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Lui & Lei

VACANZA IN MONTAGNA (1/4)


di Grande_Bruno
28.12.2024    |    46    |    0 6.0
"Mi stupiva sempre come qualcosa al pari della roccia, priva di qualsiasi attrattiva per me, al contempo formasse, nella figura di quel massiccio, la..."
Parte 1/4

Chi ha letto le mie storie, sa che quello che scrivo è ispirato alla mia vita e solo adesso che ho raggiunto un’età matura, voglio riportare in queste righe le sensazioni e le esperienze che hanno fatto di me l’uomo che sono. Ecco quindi un’altra storia che è emersa dalle nebbie della mia memoria.


Ero stato da poco nominato Dirigente ed assegnato ad un Istituto di Formazione a Predazzo. L’incarico mi era stato assegnato per un periodo di circa 1 anno e, per praticità avevo lasciato la mia famiglia ad ostia. Ogni 15 giorni, tornavo a casa per il fine settimana per poi ripartire il lunedì mattina.

Quell’estate avevo organizzato una settimana di vacanza alle pendici delle Dolomiti ma, all’ultimo momento mia moglie mi ha dato buca per andare dalla sua famiglia. Non sono mai stato un grande ammiratore degli alberghi ma, dopo tante estati passate al mare nel nostro appartamento, avevo voluto raggiungere quel luogo che mi ha sempre ispirato.

Sapendo che vi lavorava Lucio, il mio vecchio amico, avevo deciso di chiedere a lui come fosse la struttura, non fidandomi troppo delle recensioni che si trovano su Internet e, dopo avermi garantito che fosse ottima, avevo deciso di prenotare una stanza per una settimana.

– “Allora, Bruno, dopo quattro giorni che sei qui, cosa ne pensi dell’hotel?”.

Stringendo le braccia al petto, la schiena eretta sulla sedia davanti a me, Lucio sorrise soddisfatto come se fosse lui il proprietario del Cadore e non un semplice cameriere da sala. Dopotutto non avrei dovuto sorprendermi: si era sempre comportato in questo modo, anche quando, anni prima, l’ho conosciuto durate un pranzo nel ristorante ad Ostia, dove lavorava come cameriere ed era sempre stato un atteggiamento che mi urtava i nervi. Seduto su una sdraio imbottita nel giardino dell’albergo, un’area di prato ben curato e recintato da uno steccato, mi stavo godendo la sera che, scivolando silenziosa tra le montagne, arrossiva le poche nuvole in cielo ma soprattutto colorava le tre cime di Lavaredo, che da lì sembravano un modellino appoggiato sull’orizzonte.

– “Sì”, ammisi, “molto… carino”.

Rimasto solo, avevo deciso che in quella settimana, avrei fatto solo escursioni e fino a quel momento, non avevo fatto altro che consumare gli scarponi e visitare la zona attorno alle tre montagne, sfruttando la mia vecchia passione per la fotografia e le mie limitate abilità fotografiche con un soggetto tanto scontato quanto meraviglioso quali sono le cime di Lavaredo. D’accordo, di tanto in tanto lo sguardo cadeva su una cameriera carina, la quale non si faceva problemi a ricambiare con sorrisi che andavano ben oltre quanto richiesto dalla sua professione, ma ero indeciso se restare fedele alla mia decisione di non interessarmi a nulla che non fossero montagne o provarci con lei; avevo ancora tre giorni per rifletterci, poi avrei lasciato quel luogo incantevole e fatto ritorno a casa.

– “Solo carino?”, sbottò lui, ma subito riacquistò il suo solito atteggiamento soddisfatto e altezzoso.

Inconsciamente, come faceva sempre quando era teso, si passò le mani sulle tempie per cercare, inutilmente, di spianare due ciuffi di capelli che avevano la tendenza a puntare verso l’alto.

– “Hai visto la sala da pranzo, con lo stile altoatesino? Dove la trovi una così?”, aggiunse, avvicinandosi e abbassando la voce come se volesse farmi l’immenso favore di condividere solo con me un segreto “…e quest’anno la direzione ha deciso di avere un aiuto sui social per attirare più clientela giovane, e ha chiamato una nota influencer per avere pubblicità”.

La cosa mi lasciò abbastanza indifferente. Nonostante ciò, non volli apparire troppo maleducato dopo la mia tiepida valutazione della struttura.

