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Racconto di Natale


di adad
11.12.2021    |    9.389    |    8 8.6
"Aveva gli occhi chiusi e un sorriso beato sulle labbra..."
Era la Vigilia di Natale, ma nessun addobbo, nessuna luminaria ornava la mia vecchia casa, la casa dei nonni e dei nonni dei nonni, a malapena rimessa a posto alla meglio secoli prima. La stanza più bella della casa era la grande cucina, che ormai serviva anche da soggiorno e camera da tutto, e la cosa più bella della cucina era il monumentale camino dalla cornice di pietra scolpita, sulla cui mensola riposavano i ricordi più cari della mia vita. O dovrei dire “della mia lunga vita”, essendo ormai sulla soglia delle ottanta primavere… o degli ottanta inverni, vedete voi.
Avevo acceso nel camino il grosso ceppo di Natale, che avrebbe dovuto bruciare fino all’Epifania, ma in realtà non arrivava neanche all’anno nuovo: era questa l’unica concessione che facevo alle antiche tradizioni, quando la casa pullulava di domestici e bambini.
Quante calze erano state appese sotto quella mensola, generazioni di calze, comprese le mie, ai bei tempi della mia fanciullezza. Le mie calze erano state forse le più rattoppate di tutte, essendo ormai la famiglia in grande declino, ma i miei poveri genitori non le avevano lasciate mai vuole, né le mie, né quelle dei miei fratelli… i miei fratelli… ormai tutti morti… tutti sepolti accanto ai genitori nel cimitero del paese, accanto ai nonni.
Mi riscossi dalla marea montante dei ricordi e fissai con gratitudine le fiamme guizzanti del ceppo di Natale, mentre mi raggomitolavo nella grossa poltrona davanti al camino e mi avvolgevo nel pesante plaid di lana, che uno dei miei fratelli mi aveva portato dalla Scozia in anni lontani. Fuori, il cielo pesante minacciava di nevicare, ma la cucina era calda, e quel tepore mi fu particolarmente gradito, forse perché conservava qualcosa dei passati affetti familiari… Una nuova marea di ricordi mi si presentò alla memoria, ma io strinsi i pugni per non farmene sopraffare, e lanciai un’occhiata al tegame di minestra che una vicina premurosa mi aveva portato poco prima: avrei dovuto metterla a scaldare…
“Adesso mi alzo…”, pensai e mi persi nuovamente ad inseguire il guizzo delle fiamme.
Non era il primo Natale che passavo da solo, da quando era morto anche l’ultimo dei miei fratelli e i nipoti non sapevo neanche che fine avessero fatto: aspettavano solo che morissi per vendere la casa. Io non mi sono mai sposato, perché… beh, diciamo che non ne ho mai avuto l’occasione… e questo vi basti. Non amo parlare della mia vita privata: è un baule, questo, di cui ho sempre gelosamente conservato le chiavi. Nessuno saprà mai i sogni, i pensieri, i desideri che ci sono dentro: verranno tutti con me nella tomba.
Ero perso nella contemplazione delle fiamme, quando sentii come una presenza vicino a me. Sul momento non ci feci caso, pensai ad un refolo di vento da qualche fessura della finestra; ma poi la presenza si fece più reale. Non sobbalzai, come forse avrei dovuto fare: mi limitai a distogliere lo sguardo dal fuoco e a girare un po’ la testa. Bastò perché vedessi davanti a me, leggermente di lato, un giovane sulla ventina… l’aria era familiare, ma non poteva essere... Forse avrei dovuto saltar su e urlare a squarciagola, come in certi film di horror, ma non lo feci, anche perché non ne avrei avuto la forza.
Continuavo, invece, a fissarlo, non riuscendo a capire cosa stesse succedendo.
“Non mi riconosci?”, chiese l’ombra con voce malinconica.
“Salvatore!...”, esclamai, incredulo… stupito…
Lui sorrise e mi si fece più vicino. Era bello, mio Dio, come era stato bello a vent’anni, con quel sorriso malizioso, i capelli scompigliati… Un alone luminoso sembrava emanare dalla sua persona.
“Ma non è possibile… - esclamai - tu sei morto…”
“Ma tu non mi hai dimenticato.”, rispose soltanto e si sedette vicino a me, nel posto che gli avevo fatto sulla grande poltrona.
E come avrei potuto dimenticarlo? le nostre scorribande sulla vecchia auto di suo padre, seduto vicino a lui che guidava, stordito dal suo odore, divorato dal desiderio di toccarlo…
“Perché sei qui?”, gli chiesi.
“Non sei contento di vedermi?”
