Gay & Bisex
La favorita - 2
di adad
16.07.2023 |
5.383 |
7
"Per la prima volta si ritrovò a non subire gli assalti dell’altro, ma ad essere lui, con le mani e con la sua bocca, a dargli piacere..."
Da quel giorno, la vita di Cleto cambiò radicalmente: non più continui spostamenti per strade impervie e attraverso foreste pericolose; non più pernottamenti nei bivacchi o in ricoveri di fortuna; non più pasti solo raramente definibili tali; ma una sistemazione sicura e una posiziono onorevole nella piccola società del castello di San Giustino.Per tutti, Cleto era il nuovo economo, succeduto al frate marpione; a parte le lunghe passeggiate all’aria aperta nelle belle giornate di quella tarda primavera, passava il resto del tempo nello studiolo a compulsare pergamene o nei magazzini a controllare le scorte di grano, le botti di vino, le giare di olio e tutto il resto con una tale minuziosa accuratezza, che più nessuno era riuscito a sottrarre neanche una cipolla o una testa d’aglio, senza che lui lo scoprisse.
“Neanche fosse roba sua!”, mugugnavano servi e furbetti, rimpiangendo la rilassata gestione del frate, durante la quale ognuno andava e rubacchiava quello che voleva.
Ma la sera, finiti gli impegni e consumata la cena, si ritiravano nella camera del conte e passavano piacevolmente la serata: il ragazzo gli raccontava dei suoi viaggi, delle notti passate all’addiaccio, delle meraviglie che aveva visto, delle insidie da cui aveva dovuto guardarsi, delle persone che aveva incontrato, quando era al servizio del suo vecchio padrone; e il conte lo ascoltava incantato, seguendolo con la fantasia, fremendo con lui ai pericoli corsi e immaginando, attraverso le sue parole, i palazzi, le chiese, i mosaici, i viaggi sul mare e il valico pericoloso di monti lontani.
E a sua volta, gli raccontava le tante battaglie, i tornei in cui aveva abbattuto i più valenti campioni, le dame che lo avevano gratificato… Ma su questi argomenti non si dilungava, non scendeva nei particolari, si sentiva come frenato da un senso di pudore.
E poi c’erano le notti infuocate, le notti di sesso, forse meno forsennate della loro prima volta, ma non meno coinvolgenti ed appaganti per entrambi.
Il conte aveva familiarizzato con la sua ibrida figura e ne sembrava affascinato ogni giorno di più. La presenza di quel caldo sesso femminile in un sodo corpo maschile lo faceva fremere di desiderio, non solo, ma non gli dava minimamente la sensazione di commettere una trasgressione alle leggi di Dio o degli uomini. È vero che, tecnicamente parlando, Cleto era un uomo, ma il sesso con cui si univano era quello di una donna… La cosa importante, però, quella che metteva a tacere qualsiasi remora era il grande appagamento, e non solo fisico, che traeva da quei congiungimenti.
Anche Cleto familiarizzava ogni giorno di più con fisico robusto e virile di Rodolfo, ma soprattutto cominciava ad apprezzare quella verga massiccia e calda, che a lui era stata negata e di cui, tutto sommato, adesso cominciava a non sentire più la mancanza. Adesso che era proprio la sua anomalia a permettergli quei contatti così intimi e gratificanti con un uomo che tanto ammirava.
Qualche maligno potrà sospettare che Cleto si stesse innamorando di Rodolfo. E
se anche? La mentalità del tempo non contemplava l’amore fra due uomini, lo sappiamo, ma dopo una vita di umiliazioni e sofferenze, dopo aver rischiato una morte orrenda, dopo essere stato venduto e comprato, non aveva forse il diritto di provare affetto verso l’unica persona che lo accettava per come era, che non provava orrore per la sua mostruosità, anzi ne traeva piacere, e gli dimostrava ogni giorno considerazione e rispetto?
