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Lupo Rosso - 1


di adad
23.09.2019    |    14.013    |    12 9.5
"Mi chiamo Dagmar, ma il nome che corre con terrore sulla labbra dei miei nemici è Rotwulf, il Lupo Rosso…” A quel nome, ogni goccia di sangue divenne..."
La vita scorreva tranquilla a Lindisfarne, scandita dal ritmo liturgico dell’abazia. I monaci lavoravano, pregavano, e soprattutto cercavano di diffondere tra i selvaggi pagani la parola e gli insegnamenti di Nostro Signore.
Le estati si succedevano agli inverni, le primavere agli autunni, ma nulla cambiava nella vita regolare dell’abazia, come nulla cambiava nella vita di Ethwood, se non il lavoro, che si faceva più pesante di anno in anno.
Ethwood era un servo dell’abazia: ancora bambino, i suoi lo avevano venduto ai monaci, non potendosi permettere, nella loro indigenza, di nutrire un’altra bocca; e appena la sua costituzione glielo aveva permesso, i monaci lo avevano messo a guadagnarsi il poco pane che gli veniva dato. Ciò nonostante, nonostante la fatica e gli stenti, Ethwood era diventato un bellissimo giovane, dal corpo asciutto e armonioso, e dagli occhi d’un verde più intenso delle acque del mare in certi giorni di bonaccia. Aveva ormai superato i diciotto anni, ma non vedeva cambiamenti nell’orizzonte della sua vita: neanche li concepiva, del resto, come non concepiva l’esistenza di un altro mondo al di fuori delle alte mura dell’abazia.
Scalzo, la tunica rimboccata in vita, le gambe schizzate di liquame, Ethwood era intento alla pulizia della porcilaia, quella mattina.
La porcilaia era alquanto discosta dal corpo dell’abazia, oltre le stalle e le latrine, onde il fetore non offendesse le delicate narici dei monaci: fu questo forse, oltre ai grugniti isterici dei maiali che scorrazzano per il recinto, a non fargli sentire il fracasso del grande portone che veniva sfondato; come non avvertì le urla di guerra dei norreni che si avventavano sulla chiesa, dove i monaci erano riuniti per le funzioni religiose.
Fu quando le urla si avvicinarono, che Ethwood realizzò che qualcosa non andava. Sul momento non si rese conto della situazione; ma quando, spiando tra le fessure dell’alta staccionata, vide il terribile spettacolo dei monaci terrorizzati, che fuggivano, cercando un riparo, e dei guerrieri inferociti che li inseguivano, fracassando all’uno la testa con l’ascia insanguinata, all’altro trapassando la schiena con l’enorme spada, capì che stava succedendo anche da loro quanto aveva sentito raccontare di altre città e abazie: erano giunti i razziatori norreni, i diavoli pagani nemici di Dio, che portavano strage e distruzione dovunque arrivassero!
Quella consapevolezza per un momento lo paralizzò, gelandogli il sangue nelle vene; poi, d’istinto si guardò attorno a cercare un rifugio…
Ma cosa poteva costituire un nascondiglio che lo mettesse al sicuro da quei demoni? Le gambe gli tremavano, quando, facendosi largo fra i maiali impauriti, corse al cancelletto, lo spalancò e si lanciò per un vicoletto, rischiando di scivolare ad ogni passo per i piedi impiastricciati di liquame.
Si ricordò che c’era un foro nelle mura, dietro le latrine, attraverso il quale le deiezioni scolavano fuori: pensò, allora, che se fosse riuscito ad intrufolarvisi, avrebbe potuto o nascondersi nel condotto, o uscire all’esterno e celarsi in qualche anfratto della scogliera.
Ma aveva fatto poca strada in quella direzione, quando un colpo sordo alla testa gli spense la luce negli occhi e lui si afflosciò a terra privo di sensi e forse anche della vita.
***
Il sole stava calando oltre l’orizzonte, quando Ethwood riaprì gli occhi. La luce pur morente del sole lo abbagliò e una fitta lancinante gli squassò la testa. Volle toccarsi, per vedere se c’era qualcosa di rotto, ma si accorse di avere le mani legate… Cos’era successo? Ricordò che stava scappando verso lo scolo della fogna, quando… i norreni lo avevano catturato! Sentì attorno a sé gemiti sommessi, oltre al vociare chiassoso dei guerrieri, che festeggiavano il successo della scorreria, e allo strepito dei maiali che venivano macellati per il grande festino che sarebbe seguito. Enormi fuochi erano già stati accesi qua e là.
Riuscì nuovamente ad aprire gli occhi e a guardarsi attorno: si trovava legato mani e piedi all’interno di un recinto, oltre il quale i guerrieri norreni ammucchiavano il bottino razziato nell’abazia in vista dell’imminente spartizione: si davano manate sulle spalle, ridendo fragorosamente e vociando in una lingua selvaggia, di cui Ethwood non riusciva a capire neanche una parola. Attorno a lui giacevano, altrettanto legati e spauriti, i pochi che erano riusciti a scampare alla carneficina, monaci e novizi, dalle vesti stracciate e ferite sanguinanti.
