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Storie della storia del mondo, 3: L'Arca di Noè - 1


di adad
12.09.2023    |    6.696    |    7 9.4
"Ma Alef non si era sbagliato: qualcuno li stava spiando, appostato nell’ombra, e aveva udito i loro discorsi, indovinando fin troppo bene quanto era..."
Le nuvole scure andavano ammassandosi all’orizzonte, gravide di tempesta. In piedi, sulla passerella, che saliva sull’Arca, un ometto dai capelli bianchi e dalla barba lunga fino al petto, si sbracciava per spingere a muoversi più in fretta la lunga fila di animali che a coppie, maschio e femmina, secondo le indicazioni del Signore, si apprestavano a imbarcarsi. Vestiva una palandrana stinta e sdrucita, lunga fino ai piedi, che aveva conosciuto senz’altro tempi migliori.
“Su, su, muovi questo culone lardoso!”, disse, assestando uno sberlone sulle natiche di un ippopotamo che avanzava placidamente con la sua compagna.
“Piano, voi, furfantelli, rispettate il vostro turno!”, disse con voce esasperata a due scimpanzè, ovviamente maschio e femmina, che correvano avanti saltando da una schiena all’altra degli animali che li precedevano.
Intanto, la coltre nera, solcata da saette rintronanti: la pioggia era ormai vicina e qualche goccia già cadeva pesante, sollevando una nuvoletta di polvere dal terreno arido.
Noè prese una coppia di lumache e se le mise in tasca, mentre:
“Avanti tartarughine, - diceva a due grosse testuggini – cercate di affrettare il passo, il diluvio sta arrivando!”, e quelle digrignarono i denti, cercando di spostare più in fretta l’enorme ingombro, che erano condannate e portarsi dietro.
“Finitela di fare gli scemi, voi lassù! – urlò Noè a due falchetti pellegrini, che continuavano a volteggiare sulla sua testa, spaventando con i loro stridi, lepri, conigli e altri animaletti – Entrate nell’Arca una buona volta o vi lascio fuori a…E voi chi cazzo siete?”, esclamò, notando due giovani che erano arrivati alla sua altezza, tenendosi per mano.
“Come, chi siamo? – si stupì uno dei due, il più bello, ma anche il più sfacciato – Siamo due froci, non lo vedi?”
“Foste anche principi di Uruk, non potete salire sulla mia Arca!”
“Non siamo principi di Uruk e quest’Arca non è tua, ma del Signore, che ti ha ordinato di costruirla.”, ribatté il giovane, con una supponenza che fece girare ancora di più le palle al vecchio Noè.
“Di chiunque sia, non potete salire! – urlò – L’Arca è riservata solo agli animali: queste sono le indicazioni che ho ricevuto dal Signore.”
“E quelli?”, fece l’altro giovane, indicando alcuni giovani che si erano affacciati al portellone dell’Arca.
“Quelli? Quelli sono i miei figli.”
“Loro sì e noi no?”, obiettò il primo.
“Quelli sono saliti col permesso del Signore e mi servono per accudire gli animali.”
“Possiamo darti una mano pure noi… a noi piacciono gli animali, vero Clem?”
“Li adoriamo, specialmente tori e stalloni!”, rispose Clem, il più timido, con un sorriso disarmante.
“Ma lo volete capire che in quest’Arca non possono salire gli umani!”
“Ma noi non siamo umani, vero Alef?”, disse candidamente Clem.
Noè li fissò sbarrando gli occhi.
“Non hai sentito la predica del Gran Sacerdote Melchisedech, l’altra domenica?”, chiese Alef.
“Ha detto che noi froci siamo animali! – disse Clem – Quindi abbiamo tutto il diritto di salire e salvare la nostra specie.”
Noè cominciava a non capire più niente.
“Il Signore ha detto maschio e femmina…”, balbettò.
“Non c’è problema, - disse Alef – io faccio il maschio e Clem la femmina… Ahò, e ti muovi a farci salire, non vedi che sta cominciando a piovere di brutto?”
