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Operai al lavoro


di adad
31.07.2022    |    16.440    |    15 9.1
"Sentendoli parlare, mi confermarono di essere nordafricani: entrambi gradevoli d’aspetto, mori di capelli, carnagione color nocciola; uno, alto e robusto, ..."
Operai al lavoro… Oddio, se avessi usato un bel titolo inglese, tipo MEN AT WORK, o qualcosa del genere, come avrebbe fatto qualunque scrittorucolo con un minimo di amor proprio, forse sarebbe apparso più figo e intrigante, ma in italiano mi sembra che si capisca di più. E comunque, non è il titolo che conta, ma la storia che viene dopo
E allora, raccontiamola questa storia, prima che i protagonisti si stanchino di aspettare e se ne vadano, mandandomi a quel paese.

Dunque, tutto è cominciato nel giugno dello scorso anno, quando davanti al mio condominio furono deposte cataste di tubi, cavalletti e altro materiale, con cui avrebbero montato le impalcature per il rifacimento della facciata. Una volta tanto, le mie preghiere erano state ascoltate da chi di dovere… No, non per quanto riguarda la facciata, di cui francamente non me ne fregava niente, ma che i lavori venissero effettuati nella stagione calda, cosa che avrebbe aperto ampie prospettive, se non altro visive, ad una vecchia troia come me. Sappiamo tutti quanto gli operai amino mostrare ad occhi interessati i loro fisici temprati dal lavoro.
Dopo un paio di settimane di attesa, finalmente una mattina sento voci, richiami urlati, sbattimenti, clangori metallici… il tipico fracasso di un cantiere al lavoro. Purtroppo, stavano iniziando sulla parete opposta alla mia, per cui non riuscivo neanche a farmi un’idea del materiale umano, su cui la mia fantasia sperava di sbizzarrirsi nelle settimane successive. Cercai di fare qualche indagine conoscitiva, uscendo di casa o rientrando, ma senza successo, a parte un paio di operai, che avevano ormai raggiunto l’età della quiescenza… nel senso che non sarebbero riusciti a farmelo drizzare nemmeno con un compressore.
La contrarietà fu somma, ma, come dice zio William, in arte Shakespeare,
“Chi non può schivare il proprio danno, lo accetti di buon grado”, così mi misi il cuore in pace e non ci pensai più. Cioè, razionalmente mi misi il cuore in pace: in realtà continuai a sbirciare dalle parti del cantiere, ogni volta che mi trovavo a passarci vicino.
Poi, arrivò il momento di lavorare anche alla mia facciata: gli operai cominciarono a montare le impalcature e nel giro di un paio di giorno avevo i ponteggi che mi passavano davanti alle finestre; ma essendo il piano all’altezza del davanzale, degli operai che andavano avanti e indietro potevo ammirare tutt’al più le scarpe scalcagnate e le caviglie, anche perché per motivi di sicurezza, tenevo le tapparelle della finestre quasi del tutto abbassate.
Dopo un po’ mi ero stufato di sbirciare e di guardare di traverso, nella speranza di intravvedere qualche particolare appetitoso, per cui avevo mandato tutto al diavolo: se era destino, l’occasione buona si sarebbe presentata.

Faceva caldo quella mattina, con tutte le finestre chiuse per non far entrare la polvere. Le tapparelle erano, come al solito, abbassate, tranne quelle della portafinestra che dava sul terrazzino, altrimenti mi sarei ritrovato nel buio più totale.
Stavo lavorando al computer, impegnato in un lavoro, che non sto qui a dire, e nel chiuso della stanza faceva abbastanza caldo, essendo ormai giugno inoltrato, così decisi di mettermi comodo: spogliai e rimasi solo con un sospensorio di maglina color avorio e una corta canotta colorata, la mia divisa da troia casalinga, per intenderci, tanto non aspettavo visite o altro.
Mi piace stare in sospensorio, soprattutto d’estate, perché davanti mi contiene comodamente gli intimi e dietro mi lascia scoperte le chiappe, cosa che oltre a tenermi il culo fresco, mi fa sentire terribilmente vacca.
Ero, dunque, assorto nel lavoro e ad un certo punto mi alzai per prendere un libro dallo scaffale. Ero intento a leggere i dorsi dei volumi, dando le spalle alla portafinestra, quando sentii un rumore e delle voci dietro di me. Mi voltai di scatto: due operai erano saltati sul terrazzino, per iniziare i lavori anche su quella parte di parete. La portafinestra era chiusa, ma la lampada accesa accanto al computer doveva permettere una visione abbastanza nitida dell’interno della stanza; e infatti, mentre guardavo fuori interdetto, con in mano il libro che avevo preso, mi accorsi che continuavano a lanciare all’interno occhiate di sbieco e a ridacchiare, mentre parlavano fitto fitto nella loro lingua.