– “Ah, e chi?”, domandai, sebbene evitassi quella gente sui social come la peste.
– “Gaia”, rispose Lucio con evidente soddisfazione. Conoscevo tre influencer e solo di fama e questa non rientrava tra di esse.
– “Chi?”,
– “d’accordo, d’accordo”, ammise il mio amico, “forse non è famosa. Non ancora, ma… diciamolo, è una gran bella topa e diventerà presto famosissima. Anzi, eccola la!”, disse, indicando discretamente alle mie spalle con un dito, sebbene la sua voce tradisse l’eccitazione nel vederla.

Mi voltai e fu facile scorgerla: dai capelli rossi e dal fisico invidiabile, la influencer era seduta ad una decina di metri da me, assisa su un divanetto con accanto un ragazzo entusiasta che si stava facendo un selfie insieme a lei. Non potei non notare, lampante al pari delle tre cime poco più in là, la bocca a culo di gallina, come si suol dire, della ragazza. Già mi divenne insopportabile. Per qualche motivo, ho sempre visto gli influencer come l’evoluzione delle «boyband» degli anni ’80 e ’90, gruppi di ragazzini e ragazzine dal bell’aspetto che avevano come unica, vera motivazione quella di portare alla celebrità usando musica scadente un marchio attraverso il quale vendere a dei fessi della paccottiglia. Le influencer, invece, nemmeno cantano e mi sono sempre domandato per quale motivo abbiano tutto quel successo. Ma, dopotutto, come ho notato, le ragazze tendono a fare capannello attorno a quelle che ritengono di un livello sociale superiore al proprio, sperando di risplendere anche loro di luce riflessa, in questo caso indossando il pattume con il loro della loro eroina, mentre i maschi… beh, sospetto che lo facciano per spararsi le seghe sulle foto, spesso discinte, delle influencer.

Lanciai un’altra occhiata a Gaia e supposi che la «fanbase» maschile della «vippetta» fosse molto sodisfatta. Era palese, invece, che Lucio fosse di un’opinione diametralmente opposta: sembrava che da un momento all’altro iniziasse ad uscirgli il fumo dalle orecchie tanto appariva concentrato nel contemplarla. Doveva essere uno della «fanbase», sospettai. Uno di quelli molto soddisfatti e con un fastidioso dolore al polso. Dovette deglutire prima di parlare, sforzandosi per concentrare la sua attenzione su di me.

– “Ho sentito da amici comuni che hai un album con le foto delle ragazze che hai… conosciuto. Foto molto esplicite”, aggiunse, per meglio illustrare il concetto.

Mi chiesi da chi l’avesse saputo. Ma immaginai che scattare una foto ad ogni ragazza mentre era soddisfatta, con il suo capo appoggiato ad una mia spalla, sdraiati a letto, non impedisse a nessuna di loro di raccontarlo. Parecchie, in realtà, mi avevano mandato loro stesse degli autoscatti che non avrebbero voluto far vedere alle proprie madri, spesso ancora prima di ammirarle nude di persona, quindi il fatto che la cosa fosse di dominio pubblico non avrebbe dovuto essere una sorpresa, per quanto non mi facesse piacere. Mi limitai quindi ad annuire, minimizzando come se fosse stato un nulla di che.

– “Ti sfido: fammi avere una sua foto di quel tipo”, rimasi un istante stupito dalla richiesta,
– “no”, risposi, sconcertato dalla proposta. Io mi ero mai permesso di far vedere a nessuno chi mi portassi a letto. E, comunque, «fanculo», ero lì per l’escursionismo, non per divulgare foto compromettenti o anche solo rimorchiare ochette. Lucio dovette deglutire di nuovo e passarsi la lingua sulle labbra prima di aggiungere:
– “Tu fallo e io ti pago una nuova settimana qui dentro, per goderti ancora questo paradiso terrestre. Non è meravigliosa? Dai, guardala! Non è stupenda?”, quasi ordinò. Trattenni un sospiro e lo feci. Accanto a Gaia, adesso, era seduta una ragazza bionda e anche questa stava alzando un cellulare davanti a loro. L’influencer aveva avvicinato la sua testa a quella della sua ammiratrice e di nuovo assumeva quella stupida smorfia. Mi alzai e, senza aggiungere una parola, mi diressi verso le due.
– “Allora lo fai?”, esclamò Lucio, soddisfatto e sorpreso, alle mie spalle.

