Gay & Bisex
E' una ruota che gira
di adad
31.08.2022 |
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"”
“Smettila di perdere tempo con il garzone… - le fece il verso sottovoce don Emilio – Scusala, Vincenzì, quella… - e alzò gli occhi al cielo - Noi ci..."
Vincenzino era un uomo di fatica nella tenuta del barone don Ettore Cerfoglio di Calzabriga, un nome altisonante che, in un certo senso, conferiva una sorta di lustro pure a lui. Ma a Vincenzino, del lustro che poteva derivargli dalla casata, per cui lavorava, non poteva fregargliene di meno, lui che non sapeva neanche quando era nato. Era giunto da ragazzino alla tenuta di don Ettore, un ragazzino affamato e macilento, che era stato accolto solo per pietà, salvo sbatterlo a lavorare nelle stalle, non appena era stato in grado di reggere un forcone o strigliare un cavallo.Ma quello che la sorte gli aveva sottratto, privandolo di tutto, la natura glielo aveva restituito con una splendida complessione fisica, che il duro lavoro lungi dal rovinare, aveva negli anni ulteriormente migliorato.
E adesso, a quasi trent’anni Vincenzino era uno splendido giovane, bello di volto e robusto di fisico… se avesse anche altre qualità, per il momento ancora non lo sappiamo. E nulla gli toglieva l’aspetto sporco e trasandato, nulla i vestiti vecchi e sbrindellati che indossava, o i capelli arruffati, nulla: al di sotto di quegli stracci fioriva una bellezza che niente avrebbe potuto oscurare.
Ma lui ovviamente non lo sapeva: la scheggia di specchio appesa sopra il catino, in cui si lavava, gli restituiva soltanto una parte del suo volto; per cui possiamo dire che Vincenzino non aveva neppure una visione totale di se stesso.
E forse proprio per questo era sereno e tranquillo.
Quella mattina, Vincenzino era impegnato a spalare lo strame nelle stalle: lo ammucchiava da una parte, come faceva sempre, e poi lo caricava su un carretto da scaricare nel letamaio. Era giugno inoltrato e faceva caldo già a quelle prime ore del mattino; dopo un po’ il garzone era talmente fradicio di sudore che si era tolta la camicia e si sarebbe tolti pure i pantaloni, se non fosse stato per una questione di decenza.
Ad un tratto, ebbe la sensazione di non essere più da solo. Si voltò di scatto: un giovane in maniche di camicia lo stava osservando appoggiato con la spalla ad una staccionata, un filo di paglia fra le belle labbra sorridenti.
Vincenzino rimase un momento stranito, con la pala a mezz’aria, chiedendosi chi fosse.
“Ciao, Vincenzì, - disse quello, staccandosi dalla staccionata e facendoglisi incontro – vedo che stai bene.”
Qualcosa nella voce e nelle fattezze del volto gli dissipò ogni incertezza:
“Don Emilio! – esclamò – vi siete fatto grande…”
“Eh, sì, - rispose quello – è passato qualche anno. E’ davvero un piacere rivederti.”, e gli tese la mano.
Il garzone esitò, quasi si vergognasse; poi, vedendo la mano che don Emilio continuava a tendergli, si sfregò la sua sulla coscia e gliela strinse.
“Eravate un ragazzino, quando siete andato via e adesso vi siete fatto un bel giovane, che Dio vi benedica…”, mormorò.
“Anche a te, Vincenzì…”, rispose don Emilio, con gli occhi che gli luccicavano di
commozione e di gioia.
“Siete tornato per fermarvi?”
“Quest’estate senz’altro, poi vediamo… Se mio padre non mi offre un lavoro qui alla tenuta, torno in città a cercarmi un impiego.”
“Don Ettore ci tiene ad avere tutto sotto controllo.”, disse Vincenzino, rimettendosi la camicia, quasi non gli sembrasse buono stare a torso nudo davanti al padrone.
L’altro scoppiò a ridere:
“Hai ragione, Vincenzì.”, disse, dandogli una pacca cordiale sulla spalla.