Che fare? correre a mettermi i pantaloni o far finta di niente? Per un fugace istante, rimasi lì scioccato, combattuto fra un giusto senso del pudore, che mi consigliava di rivestirmi, e un perverso stimolo libidinoso che mi spingeva invece a rimanere così… in fin dei conti ero a casa mia e non dovevo rendere conto a nessuno. Un fremito nella sacca di maglina mi convinse a rimanere come stavo, tanto più… ok, diciamola tutta: i due operai erano tutt’altro che disprezzabili.
Sentendoli parlare, mi confermarono di essere nordafricani: entrambi gradevoli d’aspetto, mori di capelli, carnagione color nocciola; uno, alto e robusto, a occhio e croce sui quarant’anni; l’altro, più snello e mingherlino, non doveva averne più di trenta ed era anche più carino con i suoi lineamenti delicati e un accenno di barbetta attorno al mento.
Diedi ascolto, dunque, ai miei più laidi istinti esibizionistici e rimasi com’ero, in sospensorio e canotta.
Ripresi a lavorare… cioè, a fingere di lavorare al computer, alzandomi spesso e girando in tondo per la stanza, mostrando di prendere ora questo, ora quello, e ogni volta, sbirciavo i due al di là dei vetri, che a loro volta continuavano a sbirciare me all’interno. Una di queste volte, ebbi l’impressione che il quarantenne mi lanciasse un’occhiata e dicesse nel contempo qualcosa all’altro, scoppiando a ridere entrambi, mentre si toccava in mezzo alle gambe: in effetti aveva l’aria di essere un gran porco.
D’un tratto, scomparvero entrambi. Mi avvicinai alla porta finestra, mi spinsi ad aprirla: il terrazzino era vuoto, ma la loro roba e gli strumenti di lavoro erano ancora lì. Realizzai allora che era mezzogiorno e dovevano essere andati a mangiare. Pure io avrei dovuto mangiare, ma avevo lo stomaco chiuso, la fame mi era passata del tutto… tranne la fame di cazzo che i due mi avevano stimolato tutta la mattina. Mangiai, comunque, un po’ di frutta e mi preparai al round pomeridiano.
Ero in cucina, quando li sentii tornare. La finestra della cucina dà sul terrazzino e io corsi a spiarli più da vicino attraverso la fessura tra le tapparelle appena
sollevate e il davanzale: una decina di centimetri giusto all’altezza dei loro ombelichi… Dei loro ombelichi? Ebbi, allora, un tuffo al cuore: i due si erano tolti la maglietta a stavano lavorando a torso nudo! Dal poco che potevo vedere, angolandomi in tutti i modi possibili, il quarantenne aveva il petto un po’ peloso, ma l’altro era glabro… e la sua pelle era liscia… magnificamente levigata…
Ero eccitato da morire… pensai di farmi una sega, mentre li spiavo, ma non volevo sprecarmi così… Aspettai, dedicandomi ad altro e non appena il cazzo si fu smollato abbastanza da potermelo rigirare sotto le palle, onde nascondere il più possibile lo stato in cui mi trovavo, entrai in soggiorno e volsi casualmente lo sguardo verso la porta finestra. Erano davvero a torso nudo e sprizzavano erotismo da tutti i loro maledetti pori.
Mi avvicinai alla porta finestra e feci un cenno di saluto, come nulla fosse. Il quarantenne sollevò la mano per rispondere, poi disse qualcosa all’altro, che mi guardò e sorrise. Allora persi del tutto la testa: corsi in cucina, presi due lattine di birra dal frigo e tornai in soggiorno.
Aprii la portafinestra.
“Ciao, - dissi, cercando di apparire disinvolto e cordiale – posso offrivi una birra?”
Chi è capace di dire di no a una birra ghiacciata, quando sta lavorando con almeno 35 gradi? E infatti:
“Grazie, signore.”, fece il quarantenne, allungando la mano.
Allora, uscii sul terrazzino… Ah, premetto che il terrazzino era completamente chiuso dai ponteggi e dai teloni protettivi, quindi riparato dagli sguardi indiscreti dei dirimpettai. Uscii, dunque, e gli diedi una lattina; poi, mentre lui la stappava, mi volsi al trentenne per dargli l’altra.
Fu allora che mi sentii sfiorare la chiappa da una mano ruvida, che rimase ferma
in attesa, evidentemente, delle mie reazioni. Delle mie reazioni… Senza muovermi, mentre l’altro mi fissava con un sorrisetto sulle labbra, allungai indietro la mano e gli agguantai il pacco. Lui grugnì soddisfatto, appoggiò la lattina sul davanzale della cucina e prese a lisciarmi il culo con tutte e due le mani…. Le sue mani raspose, che mi davano sensazioni tutte particolari, specialmente quando con una spintarella sulla schiena mi fece chinare, e mi allargò le chiappe, chinandosi a guardarmi il buco del culo. Ecco il vantaggio di indossare il sospensorio: sei subito pronto all’uso! Disse qualcosa nella sua lingua e l’altro ridacchiò, con gli occhi che gli sfavillavano, evidentemente pregustando il seguito.
