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Frate Martino - 1


di adad
11.03.2021    |    15.058    |    10 8.4
"L’uomo, di nome Alterio, un trentenne robusto dalla zazzera arruffata di capelli brunastri, ghignava ad ogni sussulto del ragazzo: “Ti piace, puttanella…..."
E’ noto alle cronache come frate Martino… ma non il campanaro della nota canzoncina: questo era originario di Dammèlo, una piccola frazione di Godiminculo, quattro capanne e una chiesiola ai piedi di una collina tonda e pelata come la chiappa di una monaca. “Perché proprio la chiappa di una monaca?”, si chiederà il solito polemico.
Beh, state calmi e non mi scatenate contro le folle dei buonisti politicamente corretti: ho usato quell’espressione per il semplice motivo che mi è venuta spontanea e mi sembrava divertente. Sempre meglio della chiappa di un bambino, come termine di paragone: in primo luogo, perché questa è un’espressione ormai abusata e non dice più niente; e in secondo, perché non volevo che a qualcuno passasse per la mente di accusarmi di pedofilia: ormai noi poveri scrittori camminiamo sul filo del rasoio: quando non siamo sessisti, siamo pedofili, o suprematisti o chissà cos’altro diavolo sono capaci di inventarsi: insomma, dobbiamo pesare ogni parola col bilancino, a scapito ovviamente della creatività, che invece è libera come il vento.
Ma torniamo a noi: nato ai piedi di questa collina tonda e pelata come la chiappa di una monaca, i genitori lo avevano chiamato Martino, il santo dei poveri. E povero lo era davvero il piccolo Martino, ma a condizionare pesantemente la sua vita non fu la povertà della famiglia, bensì una insana passione nata perversamente nel suo animo e pervicacemente coltivata per tutta la vita.
Passione insana, si è detto, ma in realtà peggio che insana, in quanto non rivolta alle chiappe morbide e levigate di eteree fanciulle, monache o meno che fossero, bensì a quelle scultoree e nerborute di gagliardi giovanotti di ogni risma e ogni condizione. E fu proprio questa insana passione che lo portò prima a doversi chiudere in un monastero, e poi a trascinarlo in una rovinosa caduta verso la più abietta perdizione. Ma andiamo per ordine.
Aveva raggiunto la bella età di sedici anni, che a quei tempi era come i nostri venticinque, se non di più, visto che la gente cresceva più in fretta. Oddio, moriva anche più in fretta ed è per questo che ad un certo punto gli esseri umani pensarono bene di rallentare il ritmo, così che adesso abbiamo la fortuna di superare anche i novant’anni, se non di più.
Cosa stavo dicendo? Ah, sì, che Martino da Dammèlo, non ancora frate, aveva raggiunto la bella età di sedici, che allora ecc. ecc., e faceva il garzone nelle scuderie del Barone di Rottadicollo, potentissimo feudatario di quelle terre, quando un giorno, mentre accudiva i cavalli, gli capitò di scorgere con la coda dell’occhio il figlio quindicenne del Barone, che sgattaiolava verso il fienile. La cosa gli parve strana, anche se era abituato alle stramberie di quel ragazzo viziato: continuò a fare il suo lavoro, certo, ma una pulce curiosa gli era entrata ormai nelle orecchie e adesso lo teneva con i sensi allertati. E fu così che ad un certo punto gli giunse alle orecchie un fievole sguaiolio
Incuriosito, depose il rastrello, con cui stava radunando lo strame dei cavalli, e zitto zitto si diresse al fienile, strisciò fra i cumuli di fieno e… beh, quello che vide, lo lasciò all’istante senza fiato: il figlio del Barone, il giovane Wolfango, era disteso sulle ginocchia del maestro di stalla, che gli aveva tirato giù le braghe e gli carezzava le chiappette sode, dandogli ogni tanto dei leggeri schiaffetti, che avevano tinto la pelle delicata di un tenue, piacevolissimo rossore. L’uomo, di nome Alterio, un trentenne robusto dalla zazzera arruffata di capelli brunastri, ghignava ad ogni sussulto del ragazzo:
“Ti piace, puttanella… - diceva – ti piace farti lavorare questo bel culetto.”, e carezzava con più voglia le chiappette arrossate, dopo averci assestato una sculacciata più vigorosa.
Martino, in disparte, nascosto dietro un cumulo di fieno, si sentiva rimescolare a quello spettacolo. Era la prima volta che vedeva qualcuno con le braghe calate e la cosa lo intrigava, ma ancor più lo intrigava quello che l’uomo stava facendo e il piacere che il ragazzo mostrava di riceverne.