“Emilio!”, risuonò una voce femminile poco lontano.
“E’ mia sorella, - sbuffò don Emilio – cosa vorrà adesso quella rompiscatole.”
“Emilio, - continuò la sorella, fermandosi a una certa distanza - smettila di perdere tempo con il garzone: la mamma ti vuole parlare.”
“Smettila di perdere tempo con il garzone… - le fece il verso sottovoce don Emilio – Scusala, Vincenzì, quella… - e alzò gli occhi al cielo - Noi ci vediamo presto, d’accordo?”, e gli tese nuovamente la mano, che stavolta Vincenzino non esitò a stringergli, sia pure brevemente, quasi non volesse farsi accorgere dalla signorina.
Vincenzino riposava su uno strato di fieno, nel soppalco sopra la stalla. Era quella la sua casa: d’estate si stava al fresco, grazie alla brezza che spirava dal finestrone senza imposte, d’inverno invece bastava scavarsi una tana nei mucchi d’erba secca e profumata per riposare meglio di un re.
Le mani intrecciate dietro la nuca, Vincenzino non dormiva, guardava le stelle pulsanti di luce nel cielo d’inchiostro, e pensava. Pensava a don Emilio: era un ragazzino quando era andato via… Quanto tempo fa?... almeno una decina d’anni, fra il collegio e l’università. Aveva sentito la mancanza di quel ragazzino sempre gentile con lui… Poi non ci aveva pensato più… e adesso eccolo tornare… dottore laureato! Ma sempre cordiale con lui, un povero garzone mezzo analfabeta. Ci vediamo presto, gli aveva detto… Beh, è possibile: per farsi sellare un cavallo, doveva per forza passare per le stalle… ma sentiva che l’antica familiarità non sarebbe più tornata: erano passati tanti anni, don Emilio era cresciuto, era diventato un signore… e lui era rimasto l’uomo di fatica, che spala il letame dalle stalle.
Era perso in questi pensieri e non si accorse dell’ombra che sbucava dalla botola del soppalco, finché non gli si stese al fianco.
“Chi è?”, sobbalzò, tirandosi a sedere.
“Shhhh! Sono io, Vincenzì, non ti spaventare.”
“Don Emilio, che ci fate quassù?”
“E smettila con questo don Emilio! – lo riprese dolcemente il giovane – Ti ricordi, quando mi chiamavi Emiliuccio?”
“E’ passato tanto tempo…”, disse Vincenzino con amarezza.
“Dieci anni…”
“Già… e adesso siete un bel giovane… e dottore…”
“Smettila. Non sai quanto ho pianto, i primi tempi che sono andato via. Quanta nostalgia avevo… delle nostre serate… di te…”
Vincenzino si sentì avvampare a quell’accenno.
“Ricordi le nostre serate, Vincenzì?”
“E’ passato tanto tempo…”
“Io non le ho dimenticate… non ho dimenticato niente, Vincenzì.”
“E’ passato tanto tempo… - ripeté in un soffio il garzone – siete cresciuto… siete un signorino…”
“E credi che mi importi? Ho passato dieci anni nel ricordo… dieci anni a immaginare il momento in cui sarei tornato… e ti avrei raggiunto quassù, nel fienile… come allora…”
“Don Emilio…”, il tono di Vincenzino era quasi implorante.
“Vuoi dire che non mi hai mai pensato in questi anni?”
“Ho pensato a voi, ogni notte, don…”
“No!”
“Emiliuccio…”, si arrese il garzone, quasi con le lacrime agli occhi.
“E allora, fammelo, Vincenzì… ti prego… come ti pregavo allora…”
E gli si tirò a sedere al fianco, poggiandogli la testa sul petto nudo.
Allora Vincenzino si arrese, gli passò un braccio sulle spalle, stringendolo a sé, mentre con l’altra mano tremante gli slacciava i pantaloni, gli scivolava nelle mutande e impugnava il cazzo, che fremette al ruvido tocco.