Non gli risposi, ma mi mossi tra la gente che affollava il giardino, evitando di urtare qualcuno e fargli cadere il drink dell’happy hour, ma senza distogliere lo sguardo dalle due ragazze. La bionda osservò soddisfatta lo schermo dello smartphone. Gaia le propose di stringere amicizia su Instagram. «È giusto che io ami le mie follower come loro amano me», spiegò e mi sembrò che recitasse una frase ripetuta tante di quelle volte da averne consumato il significato. «Aspetta un istante che facciamo una foto anche per la mia page».

Un ragazzo magro e vestito approssimativamente si pose maldestramente davanti a loro con una fotocamera semiprofessionale della Fujifilm all’altezza del volto. Un istante dopo le due ragazze vennero investite da un’esplosione di luce, seguita da uno scoppio di strepiti da parte della influencer.

– “Arturo, incapace! Togli quel dannato flash che mi vengono gli occhi rossi nelle foto! Possibile che tu non sappia usare quella maledetta macchina fotografica?”, il ragazzo strinse la testa tra le spalle, facendo un passo indietro,
– “scu… scusa, Stefania. Non so come toglierlo e…”,
– “mettici una mano davanti, imbecille!”, sbottò Stefania, in arte Gaia, il viso sotto il pesante trucco diventato dello stesso colore dei capelli, “dai, scatta”. Il ragazzo fece come detto, ma abbassò dopo un istante la fotocamera.
– “É… è finita la batteria. Devo andare in camera a… a prenderne una nuova”, l’influencer si lasciò scappare un ruggito di rabbia.
– “Muoviti, idiota!”, ordinò, con Arturo che si allontanava alternando ogni passo ad uno «scusami» o un «mi spiace».

La rossa sbottò qualcosa di incomprensibile ma che non era sicuramente un complimento al suo assistente. La bionda, al contempo, non riusciva a nascondere dietro ad un imbarazzato sorriso di circostanza la propria sensazione di sentirsi fuori luogo. Dopo essere scivolato oltre la coppia di tedeschi della stanza 214, mi trovai davanti alle due ragazze.

– “Ciao”, dissi con il mio migliore sorriso, sviluppato in anni di utilizzo, “ti ho vista un attimo fa e mi è stato impossibile non chiedermi se una ragazza con uno sguardo meraviglioso quanto il tuo abbia una personalità altrettanto solare”, Gaia mi lanciò un’occhiata distratta con una gentilezza affettata che ancora non era riuscita a eclissare la rabbia che l’aveva dominata fino a quel momento.
– “Grazie, caro. Abbi solo un attimo di pazienza e faremo un selfie insieme da…”. Le sue parole mi costrinsero a spostare lo sguardo dal volto della splendida bionda sorridente al suo. La differenza tra le due era quasi abissale: mentre la influencer sembrava davvero pronta per un turno di lavoro su un set fotografico tanto era il fondotinta che smorzava le efelidi che le impreziosivano le guance e il mascara e l’ombretto sembravano insultare il verde degli occhi piuttosto che valorizzarlo, sarebbe stato possibile definire l‘ammiratrice letteralmente acqua e sapone, se non fosse stato per un leggero lucidalabbra.
– “Perdonami?”, chiesi interrompendola, fingendomi confuso. Gaia batté le palpebre pittate un paio di volte e per un istante sembrò incapace di emettere qualcosa più complesso di qualche monosillabo inintelligibile.
– “Non… non sei qui per me?”, riuscì infine a domandare, sconvolta come se l’avessi presa a schiaffi.
– “Dovrei?”, ribattei a mia volta, continuando a fingere di non comprendere cosa volesse quella ragazza, poi mi voltai verso la bionda, fissandola negli occhi azzurri:
– “Sarei felice di scambiare qualche parola con te davanti ad un drink”, un sorriso illuminò il suo volto e fu sul punto di pronunciare qualcosa, ma Gaia non poté trattenersi, scandalizzata:
– “ma tu sai chi sono io?”, quasi esplose, i muscoli delle braccia che si irrigidivano e la schiena che si ergeva alzandola di un paio di centimetri. Probabilmente diverse persone si voltarono verso di lei e così anch’io, sebbene mantenendo la mia calma, anche se vi aggiunsi appena una nota di impazienza.
– “Una che ciarla troppo, mi pare di intendere”. Gli occhi della influencer si sgranarono sotto la pressione dell’indignazione che stava crescendo dentro di lei. Tornai ad ignorarla, passando alla splendida bionda: allungai una mano per aiutarla ad alzarsi.

