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Prime Esperienze

LA RAGAZZA DELLE PULIZIE (1)


di Grande_Bruno
17.02.2025    |    266    |    1 6.0
"Si chiamava Maria, all’epoca aveva 21 anni e vestiva in maniera dimessa, con un’aria un po’ timida e spaurita..."
Il buon vecchio Totò diceva: «che Dio ce la mandi bona», alludendo alla nuova serva da assumere ed io aggiungo: «… e con le tette grosse».

La letteratura che riguarda i rapporti tra serva e padrone è abbastanza vasta ed abbraccia una casistica variegata, che va dalla giovane, inesperta e formosa contadinella, che dopo un po’ di tempo veniva rispedita al paese licenziata in tronco (dalla padrona) e con la pancia (opera questa del padrone), fino ad arrivare alla matura domestica che si occupava degli sbalzi ormonali del padroncino adolescente, fungendo da nave scuola.

In mezzo a questi due estremi c’è di tutto, comunque sempre legato da un filo comune, la subordinazione tra una donna ed un uomo, dovuta al rapporto di lavoro, della serie se non fai quello che dico io ti caccio, ma anche all’istruzione ed all’estrazione sociale differente.

Naturalmente la serva, o domestica, era appannaggio delle famiglie nobili o comunque ricche, che potevano permettersi gente che si occupasse della loro casa, per tutti gli altri non se ne parlava assolutamente.

Dopo la seconda guerra mondiale, grazie al boom economico, l’utilizzo di questo persone si è diffuso, i costumi sono cambiati e nessuno si sognerebbe più di chiamarle serve. Ad un certo punto non si trovavano più italiane disposte a fare questo mestiere e si è cominciato a guardare oltre confine. Ci fu un periodo che andavano di moda le Etiopi, ma durò poco. Le signore tendevano a trovar loro un mucchio di difetti, al contrario dei loro mariti. Il problema stava nel fatto che spesso erano sul genere «la ragazza dalla pelle di luna». Magari non erano tutte belle come Zeudi Araya, però, se ti metti in casa una giovane dal fisico che ricorda un leopardo e con la sessualità disinibita delle donne africane, sono guai.

La moglie insiste a dire che è troppo scura, puzza e non sa pulire casa, il marito, invece ne è favorevole. Insomma le Etiopi, come colf, durarono poco e furono sostituite rapidamente dalle Filippine, ultra cattoliche, piccole, cicciottelle e con quelle facce da ragazzine, che sicuramente non ispiravano troppi sogni erotici ai mariti italiani.

Chiudendo la digressione: anche noi, da qualche mese, per alleggerire i lavori domestici, abbiamo assunto una colf. Non è Etiope e neanche Filippina. Si tratta di una Rumena intorno alla cinquantina che, devo dire, non avevo mai preso seriamente in considerazione perché, pur essendo molto gentile, è alta circa 1,60 per circa 100 kg di peso ed è assolutamente dedita al lavoro con meticolosa precisione.

In uno dei giorni in cui è impegnata nelle pulizie, mi è venuto in mente il periodo della mia adolescenza, quando mia madre aveva fatto venire una ragazza, due volte a settimana, per aiutarla nelle faccende di casa. La vedevo raramente perché, nel pomeriggio, io andavo a fare i compiti da un mio amico, mentre mia madre restava con lei. Si chiamava Maria, all’epoca aveva 21 anni e vestiva in maniera dimessa, con un’aria un po’ timida e spaurita. Un giorno, contrariamente al solito, mi trovai in casa proprio nel giorno in cui lei doveva venire a pulire, perché stavo smaltendo i postumi di una fastidiosa influenza. Visto che dovevo rimanere a casa, mia madre decise di uscire, lasciandomi solo con lei.