Dieci anni sembrarono in un attimo cancellati: don Emilio fu di nuovo il ragazzino voglioso e Vincenzino il garzone accondiscendente: gli tirò fuori l’uccello fremente, stupendosi di quanto fosse cresciuto, e lentamente cominciò a masturbarlo.
Don Emilio sospirò stringendosi a lui: amava sentirselo stretto da quella mano callosa… era la sensazione che amava di più. Negli anni del collegio aveva provato a farsi masturbare da qualche compagno, ma le mani delicate dei suoi coetanei lo avevano quasi disgustato: quella vigorosa di Vincenzino che gli carezzava le palle o gli segava l’uccello, invece, sapeva trarre da lui un piacere sconvolgente.
Dopo i primi movimenti incerti, quasi titubanti, la vogata divenne sicura, tanto che presto don Emilio cominciò a sguaiolare negli spasimi dell’orgasmo imminente.
“Shhhh… silenzio, Emiliù… non farti sentire…”, gli bisbigliò Vincenzino come una volta e, come una volta, dandogli un bacio sulla fronte, mentre una fiumana di sborra schizzava fuori con scatti violenti.
Alla fine, Vincenzino allungò la mano, prese la sua camicia e lo ripulì alla meglio.
Poco dopo erano stesi sul fieno fianco a fianco, a guardare le stelle pulsanti di luce nel cielo d’inchiostro.
“Quanto mi è mancato tutto questo… - sospirò don Emilio – Mi è mancato l’odore del fieno, l’odore delle bestie di sotto… il tuo odore, Vincenzì…”
“E a me è mancato il vostro…”
“Davvero?”
“Sì… - confessò Vincenzino - e solo adesso mi rendo conto di quanto mi è mancato…”
E di quanto mi sei mancato tu, pensò… ma questo non osò dirlo.
Da quella notte, le visite di don Emilio si fecero regolari: ad una certa ora, quando nel palazzo tutti dormivano, soprattutto i servi, che sono i più pettegoli e pericolosi, il giovane sgattaiolava fuori e raggiungeva l’amico nel soppalco del fienile, dove si consumava l’usuale rito.
Ma se da ragazzino si era contentato del piccolo piacere di una sega, da adulto cominciava a sentire di volere qualcosa in più; così una notte, mentre Vincenzino si apprestava a slacciargli i pantaloni, don Emilio se li tolse del tutto, mostrandosi per la prima volta all’amico nella sua nuda baldanza giovanile. Poi gli prese la mano e prima se la passò addosso, sul petto, sull’addome, sulle palle… rabbrividendo alla ruvida carezza di quelle dita callose, poi se la portò alla bocca, ingoiò un dito, leccandolo e succhiandolo con passione, infine:
“Dai, Vincenzì, ficcamelo dentro…”, disse anelante, portandoselo in mezzo alle gambe e accostandoselo al buco del culo.
Il povero garzone, che già era rimasto scombussolato alla vista delle nudità padronali, non tanto del cazzo, che già conosceva, quanto delle palle ballonzanti, che già si era estasiato a sentirsi scorrere sotto le dita quella pelle vellutata, che già era turbato dall’afrore che si sprigionava dolciastro dal sesso che l’altro, in piedi davanti a lui, gli sventolava praticamente sotto il naso, nel ritrovarsi adesso con il dito puntato sul tenero pertugio, preso da un raptus di follia, non esitò a spingerglielo dentro, agevolato dal fatto che lo stesso don Emilio si lasciò andare, come a venirgli incontro.
Il dito di Vincenzino sprofondò interamente nel culo di don Emilio, per quanto fosse appena bagnato da un filo di saliva, raspandone con la sua callosità le delicate pareti. Ma lungi dal fargli male, questo graffìo sembrò accrescere maggiormente il piacere perverso che il giovane stava provando, tanto che, ad un certo punto, mentre il dito di Vincenzino continuava a fotterlo, si afferrò lui stesso l’uccello e prese a masturbarsi furiosamente, spruzzando in un lampo tutto il volto di Vincenzino di sbroda collosa.