Lei, con un cordiale cenno di ringraziamento, la strinse e si mise in piedi. In quel momento notai con la coda dell’occhio il ragazzo, Arturo, tornare correndo con la fotocamera in mano, quindi decisi che era tempo di concludere quella commedia e condussi la ragazza all’interno dell’hotel, spostandoci nel bar. Dentro non c’era quasi nessuno: erano tutti all’esterno nella sera ancora tiepida della tarda estate Accompagnai la ragazza ad un tavolino del caffè. Dovetti riconoscere che, se seduta sembrava carina, in piedi dimostrava di possedere un bel corpo all’interno di un vestito elegante ma senza essere troppo vistoso. Era alta poco meno di me, con una massa di capelli biondi mossi che arrivavano fino alle spalle, racchiudendo in una cornice d’oro gli occhi azzurri.

Apparve ben felice quando si accomodò davanti a me; sporgendosi in avanti, per prima cosa mi confidò che il mio intervento le aveva permesso di allontanarsi da una situazione che stava diventando una scena assurda uscita da una pessima candid camera: il comportamento della influencer con il ragazzo era stato davvero imbarazzante, mostrandole quanto fosse, in realtà, gretta quella «vippetta». Non poté trattenere una risata al ricordo di come l’avevo trattata, gettandola giù dal piedistallo su cui era abbarbicata.

La interruppe l’arrivo di una cameriera che prese le nostre ordinazioni. Nonostante avesse catturato spesso la mia attenzione nei giorni che avevo soggiornato lì, in quel momento preferii fingere di non notarla, mantenendo la mia attenzione sulla mia nuova amica.

Io non pronunciai che una manciata di frasi, limitandomi a guardarla negli occhi con un sorriso sornione, educato ma che lasciava trasparire, a livello quasi inconscio, che non mi sarebbe dispiaciuto conoscerla ben più intimamente. Alcune ragazze sono terrorizzate dal silenzio, che le sconvolge peggio del trovarsi disperse in un bosco in piena notte e sentono il bisogno di colmare quel vuoto con qualsiasi suono, il più «a portata di mano» dei quali si rivela essere spesso la propria voce. Lei faceva parte di questo gruppo e in pochi istanti, quello che separò l’allontanamento della cameriera con le nostre ordinazioni in formato scritto ed il suo ritorno con le stesse in stato liquido, lei mi raccontò praticamente tutto quanto avrei voluto sapere. Nel momento in cui i vapori che si sollevavano dal suo caffè macchiato e dal mio the alla pesca si interponevano tra di noi, avevo scoperto che rispondeva al nome di Emma, aveva 24 anni e lavorava in uno studio di commercialista nella provincia di Pavia, dove abitava.

