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Gay & Bisex

Erano i tempi - 2


di adad
17.07.2019    |    5.299    |    4 9.2
"Quando infine depose il suo seme, fu come se l’anima stessa gli venisse espulsa fuori ad ogni fiotto di sperma..."
Quando all’alba si svegliò, Thalos si ritrovò da solo. Provò una punta di rammarico, ma tutto sommato se l’aspettava: era stato tutto troppo bello, troppo straordinario, perché potesse ripetersi ancora. Ma era stato davvero un dio ad amarlo? Sei un dio, vero? gli risuonò la domanda che gli aveva fatto in sogno… E la risposta: sì. Ma cosa valgono i sogni, quando riapriamo gli occhi al mattino? Tornano a rifugiarsi nell’ombra, evanescenti, mentre noi ci ritroviamo ad affrontare la luce, spesso dolorosa, della realtà.
Thalos si rigirò sul giaciglio di foglie secche, che gracidarono sotto il suo peso. Ma se davvero era stato un dio, a maggior ragione non poteva, non doveva aspettarsi niente. Eppure, la sua voce era sincera quando gli aveva detto “torna fra un anno”… Ma gli Dei, si sa, amano giocare con i nostri sentimenti. E poi, quale degli Immortali aveva giaciuto con lui?
Thalos si alzò e uscì dalla capanna, lasciandosi baciare dai primi raggi del sole, la cui luce radente trasformava alberi ed arbusti in fantastiche creature luminescenti.
Decise di rimettersi in cammino, prima che il sole si alzasse e la calura cominciasse ad aumentare: si riannodò ai fianchi il succinto gonnellino e si avviò. Passando accanto allo squarcio della siepe, da dove il giorno prima era sceso a bagnarsi, Thalos si fermò e allungò lo sguardo verso il fiume, mentre una punta di rimpianto gli mordeva il cuore. Ma il luogo era deserto e lui scosse la testa, riprendendo il cammino.
Dopo diversi altri giorni, raggiunse finalmente il santuario di Zeus Ctonios; da dove, adempiuto il suo voto e sacrificato un capretto al Dio Supremo, riprese la strada verso casa, aggregandosi per un pezzo ad altri viandanti. C’era una cosa, però, che lo aveva stupito, quando il sacerdote, a cui aveva presentato l’offerta sacrificale, lo aveva fissato a lungo con meraviglia e poi:
“Giovane fortunato, - aveva esclamato – gli Dei ti guardano le spalle.”
Ma quando aveva chiesto cosa intendesse, quello aveva scosso la testa e si era affrettato verso l’altare per compiere il sacrificio.
Tornato a casa, Thalos aveva ripreso la sua vita di sempre: i giochi in palestra, gli allenamenti militari, le attività domestiche, i simposi, nel corso dei quali, quando la mente è offuscata dal vino e i sensi eccitati dalle danze lascive di procaci fanciulle, non pochi avevano tentato un approccio, attirati dalla sua bellezza, ma nessuno era riuscito mai a superare la sua resistenza. Tanto che molti ormai lo evitavano, considerandolo a torto un giovane scostante e superbo.
Ma non era così: dopo quella notte nella capanna fra le braccia di un dio, dopo averne goduto i baci e ricevuto il seme, Thalos era convinto di doversi mantenere puro, incontaminato per il prossimo incontro. Aveva la sensazione che qualcosa si sarebbe degradato dentro di lui, se avesse accettato altri amanti.
Ma ci sarebbe stato un altro incontro? Il dio glielo aveva promesso: “torna fra un anno…”, ma gli Dei sono capricciosi… E poi, chi gli assicurava che non si era trattato di un sogno fallace? Tutti sappiamo che spesso, troppo spesso, trasferiamo nei sogni i nostri desideri più vivi e pretendiamo di considerarli veritieri e premonitori.
Passavano i giorni, passavano le settimane, e Thalos era sempre più tormentato dall’aspettativa di quell’incontro sempre più vicino e nel contempo dal timore che fosse tutto un grosso inganno della sua mente.