Un formicolio sempre più intenso cominciò a friccicargli nelle parti basse, sentì che l’uccello gli diventava duro e quasi senza rendersene conto se lo cavò fuori e prese a lisciarselo come aveva imparato a fare già da qualche tempo.
Alterio, intanto, continuava la sua opera con aria sempre più allupata. Adesso aveva allargato le chiappe di Wolfango e rimirava con occhio cupido il tremulo buchetto: ad un tratto ci sputò sopra e con un dito cominciò a spalmarci attorno la saliva, spingendolo sempre più dentro. Il ragazzo sguaiolava agitando le gambe, mentre il dito ruvido, forzando il blocco dello sfintere, affondava nel condotto. Ad un certo punto, Alterio ritrasse il dito e, tenendo il buco ben largo, ci sputò nuovamente sopra, aspettò che il grumo di saliva colasse all’interno e tornò a infilarci il dito.
La maggiore lubrificazione rese stavolta più agevole l’operazione e il ditone calloso del maestro di stalla scomparve interamente, sepolto nella morbida carne. Se non era la prima volta che Wolfango lasciava che qualcuno si trastullasse con le sue chiappette levigate, visto come se l’era goduta mentre l’uomo gliele schiaffettava tra una carezza e l’altra, doveva essere però la prima, senza ombra di dubbio, che violavano la sua intimità, sia pure soltanto con un dito.
La cosa però non dovette turbarlo più di tanto, visto che dopo un primo istante di sbigottimento, o forse di imbarazzo, Wolfango cominciò a dimenare il bacino, quasi per assaporare meglio quella penetrazione. Ghignando lascivamente, Alterio prese allora a muovere il dito avanti e indietro con foga sempre maggiore.
“Prendilo tutto, puttanella… - mormorava con accesa libidine – Ti piace… altroché se ti piace… Ne vuoi ancora, vero? Ne vuoi di più…”, e senza aspettarsi nessuna risposta, che non fossero gli squittii di piacere del ragazzo, ritrasse il dito, sputò ancora nel buco ormai aperto e ci spinse stavolta due dita, l’indice e il medio, che penetrarono agevolmente e presero subito a scorrere dentro e fuori, stimolando ogni possibile centro del piacere.
La fascinazione di quanto stava accadendo sotto i suoi occhi, spinse Martino a fare un involontario passo avanti, provocando un fruscio che richiamò subito l’attenzione di Alterio:
“Ma guarda chi c’è là! - fece l’uomo guardando nella sua direzione – il giovane Martino che ci sta spiando… Vieni, ragazzo, vieni avanti, divertiti con noi…”, e gli fece cenno con la testa di accostarsi.
Ammaliato dalla vista e inebriato dall’odore di sesso, sempre più penetrante ad ogni passo che faceva, Martino venne avanti, tuttora tenendosi stretto nella mano l’uccello turgido.
“Toccagli il culo…”, gli disse Alterio con voce roca, quando gli fu vicino.
Martino non si mosse, sentendosi un pizzico a disagio.
“Avanti, - lo incitò l’uomo, senza smettere di sifonare le dita avanti e indietro – toccagli il culo, non aver paura…”
Allora, Martino allungò la mano a sfiorare le vellutate rotondità del baroncino, che fremette a quel nuovo contatto.
“Visto che gli piace? – esultò Alterio – Dai, ragazzo, toccalo ancora, impastagli le chiappe, mentre gli faccio il culo.”
Stavolta, Martino non se lo fece ripetere: afferrò due manate di quella carne morbida e soda insieme, e la sprimacciò, strappando a Wolfango un lungo gemito.
“Continua… continua… - diceva Alterio, ormai invasato di lussuria – vedi come gode questa puttanella. Che spettacolo… che spettacolo…”
E infatti era un vero spettacolo come Wolfango sguaiolava e si dimenava sotto l’azione congiunta dei due. Andarono avanti così per un bel pezzo, finché all’improvviso Alterio si tolse Wolfango di dosso e, rimanendo seduto, si strattonò le braghe alle caviglie, scodellando sotto i loro occhi un nerchio poderoso, che oscillò all’aria pesantemente. Wolfango lo aveva visto altre volte e si limitò a sorridere, Martino, invece, era la prima volta che vedeva la virilità di un altro uomo e una virilità di quella sorta! Rimase a bocca aperta, ammaliato sia dalla vista che dall’afrore dello strumento. Fu la voce roca di Alterio a riscuoterlo.
“Forza, puttanelle, datevi da fare… fatemi godere.”, e si mise comodo, allargando le gambe e appoggiandosi al cumulo di fieno alle sue spalle, con le mani intrecciate dietro la nuca.
Senza esitare un secondo, Wolfango gli si inginocchiò davanti, afferrò il piroccolone con entrambe le mani e cominciò a fare su e giù, scoprendo e ricoprendo nel saliscendere la cappella rorida di sugo.
