano fra le cosce dell’amante e strinse con un gemito di voluttà, l’enorme randello sotto i pantaloni, nella trepidante aspettativa di gustarne il sapore sulla lingua; ma non meno voluttuoso fu il gemito di Anacleto a quella stretta, nella sua non meno trepidante aspettativa di sentirselo avvolgere dalla lingua calda e vogliosa dell’amante. In breve, le scarpe furono scalciate ai quattro angoli della camera; le camicie vennero sbottonate freneticamente e strappate via; i pantaloni slacciati, le patte aperte e violate da mani impazienti, mentre le labbra erano baciate, i capezzoli morsicati, i petti leccati, gli ombelichi frugati da lingue altrettanto impazienti.
È difficile descrivere quanto succedeva fra quei due corpi nella foga della loro passione scatenata. Poi anche i pantaloni furono tolti via e i due si ritrovarono a sessantanove, con ancora indosso le mutande, entrambe fradicie sul davanti. Anacleto era steso di sotto, come sempre, e Romeo non perse tempo a gettarsi con la bocca sull’enorme randello, che pulsava steso di traverso sotto il tessuto degli slip. L’afrore del sesso maturo, misto all’odore dolciastro delle palle sudate, lo faceva impazzire e come un invasato cominciò a mordicchiare convulsamente il rilevante profilo, respirandone l’afrore e grufolando col muso nella sacca dei coglioni come un maiale. Poi lo tirò fuori, lo strinse in pugno, lo scappellò e si diede a slinguarne il glande viscido di sugo.
Anacleto non fu certo da meno: con le mani tremanti di un’emozione, che era la stessa della prima volta, afferrò la cintura degli slip e la fece scivolare sotto le natiche, mettendole a nudo, poi affondò il volto nello spacco del culo, cercando l’orifizio, che leccò con foga amorosa, prima di infilarci la lingua fino in fondo. Nella foga del piacere, Romeo rispose come sempre, strizzandola con lo sfintere e incrementando lo slinguamento attorno al glande spugnoso.
Anacleto adorava leccargli l’ano, infilarci la lingua fin dove poteva, ma la consapevolezza, quel giorno, di leccare il buco che un altro aveva scopato, di ficcare la lingua dove un altro aveva ficcato il cazzo, dove un altro aveva sborrato, la sensazione fuggevole di sentirne perfino il sapore, lo rendeva ancora più frenetico. Travolto dal piacere, Anacleto quasi si dimenticò della sua vendetta, della punizione che intendeva infliggere all’amante, quale prezzo del suo perdono, ma l’immagine di Marcello, che se lo stava fottendo dietro le quinte, gli balenò improvvisa nella mente e lo rese nuovamente determinato.
Allora, fulmineamente, scivolò via da sotto Romeo e senza dargli tempo di capire cosa stesse succedendo e men che meno di reagire, gli andò sopra e gli puntò il cazzo sull’apertura grondante di saliva, dando una leggera spinta.
“Cosa fai?”, gemette Romeo, appena si rese conto delle sue intenzioni.
“Ti voglio…”, mormorò l’altro con la voce arrochita dal desiderio.
“No, ti prego…”, fece Romeo terrorizzato, cercando di sottrarsi alla presa.
“Non muoverti!”, grugnì Anacleto, tenendolo con determinazione e dando un’altra spinta.
Per quanto il buco fosse stato ammorbidito dalle leccate, l’intrusione della grossa anaconda non poteva essere indolore.
“Ahhhh… mi fai male…”, prese a dibattersi Romeo, sia pure inutilmente.
Per fortuna, il glande era morbido e abbondantemente scivoloso di saliva e di umori prespermatici, per cui sgusciò agevolmente oltre la stretta degli sfinteri e una volta dentro, metà dell’opera era compiuta.
L’avanzata fu lunga e faticosa, accompagnata dai gemiti sommessi di Romeo, che ormai sembrava aver accettato il suo destino e non si divincolava più, sussultava soltanto ad ogni ad ogni piccolo avanzamento del mastodontico nel suo culo martoriato.
Fu a questo punto che la ragionevolezza si fece strada nell’animo di Anacleto: si rese conto della sofferenza che stava infliggendo all’uomo che diceva di amare, si rese conto che a spingerlo era più il desiderio di punirlo, che non di raggiungere un piacere a lungo agognato, anche perché un piacere, per goderne, bisogna essere in due, e qui lui era da solo.
Allora si vergognò, l’anaconda gli si afflosciò sul più bello e lui la ritrasse fuori ormai inerme.
“Perdonami…”, sussurrò, quasi con le lacrime agli occhi.
Romeo si afflosciò sul letto. Il dolore all’ano era ancora forte, ma si andava attenuando e gli lasciava come una strana, spiacevole sensazione di vuoto. Girò la testa a metà sopra la spalla.
“Perché lo hai fatto?”, gli chiese, ma senza risentimento.
Anacleto tacque. Adesso la vergogna gli toglieva quasi la parola.
“Ti ho visto… dietro le quinte con… Marcello…”, disse alla fine.
“E volevi punirmi per questo?”, avvampò Romeo, tirandosi in piedi con un guizzo e sovrastandolo, mentre l’altro gli stava in ginocchio davanti a testa bassa.
“Perdonami… - disse ancora Anacleto con voce rotta – ti amo così tanto…”
Stavolta fu Romeo a sentirsi un verme: aveva ceduto alla tentazione di un momento, incurante di tutto, del torto che avrebbe arrecato ad Anacleto, della possibilità di essere scoperti, come era infatti successo, e proprio dall’ultima persona che avrebbe dovuto venirne a conoscenza. E forse fu quest’ultima considerazione a farlo vergognare di più.
Gli si inginocchiò davanti: non aveva nessun motivo per sentirsi indignato, per sentirsi superiore a lui. Erano pari, pari nel torto subìto ed arrecato. Ma forse era ancora possibile ricucire lo strappo.
“Mi dispiace, - disse – ho sbagliato, ho commesso un grosso errore… Non so perché l’ho fatto, davvero, non so spiegartelo. E non voglio neanche scaricare la colpa addosso a Marcello: sono stato io a provocarlo. Vorrei dirti che ti amo, ma temo che non mi crederesti… Se non mi vuoi più, cacciami via… me lo merito.”
L’altro sollevò la testa di scatto:
“Cacciarti via? – gemette, abbracciandolo stretto – E che farei senza di te?”
Restarono a lungo abbracciati, lasciando che il calore dei corpi nudi, stretti l’uno all’altro, sopisse le tensioni e raddolcisse gli animi.
“Sai, - disse Romeo, dopo un ennesimo bacio – l’anaconda non mi ha fatto, poi, così male… Magari… potremmo riprovarsi…”
“Sì… - rispose Anacleto con gli occhi brillanti, e non solo di libidine – possiamo riprovarci… Ma facciamo una doccia, prima… Puzziamo come due capre…. Vieni.”, e presolo per mano, si diressero verso il bagno.
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