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Batocchio - 1


di adad
15.01.2020    |    16.971    |    13 9.7
"Solo in quel momento Raimondo realizzò di essere totalmente esposto e, fattosi le guance di fuoco, si raccolse in una mano i genitali, coprendoseli alla..."
Lo avevano soprannominato Batocchio ma in realtà si chiamava Raimondo. Lo avevano soprannominato Batocchio, ma guai a farsi sentire da lui: era capace di incazzarsi come una iena e siccome era anche un giovanottone bello robusto, era consigliabile non correre il rischio di beccarsi uno sganassone.
Era un giovanottone bello robusto, ma anche bello di viso, con i suoi lineamenti regolari, anche se un po’ arcigni, i capelli biondi e inanellati, come un prode cavaliere negli affreschi rinascimentali, e i grandi occhi che traevano in inganno con la loro luminosità.
Già, traevano in inganno, perché a dispetto di questo, Batocchio… ehm!... Raimondo aveva un carattere spigoloso, difficile, portato più a mollare cazzotti, che non ad allungare carezze. E la radice o, per meglio dire, la causa di tutto questo era proprio il batocchio (stavolta con la minuscola) che si portava in mezzo alle gambe.
Ora, chiunque di noi andrebbe fiero di un tale dono di madre Natura e cercherebbe di valorizzarlo e ostentarlo nel modo migliore; ma per lui era il contrario. Da ragazzino, infatti, gli era successo che un giorno, mentre si stava cambiando nello spogliatoio della piscina, vedendolo con questo affare che gli arrivava praticamente a mezza coscia, il gruppo dei suoi amici aveva cominciato a prenderlo in giro:
“Guarda il Raimondo che batocchio! Batocchio! Batocchio! Batocchio!” e non l’avevano più smessa.
Raimondo era tornato a casa tutto mogio, quasi piangente, ma non aveva detto niente a nessuno. Solo che perpetuandosi l’insulto fino a diventare un soprannome, il poveretto se ne era fatto un complesso che gli stava rovinando l’esistenza. Non aveva più una vita sociale, viveva per conto suo, da solo, nella casetta che aveva ereditato dai nonni alla periferia del paese, con l’unica compagnia di un gatto che chiamava affettuosamente Trippa. E in effetti, Trippa era il suo unico amore, l’unico essere davanti al quale non avrebbe dovuto vergognarsi per il suo spropositato batocchio.
Già, Trippa era il unico amore: nonostante avesse ormai quasi trent’anni, infatti, Raimondo non aveva una ragazza; anzi, non aveva mai goduto finora delle gioie del sesso, a parte quelle concessagli dalle mani… già, dalle mani, perché gli servivano entrambe per azionare un batocchio di quella portata. Neanche con le professioniste era mai andato: solo l’idea della faccia che avrebbero fatto davanti alla sua nudità, degli sberleffi con cui lo avrebbero bersagliato, gli faceva accapponare la pelle.
E Trippa era rimasto il suo unico amore, l’unico essere di cui si fidava, l’unico al quale osava mostrarsi nudo, sapendo che mai lo avrebbe preso in giro.
Una mattina, mentre scendeva le scale per andare al lavoro, Raimondo incrociò sulle scale un giovane elegante, moro di capelli, che saliva con una valigetta ventiquattro ore.
“Buongiorno”, lo salutò lo sconosciuto con un sorriso e un cenno della testa.
“Buongiorno”, rispose bruscamente Raimondo, dandogli un’occhiata distratta, e proseguì senza fermarsi.
Uscì in strada e non ci pensò più: perché avrebbe dovuto, del resto? In un condominio è facile incontrare sulle scale gente mai vista prima.
La sera, era tornato dal lavoro e aveva appena finito di fare una doccia, quando sentì suonare alla porta. La cosa lo stupì: mai nessuno passava da lui a trovarlo ed era troppo tardi perché fosse qualche rappresentante o altra sorta di rompicoglioni.