Martino, ancora alquanto imbarazzato, rimase ad osservare con gli occhi sgranati: certo, le seghe non erano una novità per lui; ad ammaliarlo e stupirlo erano la vista di un cazzo adulto, del glande grosso e grondante, e l’afrore via via più pungente che emanava.
“Ti piace guardare, puttanella… - gli fece Alterio con voce arrochita dall’orgasmo imminente – Ah… che bel culetto hai pure tu…”, e gli passò una mano dietro, lisciandogli e palpandogli le chiappe, sotto le brache sottili.
Poi, il giovane si abbandonò al piacere e cominciò a tremare, a gemere, a dimenarsi incontrollatamente, finché si contrasse e con un lungo guaito dal fondo della gola, scatarrò dall’uccello teso un corposo schizzo di sborra che ricadde ad un metro di distanza, seguito da altre gettate, che si andarono affievolendo, fino a diventare un rivoletto lattiginoso che scolò sulle mani di Wolfango.
L’uomo rimase a lungo inerte e senza fiato, poi si riscosse:
“Che sborrata da cavallo! - ansimò, guardandoli sorridendo – Ci sai fare con il cazzo, puttanella… - proseguì rivolto a Wolfango, che accolse il complimento con un sorriso soddisfatto – Che ne dici di far godere pure il nostro nuovo amico?”, e prese Martino per un braccio, facendoselo sedere sulla coscia.
Wolfango sembrava non aspettasse altro: afferrò l’uccello di Martino e cominciò a menarlo con le mani tuttora impiastricciate della sborra di Alterio. Martino boccheggiò sentendosi manipolare da quelle mani così giovani, ma anche così esperte e tale era la sua eccitazione, che durò poco: dopo qualche secondo, infatti, con un grugnito si strinse forte ad Alterio, mentre si lasciava andare al primo vero orgasmo della sua vita.
L’andazzo andò avanti per diverso tempo: Martino stava all’erta e appena scorgeva Wolfango scomparire nel fienile, sgattaiolava dietro di lui e lì con Alterio si davano al loro divertimento preferito.
Un giorno, il maestro di stalla dovette accompagnare il Barone all’annuale fiera del bestiame di Cormignòlo, per acquistare alcune giumente da riproduzione, e sarebbero stati via almeno una settimana.
I primi due giorni, Wolfango riuscì a resistere, ma al terzo già sentiva i primi morsi dell’astinenza. Al quarto non resistette: si diresse con fare noncurante verso le stalle, cercò Martino e:
“Ti va di giocare?”, gli chiese a bruciapelo.
Martino lo fissò, combattuto tra la voglia di accettare e il timore di fare un torto al suo superiore. Si leccò le labbra:
“Aspettiamo che torni Alterio…”, rispose, sia pure con una certa riluttanza.
“Alterio torna fra tre giorni! – sbottò l’altro, impaziente – non ce la faccio ad aspettarlo.”
“Neppure io… ma non possiamo…”, rispose Martino esitante, che pure moriva dalla voglia.
“Sì, che possiamo, cacasotto!”
“E se poi lo viene a sapere?”
“E che m’importa? non è mica il mio padrone! dai, vieni!”, e presolo per mano, lo condusse verso il fondo del fienile. Lì, fece sedere Martino sullo sgabello di Alterio, si calò le braghe sotto le natiche e gli si piegò disteso sulle ginocchia.
Alla vista di quelle magnifiche rotondità, Martino lasciò cadere le ultime titubanze e cominciò a carezzarle e schiaffettarle, come aveva visto fare dal maestro di stalla.
“Più forte… più forte…”, lo pregò Wolfango e lui, allora, ci si applicò con tale impegno, da superare forse perfino il maestro, almeno stando agli squittii, ai sospiri e ai gemiti goduriosi, che sfuggivano al ragazzo.
“Vuoi che ti faccio godere?”, chiese alla fine Wolfango e gli si inginocchiò davanti, cominciando ad armeggiare con i lacci della braghetta per tirargli fuori l’uccello.
A Martino brillarono gli occhi dall’eccitazione, ma:
“Facciamo un altro gioco.”, propose, cavandosi intanto il pennello dalla custodia.
“E quale?”
“Facciamo come i cavalli, che tu sei la giumenta e io lo stallone…”
Non aveva ancora finito di parlare, che già diventava tutto rosso: cosa diavolo gli era saltato in mente? Ma l’altro batté le mani eccitato:
“Sì, facciamolo… facciamolo…”
Allora, Martino lo fece mettere a quattro zampe, gli sputò un paio di volte sull’orifizio, spingendo dentro la saliva con le dita, quindi gli si posizionò alle spalle, gli puntò l’uccello sul buco del culo e diede un affondo deciso.