Cosa avevano intenzione di fare di loro? Dividerseli come il resto del bottino, per venderli poi schiavi? o sacrificarli ai loro barbari dei?... o si sarebbero divertiti a torturarli nei modi più efferati? Quante atrocità aveva sentito raccontare Ethwood su di loro.
Avrebbe voluto rivolgere la parola a qualcuno degli altri infelici prigionieri, ma quelli lo avevano sempre trattato con tale alterigia, che neanche in una così tragica situazione il giovane trovò il coraggio di avvicinarli.
D’un tratto, proprio nel bel mezzo di queste cupe riflessioni, la sua attenzione fu attirata da un urlo corale e cadenzato: guardò verso quella direzione e vide gli uomini che acclamavano qualcuno, sollevando sopra la testa il braccio armato di spada o di scure. Doveva essere arrivato il loro capo. Poco dopo, infatti, la cortina di uomini si aprì e il giovane vide avvicinarsi al recinto un guerriero, il cui torso era avvolto da una pelle di lupo: i capelli e la barba riccioluti luccicavano alla luce dei falò come fili di rame.
Aprì il cancelletto traballante ed entrò, aggirandosi da solo fra i prigionieri. Poi, si avvicinò a lui e lo indicò, disse qualcosa nella sua lingua gutturale ed uscì. Subito, due guerrieri entrarono ridacchiando, lo afferrarono per le braccia e di peso lo portarono tremante verso la riva del mare. Che volevano da lui? Intendevano sacrificarlo a qualche loro divinità marina?
“Pater noster, qui es in coelis…”, cominciò a balbettare Ethwood con un filo di voce, aspettandosi ormai il peggio.
Arrivati sulla battigia, i due aguzzini lo slegarono e gli tolsero di dosso la tunica a brandelli, lasciandolo con solo la fascia del pudore; dopo di che, tornarono a prenderlo per le braccia e lo trascinarono in mare. Giunti con l’acqua alle ginocchia, il terrore per la morte imminente ebbe il sopravvento e il povero Ethwood perse il controllo degli orifizi. Al che, scompisciandosi dalle risate, i due energumeni gli strapparono dall’inguine pure la fascia e lo attuffarono nudo nell’acqua, lavandolo energicamente. Lo riportarono, quindi a riva, dove li aspettava un terzo uomo, che cominciò a prendere manate di cenere da un bacile, che aveva con sé, spalmandogliela su tutto il corpo, sulla testa e, impudicamente, perfino sui genitali e nello spacco del culo.
Quando fu interamente coperto e impastato di cenere, tutti e tre presero a strofinarlo e a massaggiarlo, con l’evidente scopo di ripulirlo il più possibile. Ormai rassegnato al suo destino e deciso a sacrificare la sua vita per il Signore, Ethwood lasciava fare, sopportando con stoica rassegnazione perfino quando quelle mani pagane si soffermavano a strofinarlo con sacrilega impudicizia in quei punti che lui stesso aveva orrore di toccare.
Quando furono soddisfatti, lo spinsero ancora in mare, lo risciacquarono bene; finché, dopo averlo asciugato alla meglio, gli infilarono una tunichetta pulita e lo condussero verso una grande tenda, che doveva essere quella del capo.
Infatti, una volta entrato, Ethwood lo scorse in un angolo, sdraiato su un giaciglio di pelli di orso, che lo fissava, tenendo in mano una coppa d’argento.
Era lo stesso che lo aveva liberato dal recinto degli schiavi: era a torso nudo e questo metteva in mostra la poderosa muscolatura del suo petto.
Gli fece cenno di avvicinarsi e quando gli fu davanti, l’uomo dall’apparente età di trentacinque o quaranta anni, gli allungò la coppa con quello che sembrava un sorriso. Ethwood la prese con mano tremante e, al cenno dello sconosciuto, bevve un sorso del buon vino dell’abazia. E quando Ethwood fece per restituirgliela:
“Bevi ancora, - gli disse quello con voce profonda – bevi ancora e non aver paura, non ti farò del male.”
Quando si rese conto che gli aveva parlato nella sua lingua, il ragazzo sgranò gli occhi:
“Parli la mia lingua…”, esclamò scioccamente.
“Parlo la tua lingua e ti consiglio di imparare presto la mia. Mi chiamo Dagmar, ma il nome che corre con terrore sulla labbra dei miei nemici è Rotwulf, il Lupo Rosso…”
A quel nome, ogni goccia di sangue divenne ghiaccio nelle vene di Ethwood, le gambe presero a tremargli e lui temette di afflosciarsi a terra: era lui, dunque, il terribile Lupo Rosso, sul quale tante atrocità aveva sentito raccontare… Si afferrò le mani, per impedire che se ne vedesse il tremore. Ma la sua paura non sfuggì a Dagmar, che con ghigno feroce:
“Vedo che hai già sentito parlare di me, - gli disse – ma non temere: ti ho scelto per me, sei al sicuro. Terrai in ordine la mia tenda e le mie cose, terrai lucide le mie armi e terrai caldo il mio letto di notte. Questo sarà il tuo dovere.”