Spinto dalla curiosità, si avvolse attorno alla vita il telo da bagno e si avvicinò alla porta, incollando l’occhio allo spioncino. Era una faccia familiare… dove l’aveva già vista? Poi ricordò: lo sconosciuto che la mattina lo aveva salutato sulle scale.
Non aveva nessuna intenzione di aprire e fece per tirarsi indietro; ma quello probabilmente scorse l’ombra di un movimento e mosse la mano come per un saluto. A questo punto, fu costretto a socchiudere l’uscio, facendo capolino solo con la testa.
“Mi scusi se la disturbo, - fece lo sconosciuto con un sorriso disarmante – mi chiamo Fulvio… sono venuto ad abitare nell’appartamento di fronte al suo… ma credo che non sia un buon momento per lei…”.
“Ha bisogno di qualcosa?”, chiese Raimondo quasi a muso duro, socchiudendo ancora un poco la porta.
“Oh, per la miseria, mi scusi! – esclamò Fulvio, tirandosi indietro nel vederlo seminudo, con un telo da bagno attorno alla vita – Mi scusi… non immaginavo…” e fece per andarsene.
Pentito per il suo tono sgarbato, Raimondo aprì del tutto la porta e si fece avanti, sporgendo a destra e a sinistra la testa, come a controllare se c’era gente, che lo vedesse.
“No, aspetti, mi dica…”, disse più conciliante.
Fulvio si voltò verso di lui e rimase per un momento a fissarlo, ammirato dal suo fisico asciutto e, credo, dalla evidente sporgenza del telo all’altezza dell’inguine.
“Mi chiamo Fulvio, - ripeté, porgendogli la mano – e le chiedo ancora scusa del disturbo.”
“Di niente. – rispose lui – Molto piacere, Raimondo.”, e gli tese a sua volta la mano per una solida stretta.
L’iniziale contrarietà era scomparsa, sostituita da un leggero moto di simpatia nei confronti dell’altro, che continuava a fissarlo con sorridente sfrontatezza.
“Diceva?”
“Sì… che sono appena venuto ad abitare nell’appartamento di fronte al suo… ci siamo incrociati stamattina sulle scale, ricorda?”
“Sì… c’è qualcosa che non va?”
“Ecco… non riesco a far funzionare la caldaia dei riscaldamenti e volevo chiedere a lei… immagino che siano tutte uguali…”
“Ha aperto la chiavetta del gas sotto la finestra della cucina?”
“Beh, certo… ma non succede niente e non mi fido a schiacciare bottoni a caso.”
“Okay, - fece Raimondo – mi vesto e vengo a dare un’occhiata.”
“Grazie. L’aspetto di là.”
“Ma no, accomodati da me, - esclamò Raimondo, passando senza accorgersene al tu – immagino che farà freddo nel tuo appartamento. - e si fece di lato per lasciarlo passare – E’ parecchio che è rimasto vuoto.”
Aveva appena richiuso la porta, quando Trippa spuntò miagolando dalla cucina.
“Ehi, chi abbiamo qui?”, esclamò Fulvio, accosciandosi, mentre il gatto gli andava vicino e cominciava a strusciarglisi contro.
“Va via”, cercò di allontanarlo Raimondo.
“No, lascialo, adoro i gatti. – fece l’altro e prese a carezzarlo, mentre il gatto ronfava con maggiore vigore – come si chiama?”
“Trippa. – rispose Raimondo – E a quanto pare gli sei simpatico.”
“Spero di essere simpatico anche al padrone…”, disse Fulvio, arrossendo un poco, mentre sollevava gli occhi a guardarlo.
“Vado a vestirmi.”, fece Raimondo, sentendosi pungere da un leggero senso di imbarazzo.
Ma proprio mentre si voltava per allontanarsi, Fulvio rialzandosi perse l’equilibrio e, allungando il braccio per cercare un appiglio, afferrò il telo che gli cingeva i fianchi e se lo portò dietro, cadendo.
Raimondo rimase davanti a lui del tutto nudo.
“Bontà divina!”, esclamò Fulvio, vedendo il molle batocchio, che spenzolava fin quasi a mezza coscia.