Io me ne stavo sdraiato in poltrona, con un plaid addosso, a leggere un libro. Dopo esserci salutato, passò tenendo in una mano lo spazzolone e nell’altra un secchio con dell’acqua saponata. Indossava una maglia grigia, a maniche lunghe ed un paio di jeans, ai piedi calzava delle vecchie ciabatte di mia madre. Mi ricordo che quando arrivava a casa, lasciava le sue scarpe all’ingresso e si metteva queste ciabatte. La osservavo di spalle mentre passa vigorosamente la straccio sul pavimento della cucina. È piccola di statura ed un po’ tozza, con i polsi e le caviglie robusti. Le sue mani sono un po’ screpolate, sicuramente con il lavoro che fa. Non è grassa, ma sembra che abbia un sedere abbastanza grande e sporgente. «Ma che stai facendo? Ti metti a fare un pensierino sulla serva?», mi passò per la mente. Mentre passava con il secchio in mano diretta in bagno, le diedi un’occhiata anche davanti e mi accorsi che aveva le tette piccole. Lei mi sorrise mentre i nostri sguardi si incrociarono ed io ricambiai. Quando ripassò con il secchio pieno di acqua pulita, ebbi conferma delle sue tette piccole. La seguii con lo sguardo mentre entrava di nuovo in cucina. Aveva i capelli scuri, abbastanza lunghi, legati dietro con un semplice elastico, e la coda che ne usciva, ondeggiava leggermente mentre lei sciacquava il pavimento con lo spazzolone.

Per un po’, immerso nella lettura del libro, ne persi le tracce in qualche parte in casa. Decisi di andare in bagno ma, davanti alla porta d’ingresso, come al solito, c’erano i suoi stivaletti rossi a punta. Anche se non ero un esperto di moda, pensai che era un bel po’ che non andavano più di moda le scarpe a punta e le sue, sdrucite e sformate, avevano proprio l’aria di essere state comprate parecchio, anzi troppo, tempo prima. Maria era proprio in bagno, stava davanti al lavandino, intenta a pulire lo specchio. Non mi aveva visto ed io rimasi un po’ a guardarla, mentre, spostando la testa da una parte e dall’altra, cercava di individuare qualche macchia che le potrebbe essere sfuggita alla prima passata. Mi chiesi come starebbe, vestita un po’ meglio e magari truccata a dovere. Si fermò lasciando cadere la spugna e, con le mani poggiate sul bordo del lavandino, si era puntellata, come se rischiasse di cadere. Dal riflesso nello specchio, vidi che stava piangendo, il suo viso solcato dalle lacrime e feci quello che non avrei dovuto fare. Sì, lo sapevo, se quella piange sono cazzi suoi, avrei dovuto solo fare silenziosamente qualche passo indietro, tornare in soggiorno ed aspettare che finisse di pulire il bagno. Invece mi faccio avanti.

– “Maria. Tutto bene?”, alzò la testa e mi vide attraverso lo specchio, senza bisogno di girarsi.
– “No, tutto male. Sono brutta, faccio schifo e non mi vuole nessuno”.

Non avrei dovuto stare lì, avrei dovuto lasciarla sola, in santa pace, invece mi avvicinai ancora e d’istinto, con il dorso della mano, le detersi le lacrime che scendevano lungo la guancia. Maria mi regalò un sorriso un po’ mesto, ma rimase immobile. Le mie mani si posarono sui suoi fianchi, sentendo il contatto con la sua pelle nuda, perché la maglia era un po’ corta e, nel tentativo di pulire la parte superiore dello specchio, si era sfilata dai jeans.

Mi stavo incamminando su un terreno minato, lo sapevo benissimo, avrei dovuto subito togliere le mani e dire qualche parola di scusa, ma non ne avevo nessuna voglia e, d’altra parte, anche lei restò immobile, anzi, veramente, si spostò leggermente all’indietro, così i nostri corpi si toccarono ed io, trovandomi più vicino, le posai le labbra sul collo. Maria rovesciò leggermente la testa all’indietro ed allora le mie mani, mantenendosi sotto la maglietta, cominciarono a salire, mentre anche le mie labbra si spostarono, salendo lungo il suo collo. Lei ebbe un sussulto solo quando le mie mani, nella lenta e continua salita, raggiunsero la stoffa del reggiseno.

«Ecco», pensai di aver esagerato e di aver rotto l’incantesimo. Maria si girò verso di me, il suo volto aveva un’espressione indefinibile e non avevo la minima idea di cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Incrociò le braccia e si sfilò la maglia. Rimasi un attimo, stupito, a guardare il suo reggiseno, stinto e sdrucito, parente stretto degli stivaletti rossi a punta. Ma fu solo un attimo, perché Maria, con un gesto rapido, si tolse anche quello. Aveva veramente le tette piccole, ma per fortuna non erano mosce. Non mi sono mai piaciute le tette mosce. Lei aveva due seni minuscoli, poco sporgenti, appena accennati, che contrastavano con le braccia robuste e le mani tozze. Le sue dita presero possesso della lampo della giacca della mia tuta ed iniziarono ad abbassarla. A questo punto presi l’iniziativa, mentre lei mi liberava del pezzo superiore della tuta, io le aprii i jeans.