“Mio Dio…”
Sentii l’emozione soffocarmi. Allungai una mano e gli sfiorai il braccio: era reale… non era un’ombra… E reale era la mano che strinse la mia… calda e forte … come la ricordavo, quando gliela stringevo per salutarlo. Ero felice che fosse lì, anche se non ne capivo il motivo, né il come fosse possibile.
Fossimo stati in un racconto di Dickens, avrei detto che era il fantasma di uno dei miei Natali passati… ma eravamo nella realtà della mia cucina ormai offuscata dalla penombra del tardo pomeriggio invernale. Ma era davvero importante?
Mi godetti per un momento la sua presenza, il suo calore…
“Perché sei qui?”, gli chiesi ancora.
“Perché avevi bisogno di vedermi.”, rispose.
Mi sentii percorrere da un brivido.
“Sei venuto a prendermi?”
Salvatore scoppiò a ridere, quella risata piena, squillante, allegra, quella risata franca che era uno dei ricordi più belli di lui.
“No, che ti salta in mente?”
“Perché, allora, dopo tutti questi anni?”
“Perché so che ci sono delle cose che non mi hai detto, non è così?”
Sentii gli occhi che mi si riempivano di lacrime.
Lui rimase in attesa e mi strinse la mano.
“Ero innamorato di te…”, mormorai a fior di labbra.
“Eri?...”
Oh, Gesù benedetto! Quell’ombra mi leggeva direttamente nel cuore.
“Non ti ho mai dimenticato.”, confessai ed era vero.
“Perché non me l’hai mai detto?”
“E come facevo? Chi me lo dava il coraggio?... Non ricordi in che mondo vivevamo?”
“Lo so e forse se me lo avessi detto, mi avresti rovinato la vita. – disse Salvatore con amarezza – Ma quante volte ho aspettato che tu facessi un gesto, che mi aprissi i pantaloni, che mi toccassi… Non sentivi i brividi, quando per gioco mi sfioravi il culo?”
“E tu ti tiravi indietro…”
“Dovevo…ma perché non hai insistito? Perché non hai mai fatto quel passo in più? Come avrebbe potuto essere diversa la nostra vita.”, quanto rammarico c’era in quelle parole.
“Mi dispiace, ti ho coinvolto nelle mie paure e ho finito col rovinare tutto.”
“Chissà come sarebbe stato fare l’amore noi due… io e te…”
Lo carezzai sulla guancia.
“Non lo sapremo mai…”, dissi.
Salvatore mi fissò con i suoi dolcissimi occhi.
“Perché?”, fece, carezzandomi pure lui sulla guancia.
“Guardami, Salvatore: credi che sia ancora in grado di farlo?”
“Perché non dovresti? Siamo nel fiore degli anni…”, e mi prese la mano, portandosela in mezzo alle gambe.
Tastai il rigonfio del suo cazzo duro. Ma a colpirmi fu la mia mano, che non era più quella rugosa e tremante di un ottantenne… e subito dopo sentii le mie spalle che si risollevavano, non più oppresse dal peso degli anni. E insieme un fuoco che mi investiva, mi riscaldava il sangue e mi ridava le perse energie. L’eccitazione mi tornò a scorrere nelle vene e d’impulso, mentre stringevo con foga il suo cazzo duro sotto i pantaloni, mi protesi verso di lui, lo abbracciai e cercai le sue labbra. Baciarlo fu il sogno d’una vita! Finalmente le mie labbra si poggiavano sulle sue.. la mia lingua scivolò nella sua bocca senza incontrare resistenza o ripulsa, avvolse la sua, ne gustò il sapore… dolce come un favo di miele. So che sono soltanto parole, queste, immagini letterarie logorate dall’uso, ma non abbiamo altro mezzo per esprimere, per comunicare le nostre emozioni, per rendere partecipi gli altri delle nostre sensazioni. Ma il guaio vero è che le parole, anche le più intense e significative rendono solo una pallida ombra della realtà, dei sentimenti che stiamo vivendo.
D’un tratto eravamo per terra, abbracciati sul tappeto polveroso davanti al camino. Eravamo nudi, avvinghiati l’uno all’altro, le labbra incollate alle labbra, le braccia attorno ai nostri corpi, i bacini premuti spasmodicamente, come a volersi assorbire, diventare un tutt’uno palpitante di passione. Il mio cazzo duro… duro come non lo ricordavo da una vita, sfregava contro il suo traendone fitte lancinanti di piacere.
Il tempo per noi non era mai passato: in quel momento eravamo di nuovo due ventenni assetati di scoprire la vita. Le sue mani mi brancolavano lungo tutta la schiena, mi strapazzavano le chiappe pelose; le mie mani brancolavano lungo tutta la sua schiena, gli strapazzavano le chiappe invece lisce, levigate. Eravamo due ragazzi famelici, che scoprivano allora, per la prima volta, le inesprimibili voluttà del sesso… del sesso cercato, desiderato e finalmente trovato.