– “E cosa ti ha portata qui, Emma?”, le domandai dopo aver bevuto un sorso di the. Mi ero limitato a dirle il mio nome quando me l’aveva chiesto ma non avevo aggiunto altro: se avesse voluto sapere qualcos’altro di me avrebbe dovuto chiedermelo lei stessa. La ragazza ebbe un attimo di incertezza, come a cercare di decidere se essere onesta con me; bevve un sorso per temporeggiare seppur cercando di non darlo a vedere. Provai una bruciante invidia nei confronti della tazza di caffè quando si appoggiò alle sue splendide labbra. Aumentai un po’ l’espressione amichevole del mio sorriso e assunsi la sua stessa posizione, lasciandole comprendere che poteva fidarsi di me. Lei lo fece, sebbene la sua voce si abbassasse leggermente.
– “Sono stata fidanzata per quasi tre anni con un ragazzo che si chiama Francesco. Stavamo bene insieme, all’inizio della nostra relazione; quando venne a conoscenza della mia passione per la fotografia, mi regalò addirittura una fotocamera e, sapendo che mi sarebbe piaciuto venire qui a vedere le cime di Lavaredo, mi promise che mi ci avrebbe portato in occasione delle vacanze. Ma, in breve, il nostro rapporto si raffreddò e quello che sembrava amore divenne una serie continua di litigi e insulti da parte sua, dimostrando di essere malato di una gelosia soffocante. Immagino tu possa indovinare che non mi ha mai portato qui e tutte le volte che ero intenzionata a fare qualche foto lui si intrometteva, arrivando perfino a dire che ero incapace di fare scatti anche solo decenti e che era una perdita di tempo e di denaro…”,
– “mi spiace”, le risposi usando il suo stesso volume di voce, lasciando che il mio sguardo le comunicasse che aveva la mia comprensione. Allungai una mano e la appoggiai con delicatezza sulla sua: il fatto che prima la guardasse e, invece di spostarla, mi sorridesse, mi fece comprendere che le cose stavano procedendo come avevo sperato.
– “Come ripicca, appena ho avuto le ferie”, proseguì con un leggero tocco di brio nelle sue parole, “ho deciso di venire qui da sola e scattare una foto incredibile da pubblicare sui social che lo faccia ricredere! Ma…”, mi confidò, abbassando le spalle e gli occhi, “non sono riuscita a fare nulla di decente… Ho decine di foto con le cime ma non ce n’è una che valga la pena vedere”. Apprezzai la sua onestà, e non ebbi il ritegno di non approfittarne,
– “potrei aiutarti”. Lei mi guardò con un misto di curiosità e dubbio,
– “…e sai fare buone foto?”, feci spallucce, come se fosse una cosa di poco conto, una grande passione ormai decaduta quasi in un vizio privo di particolari soddisfazioni che un piacevole passatempo con cui staccarmi dalle tribolazioni della vita,
– “spesso ricordo di togliere il dito dall’obiettivo”, le confidai con un accenno di sorriso di complicità. Probabilmente comprese che stavo scherzando e che ero solo un falso modesto, oppure i suoi scatti erano talmente deprimenti che già non immortalare le proprie impronte digitali sarebbe stato un miglioramento. In ogni caso la mia proposta venne accettata con entusiasmo,
– “oh! Grazie! Saresti gentilissimo”. Le chiesi che modello di fotocamera avesse e venni a conoscenza che ne aveva una simile alla mia, sebbene qualche anno più recente. In realtà, il suo ex non aveva risparmiato nell’acquisto della fotocamera. Annuii.
– “Va bene. Domani mattina io ho in programma di andare a fare un’escursione fin lassù”, dissi, indicando attraverso i finestroni un pianoro appena a destra delle tre cime su cui le ultime luci del tramonto stavano perdendo terreno nella battaglia con le ombre della notte imminente “…e, se volessi accompagnarmi, cosa che mi farebbe piacere, potremmo cercare un posto adatto dove scattare la tua «epica foto»”,
– “oh, sì!”, rispose lei, con gli occhi che iniziarono a splendere all’idea.

Restammo ancora un momento a chiacchierare o, più esattamente, io ad ascoltarla parlare dei suoi futuri progetti e delle sue passate esperienze, poi lei disse che voleva andare a preparare il necessario per il giorno dopo. La salutai, ricordandole di portare la sua fotocamera. Mentre, rimasto ormai solo, finivo il mio the ormai freddo, accarezzando l’idea di ordinare qualcosa per cena e poi andare anch’io a dormire, notai che qualcuno mi si era avvicinato. Mi aspettai fosse Lucio e invece erano Miss influencer e il suo fidanza-schiavetto, come mi aveva rivelato Emma. Lei doveva essersi finalmente liberata dei suoi fan, oppure lui aveva di nuovo prosciugato la batteria della reflex e se ne stava accanto a me, le mani ai fianchi e mi fissava adirata.

Va detto che era una gran bella ragazza, forse un paio di centimetri più bassa di Emma, i fianchi un filo più pieni, ma il seno sembrava più grosso. I capelli, di un rosso chiaro, non potevano fare molto per quel viso splendido ma deturpato da tanto di quel trucco che sembrava essere finita sotto le manine di una bimba che sognava di essere una «make-up artist» ma a cui non avessero spiegato bene il significato del termine «moderazione». Cosa che mi aveva stupito anche prima, quando Lucio me l’aveva indicata, a differenza delle tipiche influencer non metteva in vista la mercanzia, ma anzi indossava una camicetta bianca a maniche corte abbottonata fino al collo, piena di sbuffi ed un paio di jeans scoloriti, lunghi fino ai piedi.