E poi, se è vero che il cazzo piace a tutti, quello poderoso di Rodolfo di San Giustino a lungo andare non poteva non produrre i suoi effetti su Cleto. E ad essere onesti, bisogna dire che l’andare non fu lungo, prima che questi cominciasse a palpeggiare quel magnifico arnese. All’inizio, fu la curiosità che lo spinse a toccare con mano l’organo fremente che a lui era stato negato; poi scoprì la gioia di guardarlo, di carezzarlo, di vederlo crescere, di sentirselo diventare duro fra le mani, da quel tenero capezzolo di mucca che era prima. E Cleto sorrideva con un brivido di libidine all’idea del tenero capezzolo che si mutava nell’organo fremente di un toro, impaziente di penetrare la sua “micetta”, come affettuosamente Rodolfo la chiamava.
Una sera, i due erano sul letto, dopo aver fatto l’amore; il conte lo aveva posseduto con l’ardore di sempre. La brezza della notte estiva entrava dalla minuscola finestra e sfiorava i loro corpi nudi quasi fosse una fresca carezza. Come faceva spesso, in questi momenti di quiete, dopo un orgasmo turbolento, Rodolfo gli teneva una mano poggiata sulla vagina, rovistandoci dentro con uno o due dita viscide dello sperma, che lentamente scolava fuori.
Ripensandoci più tardi, Cleto non riuscì mai a capire cosa lo spinse, tutto d’un tratto, a rigirarsi testa piedi (oggi diremmo a sessantanove) e, puntellandosi su un gomito, stette un pezzo a guardare il pisello molle di Rodolfo, allungato di traverso sul folto ciuffo del pube, i grossi coglioni, uno dei quali era scivolato fra le cosce appena aperte, l’addome piatto, che si sollevava e si abbassava al ritmo del respiro. L’inguine dell’uomo era fradicio di sudore e di sperma, ma quell’afrore, pur pesante, non lo scoraggiò: se gli fece arricciare il naso di primo acchito, ne fu ben presto assuefatto e si ritrovò a respirarlo con una voluttà tutta nuova per lui.
Cleto si chinò ancora di più e prese a fiutare da vicino, prima le palle, poi il boschetto umido e il sesso, fino alla punta, da dove sgorgava ancora un filo di sperma. Rodolfo osservava quelle manovre, dapprima incuriosito, poi via via eccitato, tanto più che, approfittando della posizione, gli aveva infilato tre dita nella figa e lo andava con quelle sgrillettando, mentre anche il suo cazzo andava riprendendo velocemente vigore, ergendosi sempre più turgido.
Fu a questo punto che Cleto ruppe gli indugi e avvicinò la punta della lingua alla cappella spugnosa, completamente snudata. Entrambi rabbrividirono, Rodolfo a quel contatto inaspettato, Cleto al sapore acidulo della bava che la ricopriva. Seguì un attimo di sospensione spasmodica, come davanti a qualcosa di ignoto, combattuti fra timore e desiderio, poi Cleto chiuse gli occhi, dischiuse le labbra e d’impulso ingoiò la grossa testa del cazzo di Rodolfo.
Il giovane strabuzzò gli occhi:
“E questo… dove… hai imparato… a farlo…”, balbettò, sommerso da un piacere che mai fino ad allora aveva conosciuto.
Ma Cleto non lo udì neanche, tutto preso in questo nuovo gioco, in cui scopriva di essere lui, per una volta, ad avere un ruolo attivo. Per la prima volta si ritrovò a non subire gli assalti dell’altro, ma ad essere lui, con le mani e con la sua bocca, a dargli piacere.
Quasi annientato, Rodolfo subì per qualche momento quanto gli veniva fatto, poi, come preso da un raptus, si avventò sulla figa del compagno e prese a slinguazzarla come un forsennato, aprendola con le dita, infilando la lingua in profondità e, di tratto in tratto, succhiando a fil di labbra il minuscolo clitoride eretto. Ormai avevano perso entrambi il lume della ragione, guidati com’erano unicamente dall’istinto primordiale, animalesco, di darsi e ricevere piacere.
Cleto succhiava la grossa cappella, con una mano manipolando il fusto palpitante dell’uccello e con l’altra smanacciando con lo scroto voluminoso, che andava via via rattrappendosi. Rodolfo gli grufolava nella figa e grugniva, come un maiale che scava col muso nella terra alla ricerca di radici, e la sua barba e i suoi baffi gli graffiavano la delicata mucosa, accrescendone il piacere.