Mi liberai dalle sue braccia e lo costrinsi a stare disteso sulla pancia, mentre io gli carezzavo e baciavo le spalle, la schiena e lungo il solco della spina dorsale, fino a quel punto supremamente fascinoso, in cui le natiche iniziano a tondeggiare e separarsi. E lì persi la testa: afferrai a piene mani le sue natiche, una per mano, e mi diedi a baciare, leccare, mordicchiare quella pelle morbida e levigata, sotto cui si indovinavano muscoli guizzanti.
E lentamente le aprii, intrufolai il muso nello spacco, spingendo avanti la lingua, senza vedere dove andasse. Ma la lingua sapeva dove andare e lo trovò… trovò la mucosa tenera e calda dell’orifizio, che si aprì ad accoglierla, come per un bacio.
“Oh… - mi giunse la voce soffocata di Salvatore – no… no… no…”
Ma non si mosse e io non lo ascoltai: continuai a leccare quel buchetto morbido, come forse non avrei pensato al tempo della nostra conoscenza, ma come mille volte ho sognato più tardi, quando ormai lui non c’era più.
A poco a poco, le sue proteste si placarono e lo sentii che si abbandonava al piacere che gli stavo procurando e che doveva essere per lui particolarmente coinvolgente, oltre che nuovo, perché d’un tratto lo sentii irrigidirsi, mentre si scuoteva con un grugnito e il suo sfintere mi si serrava attorno alla lingua.
Non capii subito che stava godendo: quando me ne resi conto, mi tirai su e lo rigirai sulla schiena: effettivamente, era tutto bagnato e dall’uccello duro gli spurgava ancora un colata densa di sborra. Aveva gli occhi chiusi e un sorriso beato sulle labbra.
Non volevo perdermi quella prelibatezza: mi chinai e ingoiai una buona metà del suo cazzo che si andava smollando, ma ancora sborrava con deboli scatti. L’odore del suo seme era penetrante, sapeva di animalesco, di selvatico, come certi fiori di bosco dopo un temporale. Ma non mi dispiaceva: era il profumo del seme, l’aroma pregnante dell’essenza maschile, che tante volte avevo respirato nel corso degli anni, ma mai così intenso.
Non chiedetemi che sapore avesse la sua sborra: ne ricordo la consistenza viscida sulla lingua, ma non il sapore. Mi tenni a lungo il suo cazzo in bocca, finché non fu del tutto molle e non ne venne fuori più niente.
Per tutto questo tempo, Salvatore non disse niente, aveva gli occhi chiusi e il respiro pesante di chi ha avuto un orgasmo particolarmente intenso. Quando mi distesi accanto a lui ancora pieno delle mie voglie, senza mai aprir gli occhi, Salvatore mi passò un braccio sotto le spalle, stringendomi a sé, mentre con l’altra mano prese a carezzarmi con leggerezza il petto, indugiando sui capezzoli e scendendo pian piano verso il basso. Finalmente raggiunse il pube, infilò le dita nei peli, mi vellicò le palle con le unghie affilate, facendomi rabbrividire; e infine impugnò il cazzo, stringendolo forte.
Allora aprì gli occhi, mi fece un sorriso luminoso e cominciò a segarmi con devastante lentezza.
“Gigi…”, sospirò, mentre tornava a baciarmi…..

Era notte fonda, quando mi destai dal torpore che mi aveva preso. Mi guardai attorno, non c’era nessuno accanto a me, steso a terra sul tappeto davanti al camino. L’orologio luminoso sulla mensola di pietra segnava le 3.45… Cos’era successo? Davvero, era stato da me lo spirito di Salvatore o l’avevo solo sognato? Eppure era stato tutto così vero… Ma quante volte quelle apparizioni notturne ci ingannano con tanto realismo da non renderci conto al risveglio se abbiamo davvero vissuto quei momenti o è stato solo un sogno? A chi non è mai successo? Scossi la testa come per schiarirmela e rimettere a fuoco la vista.
Il ceppo di Natale continuava a bruciare, tingendo di bagliori rossastri il buio della stanza. Fuori, aveva preso a nevicare. Mi rialzai a fatica, con tutte le ossa doloranti, e spinsi la poltrona un po’ più vicino al camino, tornando a sistemarmici più comodamente, dopo essermi stretto attorno il plaid di pesante lana scozzese. Poggiai la testa sul bracciolo e chiusi gli occhi. Mi sentivo la mente sgombra e il cuore una volta tanto sereno.
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