Intanto il quarantenne proseguiva l’esame del mio buco, passandoci sopra i polpastrelli ruvidi dei pollici, prima l’uno e poi l’altro. Lo sentivo respirare con la bocca sempre più pesantemente, via via che l’eccitazione montava in lui. Alla fine, mentre con una mano mi teneva ancora una chiappa, col pollice mezzo infilato nel buco del culo, sentii il rumore della zip, che si tirava giù con l’altra, e subito dopo un corpo caldo e umidiccio mi sfiorò il solco, scivolando a puntarsi sull’orifizio e premendo per entrare. Ma entrare a secco non è una cosa agevole, specialmente per un affare grosso, come sembrava il suo.
“Bagnalo…”, dissi, allora, con voce strozzata e lui dovette sputarci sopra, perché quando tornò a puntarmelo, era abbastanza scivoloso.
La penetrazione, comunque, si fece sentire: il suo cazzo si rivelò più grosso di quanto mi aspettassi; ma per fortuna, vuoi perché già abbondantemente rotto, vuoi per la gran voglia che ne avevo, lo sfintere non fece eccessiva resistenza e ben presto il cazzone del quarantenne viaggiava col vento in poppa verso il traguardo, strappando gemiti a me di dolore, a lui di piacere.
In un lampo fui pieno da scoppiare e sentii i peli crespi del suo pube sfregarmisi sull’anello stirato del culo. Una volta arrivato in fondo al tunnel, il tipo non perse tempo: mi afferrò saldamente per i fianchi e cominciò la cavalcata, dandomi un cozzo così forte, che mi sbilanciai e andai a finire addosso al trentenne, ritrovandomi con la faccia schiacciata contro il suo petto glabro. Dio, che buon odore di maschio sudato!...
Mentre il quarantenne mi martellava il culo con colpi rapidi e gagliardi, io mi afferrai con una mano alla sua spalla, mentre con l’altra scendevo a palpargli in mezzo alle gambe, scoprendolo già duro dentro le mutande.
Riuscii a sbottonargli i pantaloni, ma mi incasinai con la zip, finché non fu lui stesso a tirarsela giù. Permettendomi di infilare la mano nella patta e tirarglielo fuori. Era bollente e attaccaticcio di sudore. Stavo meditando se succhiarglielo o meno, quando l’altro grugnì qualcosa e diede un ultimo cozzo, premendomi contro con tutte le sue forze, mentre il suo seme mi si riversava selvaggiamente nell’ano con scosse possenti, che quasi provocarono l’orgasmo pure a me.
Appena finito, si trasse indietro, sfilandomelo fuori ancora duro. Il trentenne, allora, si liberò dalla mia stretta e, portatomisi dietro, me lo puntò e lo spinse dentro con una leggera pressione.
Entrò facilmente, non perché fosse più piccolo, anzi, ma perché trovò la strada già aperta e ben scivolosa. Direi che quasi non me ne accorsi, finché, richiudendosi pian piano, la parete rettale avvolse quel cazzo come un guanto di velluto, rendendo il tutto molto più piacevole per lui e per me. Il quarantenne, intanto, vidi con la coda dell’occhio che si era ricomposto e stava a guardare in disparte, sorseggiando con leggeri rutti il resto della birra.
Il trentenne continuava a darci dentro, gemendo a fior di labbra, anche perché, ripreso il controllo dello sfintere, lo strizzavo attorno al suo cazzo al momento giusto, in una sapiente mungitura, che aumentava a dismisura il suo piacere.
Poi, venne anche lui, scuotendosi tutto e assestandomi una serie di affondi secchi, quasi volesse spingermi il suo seme, ad ogni schizzata, ancora più dentro. È proprio vero che ognuno ha il suo modo di godere.
E io? io rimasi col cazzo a malapena contenuto dalla sacca del sospensorio, infradiciata nel frattempo dagli umori miei e dalla sborra altrui, quella che mi era colata fuori dal buco, mentre il secondo mi cavalcava.
Alla fine, il trentenne si tirò fuori e si rimise il cazzo nelle mutande. Era finita: il tutto era durato, sì e no, una decina di minuti.
“Grazie della birra.”, disse il quarantenne, poggiando sul davanzale la lattina vuota e riprendendo gli attrezzi da lavoro.
“Grazie a voi…”, risposi con un sorriso e tornai dentro.
Che altro potevo dirgli? Erano due perfetti sconosciuti con cui avevo scambiato alcuni momenti di sesso. Io avevo avuto quello che volevo e loro si erano tolti uno sfizio… Eravamo pari. Resistetti all’idea di andare in bagno: volevo tenermeli dentro il più possibile. Mi piace trattenere la sborra nel culo, dopo che mi hanno scopato, mi piace sentirmi il buco bagnato, via via che scola fuori, e l’infrachiappo scivoloso… Mi inserii invece un grosso plug, poi accesi il televisore in camera, inserii un dischetto porno nel lettore e mi feci una sega.
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