– “Oh!”, dissi senza trattenere un sorriso di scherno, mentre lei era ancora nell’atto di aprire la bocca per, scommisi, insultarmi, “hai finito di abbagliare i tuoi follower?”. Evidentemente il sottile gioco di parole non venne recepito o, comunque, apprezzato. Lei si lasciò sfuggire un altro ruggito di rabbia. Vibrò tutta, pronta a dire qualcosa, ma evidentemente non era suo il compito di trattare con hater, troll, leoni da tastiera e altre figure simili, quindi fece un segno iracondo al ragazzo di intervenire lui:
– “Mi ha mancato di rispetto! Fai qualcosa!”.

Lui la guardò sconcertato e, a giudicare dal suo sguardo terrorizzato, sembrò gli avesse appena ordinato di mettere una mano in un nido di tarantole. Quando si girò verso di me sudava e credetti stesse per svenire tanto si era sbiancato. Mi alzai in piedi davanti a lui lentamente, come si vede nei western, quando il «banditos» fallito della cittadina attacca briga con lo sconosciuto ancora sporco di sabbia del deserto, guadagnandosi un pugno in faccia e dando inizio ad una scazzottata in tutto il saloon. Lui mi guardò sgranando gli occhi mentre scopriva che ero alto almeno dieci centimetri più di lui e le spalle larghe il doppio delle sue. Ma, a differenza di John Wayne, non feci conoscere al suo volto le nocchie della mia mano destra. Ignoravo quale fosse la sua età, ma giudicai che doveva avere almeno dieci anni in meno di me.

«Ragazzo», dissi con un tono di voce paterno che strideva con quanto Arturo si sarebbe aspettato fosse stata la mia mossa, «dammi retta ad uno che ne ha conosciute a dozzine: trovatene un’altra, che ti tratti meglio». Quindi spostai il mio sguardo sulla «vippetta». A sua volta mi guardò, e sembrò che la sua ira si sciogliesse in imbarazzo. «Quella… principessa ha bisogno di un uomo con il pelo sul petto che la sappia…» la fissai negli occhi, e certo non con la benevolenza che avevo riservato a Emma, ma al contempo con una briciola di interesse ben poco casto «…raddrizzare e mettere al posto che le compete».

Gaia divenne rossa ed il suo seno sembrò crescere di una misura quando i suoi polmoni si riempirono di aria, dimenticando di espirare mentre le sue pupille si dilatavano come un diaframma a f/1.4. Arturo, a sua volta, si scordò di dire qualsiasi cosa ma rimase immobile come mi sarei aspettato da qualcuno che seguisse il consiglio di non fare movimenti inconsulti davanti ad un predatore.

Volli lasciarli così, prima che potessero riprendersi dallo shock e rispondere. Se avessi potuto prendere un ombrello appeso al bordo del tavolo o un soprabito dalla spalliera della sedia avrebbe aumentato la drammaticità della scena, ma dovetti limitarmi ad augurare loro la buona sera con la massima compostezza, trattenendomi dal mettermi a sghignazzare per la situazione ridicola che avevo appena creato, poi mi voltai come se nulla fosse accaduto e me ne andai di sopra, in camera mia. Quella sera ordinai la cena via telefono alle cucine dell’albergo.

La mattina successiva, con il sole che aveva già raggiunto una certa altezza, Lucio, in uniforme da cameriere, mi scovò al bar. Si fermò accanto a me, mentre stavo bevendo un succo di frutta e sbocconcellavo un paio di crepes al prosciutto e formaggio di cui, in quell’occasione, non mi stavo affatto godendo il sapore tanto ero perso nella lettura dello schermo del mio telefonino. Il mio amico non pensò nemmeno di nascondere nella propria voce il suo malcontento. «Credo tu non abbia capito bene quale sia la ragazza che ti avevo indicato: devi essere daltonico per non distinguere una rossa da una bionda». Sollevai lo sguardo dallo smartphone, fissando Lucio dal bordo del bicchiere di succo da cui bevvi un sorso. Quando lo posai, le mie parole non avevano la minima inflessione di rabbia.