Infatti, con un lampo abbagliante, seguito da un tuono, che fece tremare ogni costola dell’Arca, si erano rotte le cateratte del cielo e la pioggia aveva cominciato a rovesciarsi sulla Terra condannata.
Alef afferrò il vecchio Noè per un braccio e prese a correre verso il portellone, seguito da Clem e dagli ultimi animali ritardatari, compreso la coppia di falchetti. Erano fradici fino alle ossa, quando varcarono il portellone, che i figli di Noè si affrettarono a richiudere con un tonfo, puntellandolo con gli appositi nottolini.
“E questi chi sono?”, chiese Sem al padre.
“Sono due che il Signore ci ha mandato per aiutarci a curare gli animali. – rispose Noè, evitando di entrare nei particolari – Non perdiamo tempo, allora, cerchiamo di sistemarli come si deve. E voi, disse alla moglie e alle nuore, preparateci una tazza di tè bello forte, ché ne abbiamo davvero bisogno.”
Era passata qualche ora e quelli stavano svolgendo ognuno il proprio compito, sistemando gli animali nei loro stabbioli, necessariamente addossati gli uni agli altri, visto il loro numero e le dimensioni contenute dell’Arca. I leoni guardavano di soppiatto le gazzelle, leccandosi le labbra, ma il Signore aveva loro tolto momentaneamente l’istinto feroce, instillandogli una gran voglia di farsi una scorpacciata di fieno e biada.
Ma anche Noè continuava a guardare di soppiatto i due intrusi: non si fidava di loro, era certo che avrebbero combinato chissà quali pasticci. Cosa gli era passato per la testa di farli entrare nell’Arca? Già, il fatto è che nella confusione del momento, con la pioggia che cominciava, non aveva capito più niente. E adesso? Come liberarsene? Decise di tenerli d’occhio e al primo problema prenderli tutti e due e buttargli fuori dall’Arca, abbandonandoli alla furia del Diluvio: che se la vedessero con pescecani e altri mostri marini, che in quella situazione ci avrebbero sguazzato.
La pioggia continuava a scrosciare sul tetto dell’Arca, producendo un fragore che rendeva difficoltosa ogni conversazione, mentre, più tardi, accovacciati sulla paglia del pavimento, il gruppo consumava la magra cena. Alef e Clem non erano stati ammessi nella cerchia della famiglia, ma se ne stavano in disparte, seduti a terra, con la schiena appoggiata a dei sacchi di biada, mentre sbocconcellavano una crosta di pane, che gli altri gli avevano allungato.
In quel momento, l’Arca ebbe uno scossone, che fece sobbalzare tutti, dopo di che cominciò a mulinare, sballottando in preda alla tempesta e i venti impetuosi che la spingevano chissà dove.
“Siamo nelle mani del Signore.” mormorò Noè bianco in volto, al pari degli altri, per il terrore.
Poi, come accorgendosi solo allora dello strepito degli animali in preda al panico:
“Su, su, - gridò per far sentire la voce al di sopra dello strepito – andiamo a tranquillizzarli, prima che facciano uno sconquasso.”
Allora tutti gli uomini corsero da uno stabbiolo all’altro e con pacche sulla schiena e con dolci paroline, come si fa con i bambini, riuscirono a calmarli tutti, tranne una coppia di scimmie cappuccine, in preda a crisi isterica, a cui dovettero dare una legnata in testa per azzittirle.
Erano esausti, quando finalmente Alef e Clem poterono ritirarsi nell’angolo che gli era stato messo a disposizione, una sorta di cuccia fra due enormi mucchi di fieno. Il rumore della pioggia, il ronfare degli animali, il quieto dondolio dell’Arca, tutto sembrava conciliare il sonno e il riposo. Cioè…. Sonno e riposo per qualsiasi altro, ma non certo per Clem, a cui la vicinanza di Alef accendeva sempre un immediato fuoco di libidine. Infatti, non si erano ancora messi comodi nel loro nido di fieno odoroso, che già la mano di Clem si infilava sotto il corto camiciotto dell’amico e gli risaliva bramosa lungo la coscia.