Non aggiunse altro, non ce n’era bisogno.
Confuso com’era dal sollievo di non finire sacrificato a qualche dio pagano, Ethwood capì fino ad un certo punto le richieste del suo nuovo padrone, ma fece cenno di sì, quasi incapace di parlare.
A quel punto:
“Vai al fuoco e prenditi da mangiare, - gli disse l’uomo – poi torna qui ad aspettarmi, quando avrò bisogno di te.”
Detto questo, rivestì la pelle di lupo e uscì per raggiungere i suoi guerrieri.
***
La notte era fonda e gli schiamazzi attorno ai fuochi si andavano spegnendo. Ethwood aspettava col cuore in gola il ritorno del padrone: sensazioni diverse si accavallavano nel suo animo, ma a prevalere era il terrore. Per quanto benevolo gli si fosse mostrato, era pur sempre lui, il feroce guerriero Lupo Rosso, il cui solo nome faceva sciogliere le budella. E adesso era il suo padrone. Invano cercava di controllare il tremito delle mani, se era vero anche solo la metà di quanto aveva sentito raccontare dai fuggiaschi giunti all’abazia, forse sarebbe stato meglio per lui rimanere ucciso durante la razzia… quale sarebbe stato il destino, adesso? il norreno gli aveva detto di non aver paura… ma c’era da fidarsi di un selvaggio senza Dio?
Era nel pieno di questi cupi pensieri, quando la tenda si aprì e Dagmar Rotwulf fece il suo ingresso. Alla fioca luce dell’unica torcia, appariva ancora più imponente. Ethwood si rannicchiò nell’ombra, sperando forse di passare inosservato; Dagmar si tolse la pelle di lupo, si sfilò le brache di pelle, restando nudo, e giratosi verso di lui:
“Vieni, ragazzo.”, gli ordinò con voce ancora ferma, nonostante la quantità di vino che doveva aver bevuto.
Ethwood si alzò e si avvicinò piano, evitando di guardare la nudità dell’uomo che intanto si era sdraiato sul giaciglio di pelli e si lisciava le prebende già in semi erezione. Quando fu vicino:
“Qua”, gli fece l’altro, battendo con la mano accanto a lui.
Esitante, il ragazzo si sdraiò al suo fianco, stringendosi addosso la veste. Dagmar si girò verso di lui e allungò la mano per carezzarlo. Il ragazzo si tirò indietro, con il terrore che urlava negli occhi sbarrati.
“Non aver paura… - mormorò Dagmar – non ti faccio niente”, sfiorandogli la guancia con il dorso della mano.
“Sei ancora intatto?”, gli chiese.
Ethwood non rispose, ma non avrebbe capito neanche se non fosse stato mezzo paralizzato dalla paura.
“Lo immaginavo.”, proseguì Dagmar, parlando più a se stesso.
Cercò di infilargli la mano sotto la veste per carezzarlo, ma Ethwood si rannicchiò su se stesso, stringendosi addosso la veste ancora di più. Dagmar cercò di reprimere la tentazione di ricorrere alla forza: quel ragazzo non era come gli altri, da cogliere e gettare via; no, aveva qualcosa che lo toccava nel profondo: forse valeva la pena dedicarci un po’ di tempo; ma l’eccitazione procuratagli dall’ebbrezza del vino e dalla vittoria premeva troppo nei suoi lombi: l’uccello era teso allo spasimo e urlava il suo bisogno di essere soddisfatto, le grosse palle gli dolevano e gli trasmettevano un dolore sordo in tutto il basso ventre.
La furia predatoria del maschio prevalse allora e gli obnubilò la mente: senza neanche rendersi conto di cosa stava facendo, Dagmar prese l’inerme ragazzo, lo girò con forza sulla pancia, gli sollevò l’orlo della tunica fino a scoprirgli le natiche e con un grugnito gli si adagiò sopra, insinuandogli nello spacco il cazzo viscido di umori. Presagendo cosa stava per succedere, Ethwood prese a dibattersi, cercando scrollarselo di dosso; ma nulla valse: l’uomo lo tenne con forza e, individuato il pertugio, spinse dentro con un colpo secco.
Il dolore lo aggredì come uno schianto: Ethwood spalancò la bocca in un urlo muto, poi tutta l’aria che aveva nei polmoni eruppe fuori e lui gridò, gridò come un ossesso, finché non ebbe più fiato in gola e il respiro gli si ridusse ad un rauco rantolio, mentre l’energumeno, penetratolo del tutto, iniziava energicamente a pompare dentro di lui.
Per fortuna, il livello di eccitazione era tale, che gli bastarono pochi colpi a venire e con urlo selvaggio Dagmar inarcò il corpo teso e con un ultimo affondo gli scaricò dentro il suo seme con raffiche squassanti.
Finito che ebbe, gli sfilò dal culo il bigolone ormai smollato e, toltoglisi di dosso, si abbandonò al sonno dei giusti.
(continua)
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