Ci stavamo spogliando a vicenda, dopo averle abbassato completamente i jeans, Maria se li tolse agilmente ed iniziò ad occuparsi dei pantaloni della mia tuta. Ci fermammo un attimo solo quando eravamo rimasti entrambi in mutande. Lei osservò il mio arnese mezzo dentro e mezzo fuori, con la cappella che spuntava oltre l’elastico dello slip, poi lo prese in mano con decisione. Eravamo stretti l’uno contro l’altra, i suoi capezzoli premevano contro il mio petto nudo, mentre lei si strofinava sul mio corpo, così non ci restò altro da fare che liberarci dell’ultimo indumento rimastoci. Il bagno in cui ci trovavamo era stato ricavato da una ristrutturazione, anni fa e per motivi di pendenza dello scarico, la ditta che aveva fatto i lavori aveva dovuto rialzare il pavimento nella parte terminale, dove si trovava il water.

Così sfruttai il gradino per farla salire e colmare il divario di statura che avrebbero reso il tutto molto difficoltoso, se non impossibile. La presi sotto le ascelle e la depositai sopra il gradino. Maria non piangeva più, semplicemente allargò un po’ le gambe e mi stringe a sé. La presi forte per le chiappe e cercai di infilarglielo al volo. La cappella sbatté un paio di volte sulla sua figa che stava iniziando ora a scaldarsi, finché non fu lei a prendere l’iniziativa: me lo prese in mano e lo guidò verso la retta via, mentre io continuavo a carezzarle le chiappe. Le entrai dentro piano, era piccola, calda ed abbastanza stretta, ma si aprì quasi subito. Maria gemette e mi baciò il petto ancora implume, mentre io aumentavo gradualmente il ritmo.

Solo più tardi, pensai al rischio che avevo corso: se mia madre fosse rientrata prima del previsto, ma in quel momento entrambi avevamo in testa una sola cosa.
Lei ad un certo momento si fermò un attimo e gli dà una «strizzatina». Era una cosa particolare, che non tutte le donne sanno fare, però io l’ho sempre trovato irresistibile, infatti venni all’istante, con sommo dispiacere di Maria. Così, quando io mi fermai, lei continuò come una forsennata, cercando di raggiungere l’orgasmo prima che si ammosciasse. Mi disse nell’orecchio: «ancora, ancora», ma sentivo che il mio arnese stava cedendo inesorabilmente.

Le piazzai bene le mani sotto le chiappe e la sollevai, allora Maria mi strinse i fianchi con le gambe ed io indietreggiai lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio, fino alla vasca da bagno. Poggiai il sedere sul bordo della vasca e lei rimase attaccata a me, con le gambe allargate, dentro la vasca da bagno. Sono miracolosamente riuscito a restare attaccato a lei senza farlo uscire, e possiamo riprovarci. Le toccai le chiappe, mentre con la bocca le mordicchiavo i capezzoli, che diventarono duri e, lentamente, lo sentii risorgere. Lei se ne accorse e cominciò a muoversi sopra di me, non volendosi assolutamente perdere questa seconda possibilità. Mi diede un’altra «strizzatina» e mi sentii morire. «Dopo, fallo alla fine, per favore», le dissi piano in un orecchio. Lei capì, si mise a ridere e continuò a cavalcarmi furiosamente. La «strizzatina», anzi, veramente me ne riservò tre di seguito, una meglio dell’altra, ricomparendo solo alla fine, quando lei stava per venire ed io non resistetti più.

Raggiungemmo l’orgasmo quasi nello stesso momento e per un pelo non finimmo tutti e due dentro la vasca, a rischio di farci male. Quando mia madre tornò a casa, io stavo tranquillamente leggendo il libro sul divano, mentre Maria passava l’aspirapolvere in camera da letto, canticchiando una canzone.

CONTINUA…
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