Il buco era rotto e l’uccello di Martino avanzò agevolmente per un certo tratto, ma pur non avendo ancora raggiunto la piena maturità, era alquanto più grosso delle due dita abitualmente introdotte da Alterio, onde Wolfango boccheggiò e si irrigidì al dolore, che non si aspettava. Accorgendosene, Martino fu tentato di retrocedere, ma per fortuna non lo fece, perché subito dopo, passato lo shock, il piacere di quell’inserzione, così diversa dal solito, prevalse e Wolfango stesso cominciò a spingere indietro il bacino, quasi volesse venire incontro al cazzo che lo stava stuprando.
Neanche Martino si aspettava un piacere così diverso dalla solita sega, così totalizzante, mentre ci dava dentro, martellando come un forsennato sul culo della sua giumenta. Venirgli dentro, poi, fu come toccare il cielo con un dito, fu l’estasi assoluta. Lo fecero ancora, quel giorno e il giorno successivo, divenendone Wolfango ogni volta più ingordo.
La situazione precipitò col ritorno di Alterio la mattina dell’ottavo giorno. Martino già pregustava il momento in cui si sarebbero ritrovati tutti e tre nel fienile per riprendere i loro giochi, quando d’un tratto l’uomo si precipitò nella stalla, lo afferrò per un braccio e lo trascinò in un cantone, fuori dalla portata degli altri garzoni e stallieri.
“Ma cosa hai combinato al ragazzo?”, gli soffiò rabbiosamente in volto.
“Di che parli?”, balbettò Martino.
“Il ragazzo… te lo sei inculato?”
“È stato lui a portarmi nel fienile e se l’è lasciato fare…”, tentò di giustificarsi Martino.
“Ma cosa ti è passato per la testa?”
“E tu, allora?”
“Io? i nostri erano giochetti da niente! Tu te lo sei scopato, razza d’imbecille! Lo hai sconciato, non è più un uomo…”
Martino si sentì tremare le gambe: se il Barone fosse venuto a saperlo, lo avrebbe fatto squartare fuori dalle mura del castello!
“Come lo hai scoperto?”, balbettò.
“L’ho scoperto perché è venuto a raccontarmelo… e voleva che andassimo subito nel fienile… voleva che lo inculassi pure io! Quell’idiota è fuori controllo… Quando gli ho detto di no, ha cominciato a urlare che avrebbe detto tutto a suo padre… quello che io e te gli abbiamo fatto. Allora, per rabbonirlo, gli ho promesso che ci saremmo trovati più tardi, tutti e tre, nel fienile… ma non mi fido… È troppo pericoloso…”
“Che facciamo?”
“Che facciamo? Io ho già sellato un cavallo e me la filo all’istante. Tu fa quello che ti pare.”, e lasciatolo in asso, corse fuori dalla stalla, montò in sella e spronò al galoppo.
Rimasto solo, Martino stette un momento a riflettere: per quanto gli dispiacesse lasciare il ragazzo, Alterio aveva ragione: rimanere era troppo rischioso, specialmente adesso che era rimasto da solo e tutta la colpa sarebbe ricaduta su di lui. Così, riscossosi dal momentaneo torpore, raccolse in un fagotto le sue poche cose e sgattaiolò fuori dal castello, dandosi alla macchia e cercando di mettere la maggiore distanza possibile fra sé e le ire future del Barone.
Ma dove avrebbe potuto andare? Quale posto avrebbe potuto offrirgli un rifugio sicuro, senza soldi com’era? Mentre procedeva a passo svelto, tenendosi lontano dalla strada maestra, al morire del secondo giorno di cammino, avvistò, in lontananza, delle mura poderose, che riconobbe per quelle di un monastero, di cui aveva sentito parlare… il monastero di San Calidone…
Era ormai a una buona distanza dal castello, e i monasteri avevano il diritto d’asilo! Chi si rifugiava fra quelle mura, nessuno poteva toccarlo… neppure il Barone… neppure il Re! Ma rifugiarsi nel monastero significava diventare monaco… significava rinunciare a tutto… A tutto? E cosa diavolo possedeva lui, a parte quelle brache rattoppate, i calzari sfondati, il corpetto sdrucito? Beh, una cosa ce l’aveva, e in gran quantità: la fame! Ma a quella avrebbe rinunciato molto volentieri.
Così, senza pensarci oltre, raggiunse difilato il monastero, dove venne accolto a braccia aperte, tanto più ignorando i motivi della sua vocazione, e a tempo debito prese i voti, diventando frate Martino da Dammèlo.

(continua)
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