Dopo un attimo di imbarazzato sbalordimento, nudo com’era, Raimondo si chinò tendendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi. Fulvio si tirò in piedi, continuando a fissargli l’organo pendente. Solo in quel momento Raimondo realizzò di essere totalmente esposto e, fattosi le guance di fuoco, si raccolse in una mano i genitali, coprendoseli alla meglio e aspettandosi l’inevitabile scoppio di ilarità. Ma quello:
“Accidenti, che sberla! – esclamò tuttora sbalordito – Mai vista una meraviglia del genere…”
“Cosa…”, balbettò spiazzato Raimondo, che si aspettava tutt’altra reazione.
“Oh, scusami… - fece allora Fulvio, riprendendo il controllo – scusami, non volevo offenderti… ma davvero è la prima volta che vedo un uccello così…”, e fece in tempo a tacere fantastico.
“Così ridicolo?”, concluse Raimondo con un tono tra l’aggressivo e il disperato.
“Ridicolo? Ma cosa dici? Il tuo affare è… è grandioso…”
“Mi hanno sempre preso in giro tutti.”, continuò Raimondo.
“Per questo?”, fece Fulvio, andandogli vicino e spostandogli la mano.
“Mi chiamavano Batocchio…”, continuò il giovane, senza neanche accorgersi, nella sua amarezza, di cosa stava succedendo.
“Che Dio ti benedica per questo batocchio…”, mormorò Fulvio prendendoglielo in mano.
Quel contatto fu come una scossa elettrica per entrambi: per Fulvio nello stringere quel bigolo ancora molle, ma caldissimo e così stranamente levigato, e per Raimondo che per la prima volta si sentiva toccare nell’intimità da una mano che non era la sua. E per entrambi la risposta fu immediata: per Raimondo, che si sentì prendere da un insolito languore alla bocca dello stomaco, mentre il sangue iniziava ad affluire al suo sesso, dandogli turgore e insieme una sensibilità tutta nuova; per Fulvio, che con stralunato stupore si sentiva rinvigorire nella mano quel corpo molle, fino diventare un poderoso randello, sulla cui punta vide brillare ben presto una goccia traslucida di rugiada.
“Wow!”, fece allora, tirando giù la pelle e scappellandolo del tutto.
Mosse alcune volte la mano su e giù lentamente, come a prenderne confidenza.
“E ti hanno preso in giro per questo?...”, mormorò, inginocchiandosi e lappando con la punta della lingua la goccia di rugiada, che cominciava a colar fuori.
L’altro lo fissava senza dir niente, ancora incapace di capire come qualcosa che fino a poco prima era stata per lui fonte di umiliazione, potesse d’un tratto diventare oggetto di ammirazione, di desiderio… come potesse un altro… un altro uomo inginocchiarglisi davanti e… fargli quello.
E sì, perché mentre lui si dibatteva nei suoi dilemmi, Fulvio non aveva perso tempo a imboccarsi il cappellone spugnoso e a succhiarglielo golosamente.
Tutto era nuovo per il povero Raimondo: l’adorazione che vedeva prodigare al suo tanto deriso batocchio, come pure le sensazioni che innegabilmente la bocca e la lingua del suo nuovo amico gli stavano procurando. Avrebbe voluto fermarlo, avrebbe voluto dirgli “ma che cazzo stai facendo?”, ma non poteva, era troppo bello, troppo sconvolgente, tanto più che se con una mano l’altro continuava impugnargli la mazza, mentre gliela succhiava, con l’altra aveva preso a carezzarlo freneticamente dappertutto, impastandogli le chiappe, graffiandogli la schiena, lisciandogli le cosce. Due voci urlavano nella sua testa: una gli gridava “fallo smettere!”, l’altra “continua, continua, ti prego!”
Poi, Fulvio smise: si rialzò e gli sorrise con le labbra umide, sensuali:
“Andiamo in camera, vuoi?”, mormorò.
E lui, fissandolo negli occhi, si voltò, senza dire niente, lo prese per mano e lo condusse in camera da letto.

(continua)
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