Finché giunse il momento di mettersi in cammino. Allora, con un supremo sforzo della volontà, cancellò ogni pensiero dalla mente e prese la strada. Il tempo era bello, la natura meravigliosa; il sole inondava di luce gli alberi vestiti di un verde ancora tenero, i prati erano rossi di papaveri, che sembravano ridere impazziti, ad ogni folata di vento, le siepi fiorite di rovi e biancospini profumavano l’aria e contribuivano ad attenuare la fatica del cammino.
Thalos procedeva con passo spedito, ansioso di arrivare, ansioso di mettere fine al suo tormentoso orgasmo. Giunse nel punto in cui lo squarcio nella siepe gli aveva permesso, l’anno precedente, di scendere a fiume: il varco si era ristretto, ma permetteva ancora il passaggio; così Thalos scese nuovamente al fiume.
Il luogo era deserto. Non che si fosse aspettato di trovare Akos lì ad aspettarlo, ma non poté reprimere un senso di delusione, che sembrò rafforzare il suo crescente scetticismo. Che strano: adesso che era lì, non ci credeva quasi più.
Si rinfrescò nelle acque limpide del fiume, si denudò e si distese al sole. Ma continuava a guardarsi attorno, a volgere lo sguardo verso lo squarcio della siepe, aspettandosi, da un momento all’altro di vederlo spuntare, sperando ad ogni occhiata che comparisse…
La solitudine del luogo alla fine lo sopraffece: ebbe l’impulso di scappare via, di correre a nascondersi da qualche parte, a nascondersi da se stesso, dalla speranza che lo aveva alimentato e illuso per un anno, dalla follia nella quale era vissuto. Ma dove? Dove poteva nascondersi, che lui stesso non si ritrovasse e con lui la vergogna di essere stato così credulone?
Era troppo stanco per riprendere il cammino verso casa, così decise di passare la notte nella capanna di pastori, se era ancora lì. Si avviò e riuscì a ritrovarla, ancora più nascosta nel macchione di arbusti: segno che nessuno la usava più da tempo. Si fece strada fra i rovi, scostò la fascina che bloccava l’ingresso ed entrò. E fu allora che lo vide: Akos dormiva sul giaciglio di foglie secche. Nel sonno la corta tunica si era scomposta e ora il giovane giaceva discinto, con il sesso semiduro in bella mostra.
Thalos ebbe un tuffo al cuore e si vergognò dei suoi dubbi, gli sembrava di avergli fatto un torto. Si rammaricò di aver indugiato tutto quel tempo sulla riva del fiume e si sentì morire d’angoscia al pensiero che Akos nel frattempo lo stava aspettando.
Con la testa che gli pulsava, Thalos mosse qualche passo in silenzio, per non svegliarlo. Ammirò il bellissimo volto abbandonato nel sonno, le forme di quel corpo mai dimenticato e si sentì sciogliere di dolcezza alla vista del sesso riverso sul ciuffo di riccioli d’oro. Poi il desiderio ebbe il sopravvento: si inginocchiò a lato del giaciglio, si chinò, aspirando il sentore dolciastro del pube e infine lambendo con la lingua la punta del cazzo, bagnata da chissà quali sogni.
Il dio ebbe un fremito, mentre un sorriso gli si disegnava sulle labbra; al che, senza più alcuna remora, Thalos glielo prese con due dita e lo ingoiò fino alla radice.
“Sei giunto, finalmente…”, sospirò Akos,aprendo gli occhi e sfiorandogli i capelli con una carezza leggera.
Thalos non rispose, ma continuò a succhiare quel sesso ormai turgido e pulsante. Era da tanto che lo desiderava, era da tanto che agognava a risentirsi nella bocca quel sapore, quella consistenza… Continuò a succhiare come se non ci fosse un domani e in breve raggiunse il suo scopo: con un gemito prolungato, Akos si tese, percorso dai fremiti, gli afferrò la testa con entrambe le mani e si lasciò andare all’orgasmo, riempiendogli la bocca di denso licore, che Thalos ingoiò quasi con lacrime di gratitudine.
Poi sollevò la testa, si fissarono negli occhi, ridenti quelli del dio, intensi di passione quelli di lui, e gli si stese accanto cercandone le labbra. Si baciarono e il dio gustò nella bocca di Thalos il sapore del suo stesso seme.