“Smettila, dai… - ronfò Alef, già mezzo addormentato – sono stanco morto…”
“Solo una toccatina, - mormorò suadente l’altro – sai che non riesco a prendere sonno, se non ho il tuo sapore in bocca.”
“Fa come ti pare, ma non svegliarmi…”, si arrese Alef, cominciando a scivolare nel sonno.
Avuto il via libera, la mano di Clem risalì leggera lungo la coscia dell’amico, beandosi del calore che emanava e della leggera peluria che la copriva. E ad ogni pollice che guadagnava, sentiva il calore farsi più intenso e la sua lussuria più incontenibile. Quando sfiorò con le dita il pacco contenuto nel perizoma, come ogni volta, si sentì scoppiare il cuore… e non era solo eccitazione, ma qualcosa di più forte, di più coinvolgente: era emozione, era passione, era qualcosa che neanche lui riusciva a capire.
Sciolse il nodo della fascia, la scostò e finalmente la sua mano fremente si poggiò sul membro agognato. Dal profondo del suo sonno, Alef rispose con un sospiro. Il suo cazzo era ancora molle, caldissimo, però, e umidiccio. Clem lo carezzò a lungo, senza dimenticare lo scroto peloso, i cui meccanismi si erano già messi in azione… ammesso che fossero mai a riposo.
Ormai perso nel suo delirio erotico, Clem, rialzò i lembi del camiciotto, mettendo a nudo l’inguine dell’amico; nel buio, non poteva bearsi della vista, ma lo conosceva bene, e lo viveva nella sua mente, mentre lo sfiorava con la punta delle dita. L’afrore era penetrante, animalesco, un afrore selvaggio, a cui Clem non riusciva mai a resistere. E neanche stavolta ci riuscì. Lasciandosi guidare dall’odore, si avvicinò con la bocca e iniziò a leccare l’asta ancora tenerella adagiata sul palmo della sua mano.
La natura, però, prese ben presto il sopravvento e si mise a pompare sangue nelle vene preposte allo scopo: il membro cominciò a prendere consistenza e a muoversi fino a trovare la bocca di Clem quasi per conto suo. E cosa poteva fare il frocetto se non accoglierlo con gioia e slurparlo golosamente? E infatti, lo accolse con un mugolio di vera gioia e lo slurpò golosamente. Tanto golosamente, da strappare Alef dal suo sonno comatoso, riportandolo alla realtà.
“Per la miseria, Clem, - ronfò senza aprire gli occhi, con la bocca impastata di sonno – ti avevo detto di non svegliarmi.”
“Non ci metto molto. – bofonchiò Clem, masticandogli la cappella – Dormi, dormi…”, e continuò a succhiare con gusto la sugosa banana, mentre la pioggia continuava a diluviare fragorosa sulle assi del tetto.
Ma dormire era ormai una pia illusione per il povero Alef, via via sopraffatto com’era dal piacere; specialmente quando Clem con ingenua perfidia gli fece scivolare due dita nel culo untuoso e cominciò a sgrillettargli la prostata.
Intendiamoci, a quei tempi non avevano la minima idea che, a ridosso del buco del culo, esistesse un organetto chiamato prostata e che, insistendoci sopra, un
uomo perde del tutto il controllo: lo aveva scoperto per caso su se stesso, ogni volta che Alef gli ficcava dentro il suo grosso arnese, e poi lo aveva verificato nell’amico, infilzandolo con due dita, durante una suzione: gli era piaciuto e aveva prodotto con molta più abbondanza… e allora perché privarsene?
E infatti, appena si sentì due dita ficcate nel culo, che scivolavano dentro e fuori, picchiettandogli con insistenza in quel certo posto, Alef cominciò a dimenarsi, uggiolando oscenamente e muovendo il bacino quasi volesse sentirsele ancora più a fondo. Clem conosceva bene quelle reazioni e istintivamente incrementò il ritmo sia della suzione, sia dello scorrimento delle dita in quel buco sempre più infuocato. Ormai Alef gemeva incontrollabilmente, mentre altrettanto incontrollabilmente tutto il suo corpo si dimenava e si dibatteva. E poi giunse il culmine: con un grugnito profondo, Alef si contrasse e le cateratte del suo cazzo si aprirono, rovesciando nella bocca di Clem un diluvio di sborra, che quello trattenne per un attimo, sorpreso dalla subitaneità dell’orgasmo, ma subito si affrettò a ingoiare, come sempre faceva, con estremo gusto.