Al primo schizzo inaspettato, Vincenzino si trasse indietro e così facendo tirò fuori il dito dal retto di don Emilio; il quale, però, ancora in piena foga orgasmica, si chinò, gli afferrò il volto fra le mani e prese a leccare a tutta lingua le strisce biancastre che lo solcavano, finché, raggiunte le labbra, le forzò con la lingua ormai impazzita e gli scivolò nella bocca con un gemito di assoluta voluttà.
Intendiamoci, don Emilio non era uso ad avere questo tipo di rapporti: l’unico contatto con un altro uomo erano state le seghe che si era fatto tirare da Vincenzino e da qualche compagno di collegio, come si è detto, ma quel dito che inopinatamente si era infilato nel culo, sembrava aver scoperchiato un vaso di lussuria, al confronto del quale quello di Pandora era un vasetto di balsamo per la tosse. Appena smesso, infatti, di stuprargli la bocca con quel bacio furibondo, tutt’altro che placato, don Emilio afferrò la camicia di Vincenzino e gliela strappò di dosso a brandelli, fiondandosi a mordergli i grossi capezzoli, a leccargli il sudore acre dal petto peloso e dall’addome; per slacciargli infine i pantaloni, cavarglieli senza tanti complimenti e tuffarsi nel suo inguine, annusando, baciando leccando…
Bisogna dire, a onor del vero, che Vincenzino cercò di fermarlo, di sottrarsi a quelle lubriche attenzioni, continuava a dirgli:
“No, don Emilio… don Emilio cosa fate… fermatevi, per carità…”
Ma don Emilio era come posseduto dal demone della lussuria e niente riusciva a fermarlo, men che meno Vincenzino, che alla fine si arrese, lasciandosi suo malgrado travolgere da quella passione, che dopo un po’ cominciò a ricambiare tutt’altro che mal volentieri.
Finché don Emilio afferrò il cazzo duro di Vincenzino e, poggiatoglisi col volto sulla pancia, lo masturbò, lasciando che il seme gli schizzasse tutto sulla faccia, accolto da gridolini estasiati.
“Cosa abbiamo fatto…”, mormorò angosciato Vincenzino qualche tempo dopo, mentre guardavano le stelle pulsanti di luce nel cielo d’inchiostro.
“Sta zitto, Vincenzì… abbiamo fatto quello che desideravamo tutti e due da chissà quanto tempo…”
“E adesso?”
“Adesso? – fece don Emilio, sollevandosi sul gomito e fissandolo negli occhi – Adesso lo faremo ancora… o non vuoi?”
“Certo che voglio, ma voi siete…”
“Vincenzì, - disse l’altro dopo avergli sfiorato le labbra con un bacio veloce – io sono uno che ti vuole bene e mi piacerebbe che anche tu ne volessi a me. Sono uno che ha perso la testa vicino a te… L’ho persa tanto tempo fa e non l’ho più ritrovata… Io sono uno che si sente felice solo quando sta con te. Ti basta?”
“Io sono analfabeta… - rispose Vincenzino - non so parlare bene come voi… ma tutto quello che avete detto era pure il mio cuore a dirlo… Ma voi siete il padrone e io sono l’uomo di fatica…Avete addosso gli occhi di tutti…”
“A me bastano gli occhi tuoi, Vincenzì. Staremo attenti, non preoccuparti. Si sta così bene, quassù nel fienile…” e tornarono ad abbracciarsi, impazienti.
“Cos’hai stamattina, Vincenzì? – gli disse la vecchia cuciniera, mentre gli serviva una fetta di pane e formaggio con un boccale di vino caldo per colazione – hai un’aria luminosa…”
Vincenzino fece spallucce:
“Si vede che ho dormito bene, stanotte.”, rispose, mentre ripensava a quanto era successo lassù nel fienile e a quanto gli prospettava il futuro.
Poi, alzandosi e vuotando il boccale con un ultimo sorso:
“La vita è una ruota che gira…”, disse enigmaticamente e uscì per andare alle stalle.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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