“Temevo che non venissi…”, mormorò Thalos fra un bacio e l’altro.
“Te lo avevo promesso…”, rispose Akos.
“Non sempre gli Dei mantengono le promesse…”
“Io sì…”
Continuarono a baciarsi e struggersi di carezze, nudi entrambi e febbricitanti di passione. D’un tratto, come rispondendo ad un desiderio inespresso, Akos si girò sulla pancia, lasciando all’altro libertà di azione. Incredulo, quasi non sapesse più cosa fare, Thalos ammirò e carezzò a lungo con mano leggera i due globi perfetti, glabri e vellutati; infine, si chinò a baciarli e dentro di lui si scatenò la libidine più animalesca. Cominciò a brancicare le natiche del dio con le mani e con la bocca, impastando, leccando, mordendo, grufolando nello spacco con frenesia, fino a raggiungere il tenero orifizio, in cui infilò bramosamente la lingua.
Akos si torceva negli spasimi del piacere che stava provando e pian piano sollevava il bacino, puntando in aria il sedere sia per agevolare la fervente adorazione di Thalos, sia per incoraggiarlo a procedere oltre. E Thalos colse il messaggio: gli si pose dietro in ginocchio, si impugnò l’uccello viscido di umori e lo diresse verso la meta agognata. Il suo cazzo non trovò alcun impaccio: penetrò nel retto del dio come nel burro un coltello arroventato, scivolò dentro con un unico movimento, fino a premergli contro con il ciuffo aggrovigliato del pube.
Il resto si può facilmente immaginare: iniziò una trepidante cavalcata, durante la quale Thalos si prese tutto il piacere che gli fu consentito, dandone altrettanto al giovane dio, come testimoniavano i gemiti e i brividi che gli correvano sotto la pelle. Quando infine depose il suo seme, fu come se l’anima stessa gli venisse espulsa fuori ad ogni fiotto di sperma. Collassò sul corpo del dio, tremante e senza più fiato, e per un pezzo rimase stretto a lui, prima che il sangue riprendesse a scorrere e il respiro a farsi normale.
Fecero ancora l’amore innumerevoli volte quella notte, si accolsero reciprocamente nella bocca e nell’ano, Thalos con l’energia instancabile del dio e questi con la bramosia animalesca del mortale, sazi ogni volta, ma non ancora appagati. Erano entrambi ansimanti e fradici di sudore e di sperma, quando verso l’alba, Thalos si abbandonò finalmente sulle pelli di pecora del giaciglio e con un ultimo sorriso, un ultimo bacio chiuse gli occhi nel sonno.
Il dio, allora, si staccò da lui, si alzò e rimase a lungo a guardarlo, prima di scivolar via nella luce crepuscolare dell’alba. Non poteva restare oltre, non poteva dargli altro. Ma nel suo cuore sentiva come un sordo rammarico. Allora, tornò indietro e gli comparve in sogno.
“Addio, Thalos, - gli mormorò con la sua voce più dolce – non ci vedremo più, ma non temere: io sarò sempre con te, ti guarderò le spalle, ti proteggerò. Tu conserva il ricordo di questi momenti, perché mai nessun mortale mi ha dato tanto. Ho un dono per te. Prendi questo ramo, - e gli consegnò il rametto di una pianta strana – tienilo vivo finché non sei a casa, poi piantalo e ricordami quando ne mangerai i frutti dolcissimi.”, e datogli nel sogno ancora un bacio, scomparve alla vista.
Thalos dormì ancora a lungo e il sole era già alto, quando si destò. Non si guardò attorno: sapeva di essere solo, ricordava bene il sogno e sapeva che era un addio. Ma non ne fu addolorato: era consapevole di aver ricevuto più di quanto un mortale potesse aspettarsi da un dio: adesso gli si profilava una lunga stagione di ricordi. Fu allora che si accorse di stringere qualcosa nella mano: lo guardò, era il rametto di una pianta mai vista nelle sue terre. Lo baciò e rese grazie del dono.
Poi si alzò, andò al fiume a lavarsi e a bagnare i rametto, perché restasse vivo, e infine riprese la via di casa, con il rametto di vite ben custodito nella tracolla.

FINE
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