Del resto, era per questo che preferiva che Alef gli si sfogasse in bocca, piuttosto che nel culo, dove tanta bontà sarebbe andata sprecata.
“Accidenti, che bocconata! – commentò allora, dando un'ultima leccata alla cappella ancora colante – Non ne avevi mai fatta così tanta.”
“Merito tuo, tesoro, - sorrise Alef, ancora col fiato grosso – nessuno sa cucinarmelo meglio di te. Che fai?”, aggiunse dopo, accorgendosi di un certo movimento del compagno.
“Mi faccio una sega, prima che scoppio.”, rispose Clem, muovendo convulsamente il braccio.
“Aspetta, ce l’ho ancora duro, - gli disse – sieditici sopra.”
Clem non se lo fece ripetere: gli si pose a cavalcioni sull’inguine, afferrò il paletto turgido e scivoloso, ci appoggiò sopra il buco del culo e si lasciò andare, facendoselo scivolare dentro senza intoppo fino alle palle.
“Ah, che bello…”, fu il suo sospiro languoroso, mentre Alef con una mano gli agguantava l’uccello, masturbandolo, e con l’altra gli strizzava le palle.
La sua resistenza fu breve: con un guaito, Clem artigliò i pettorali di Alef, stritolandoli nella stretta, e cominciò a spruzzare sborra dappertutto. Clem, infatti, aveva la sborrata esplosiva: la sua era una vera eruzione, una pioggia di lapilli collosi, che si spandevano per un ampio raggio.
Alef scoppiò a ridere, sentendosi ricadere quella pioggia pesante sulla faccia e si leccò le labbra, dove qualche goccia era atterrata.
La sua risata fu contagiosa e anche Clem vi si unì, appena passate le convulsioni dell’orgasmo, mentre l’uccello ormai molle dell’amico gli sgusciava fuori dal culo.
“Shhhh! – fece allora Alef – non facciamoci sentire, ché se ci scoprano, ci buttano fuori dall’arca. Hai visto che faccia ha fatto Noè, quando ci ha visto?”
“E i figli? Secondo te, hanno capito chi siamo?”
“Penso proprio di sì… e anche le mogli: hai visto con che occhi ci guardavano? Ci avrebbero bruciato, se avessero potuto.”
“Hanno paura che gli rubiamo i mariti…”, osservò Clem.
“Tu ci scherzi, - disse Alef – ma io quel rossetto… come si chiama?”
“Jafet”
“Ho notato che ha un culo che è uno schianto: una visitina ce la farei proprio.”
“Io gli ho visto il cazzo!”, lo interruppe Clem.
“Brutto frocione! – esclamò Alef, dandogli un buffetto scherzoso sulla guancia – ci hai già provato?”
“Ma no. L’ho visto in un canto, che stava pisciando; allora mi sono avvicinato zitto zitto e…”
“E sei riuscito a vederglielo?”, chiese Alef, già mezzo allupato.
“Tu che dici? Secondo me, però, se n’è accorto che qualcuno lo stava guardando, infatti …”
“Shhhh! – bisbigliò Alef, mettendogli una mano sulla bocca – ho sentito un fruscio qui vicino.”
Si drizzarono a sedere, aguzzando occhi e orecchi, ma tranne il ronfare degli animali addormentati e lo scroscio della pioggia torrenziale, nessun rumore sospetto li raggiunse.
Allora tornarono a raggomitolarsi nel fieno e stavolta si addormentarono immediatamente. Ma Alef non si era sbagliato: qualcuno li stava spiando, appostato nell’ombra, e aveva udito i loro discorsi, indovinando fin troppo bene quanto era successo fra loro due.

(continua)
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