Infine, la natura seguì il suo corso: il conte Rodolfo perse il controllo, si tese come un arco e con un grugnito prolungato cominciò a pompare corposi fiotti di sperma nella bocca di Cleto, che a tutta prima si irrigidì mezzo disgustato, ma poi deglutì in fretta, non potendo, o non pensando di poter fare altro, fino a ritrovarsi a lappare golosamente gli ultimi fievoli sgorghi, che colavano lungo la cappella.
“E questo dove lo hai imparato?”, gli chiese di nuovo Rodolfo, una volta ripreso il controllo, rigirandosi per sdraiarglisi al fianco.
Cleto fece spallucce, non potendo ancora parlare con la bocca impastata di sperma.
“Voi lo avete fatto a me tante volte…”, disse poi.
“Non è la stessa cosa, - fece il conte – tu non mi vieni in bocca.”
Stettero un pezzo senza parlare, ognuno evidentemente ripensando a quanto era successo.
“Come… come è stato?”, gli chiese poi il conte in tono esitante.
Cleto lo guardò senza capire.
“Voglio dire… ricevere in bocca il… il mio… seme.”
“Non me lo aspettavo… cioè, è successo all’improvviso…”
“Ma lo hai ingoiato…”
“Che altro potevo fare?”
“Sputarlo fuori.”
“Sputarlo fuori, signore? Sputare fuori voi?”, esclamò Cleto quasi incredulo.
Un’idea del genere non gli sarebbe mai passata per la testa: gli sarebbe sembrato un sacrilegio. Ma come poteva spiegarglielo?
“Non mi è dispiaciuto.”, rispose, invece.
Da quella volta, le loro serate si arricchirono di ulteriori piacevolissimi giochi: la loro intesa sessuale si faceva di giorno in giorno sempre più completa ed intrigante, al punto che il conte, ormai guarito, non dava alcun segno di voler riprendere l’antica caccia alle gonnelle dentro e fuori il castello. Il che era motivo di non poche chiacchiere, nessuna delle quali, però, si avvicinò mai al vero motivo di quella insolita morigeratezza. L’ipotesi più ragionevole e condivisa fu che a seguito del grave incidente avuto nel corso dell’ultimo torneo, la virilità del conte avesse subito un qualche danno, si sperava non irreparabile, tanto da fargli preferire la compagnia dell’economo a quella di qualche vezzosa donzella.
“Certe volte, giocano a scacchi o chissà cos’altro fino a tarda notte, tanto che alla fine lo trattiene a dormire nel suo stesso letto!”, commentò una volta il vecchio siniscalco, scuotendo la testa.
Ma nessuno mai si azzardò anche solo a sospettare quale fosse la natura degli altri giochi che trattenevano svegli il conte e l’economo fino a notte fonda.
“Peccato che non sei una donna anche nel resto…”, sospirò una notte il conte, carezzandogli dolcemente il petto sudato dopo il sesso.
“Perché?”, chiese Cleto.
“Perché, se tu lo fossi, potrei dirti che ti amo, potrei sposarti… mi daresti dei figli…”
Cleto si sentì annientare da quelle parole così vere, così incontestabili: se fosse una donna anche nel resto… ma non lo era! Ma non era neanche un uomo… non era né l’uno, né l’altro… cos’era in definitiva?
“Questo significa… - disse con un filo di voce – che un giorno o l’altro tutto questo finirà?”
“No! – protestò il conte, stringendolo a sé – Cosa ti salta in mente? Significa solo che un giorno dovrò decidermi a prendere una sposa, ad avere dei figli: me lo impone il mio rango, lo sai. Ma tu… tu sarai sempre nel mio cuore, Cleto caro… tu sarai sempre la mia favorita!”
“Il vostro favorito…”
“Qualunque cosa…”, mormorò il conte, baciandolo.
E stava per aggiungere “perché ti amo”, ma questo non era permesso dalle leggi degli uomini, né da quella più terribile di Dio, e Rodolfo di San Giustino represse quella parola proibita nel più profondo della sua anima.
Fine
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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