– “Sai qual è una tattica tipica femminile perché un maschio disinteressato o che dimostra poca attrazione nei suoi confronti la desideri e si faccia in quattro per averla, senza scoprirsi? Si introduce nella sua cerchia di amici, ne seduce uno, lo porta a letto facendo in modo che poi questo si vanti davanti agli altri, poi va con un secondo e ripete la sua strategia, poi eventualmente con un terzo… finché il suo obiettivo non decide che anche lui se la meriti e si metta in gioco per sedurla e averla solo con sé. In questo modo, a lui sembrerà di aver fatto tutto di sua spontanea volontà e, piuttosto che perderla considerando la fatica ed il tempo investiti, soddisferà ogni richiesta della donna”. Il volto di Lucio lasciò trasparire tutto il suo scetticismo.
– “E… funziona?” Tornai a concentrarmi sul testo che compariva sullo schermo.
– “Paradossalmente, con gli uomini no o per lo meno io non mi porterei a letto la ragazza di un mio caro amico, anche se quella mi tempestasse di messaggi subliminali, ma con le donne, posso garantirlo di persona, funziona spesso, come nel caso di…”, mossi la forchetta in aria, facendole tracciare dei cerchi “beh! non mi sembra corretto parlarne. Comunque, tre volte su cinque, per quanto mi riguarda”.
– “Ah-ha!”, esclamò il mio amico con un volume un po’ troppo alto per un paio di clienti qualche metro più in là che si voltarono a guardare quale fosse la causa del loro disturbo. Se ne rese conto anche lui e abbassò la voce. “Quindi è tutta una tattica, la tua! Sei un dannato genio! Scommetto che stai studiando la biografia di Gaia!”, aggiunse, indicando il telefonino. Sollevai le sopracciglia, guardandolo, per poi comprendere qualche istante dopo. Inclinai lo smartphone, mostrandogli le parole e le infografiche sullo schermo.
– “No, è il manuale della fotocamera di Emma”.

E, quella mattina, sul volto del mio amico fece la sua comparsa anche lo sconcerto. Fu poi la ragazza dai capelli biondi, qualche minuto dopo, a mostrare di essersi sentita presa in giro da me, sebbene senza essere realmente insultata.

– “Sei un bugiardo!”, esclamò Emma. Probabilmente voleva apparire offesa ma tratteneva a stento le risate mentre fingeva di assestarmi un paio di sberle sui pettorali, “mi hai detto di non saper fare le fotografie, ma ho trovato il tuo profilo su Flickr e sono stupende!”, a mia volta non mi fu possibile celare troppo il piacere che quel contatto fisico, seppur fintamente violento, mi provocava,
– “non ho detto che non so fare foto, ma ho parlato delle dita davanti all’obiettivo”,
– “sì, certo, come no!”, ribatté lei, volendo fare l’oltraggiata sebbene il sorriso le rovinasse il tentativo.
– “No, non scherzo”, giurai, “ho una splendida foto scattata in un’alba nuvolosa con i primi raggi del sole che filtrano attraverso i fiori del grano saraceno in un campo, il tutto impreziosito da un indice che occupa mezzo scatto. Vabbè, l’ho fatto con il telefonino: l’obiettivo della reflex è troppo lungo perché mi succeda. Beh, quasi sempre”.

Feci un passo indietro, contemplandola: al posto dell’abito da sera del giorno prima, indossava una maglietta bianca e dei pantaloncini color cachi che lasciavano vedere un paio di gambe ben tornite e prive di peli. Probabilmente, la sera precedente, il voler andare a letto presto era stato un pretesto per depilarsi e sospettai che non fosse un caso che la tracolla che le passava in mezzo al petto, dividendo e mostrando con ben poca morigeratezza i seni sotto la maglietta. Distolsi lo sguardo da quello spettacolo, guardando la borsa appoggiata al suo fianco destro. Il logo della marca della fotocamera di Emma non lasciò adito a dubbi sul suo contenuto. «Ottimo. Andiamo?», chiesi, mettendo in spalla lo zaino che avevo lasciato accanto alla gamba del tavolo dove avevo consumato la colazione.

Erano quasi le undici quando giungemmo nel pianoro sopraelevato a sud delle tre cime, che apparivano come oggetti alieni in mezzo ad una pianura, tre dita scheletriche che perforavano la superficie terrestre per innalzarsi verso il cielo. Mi stupiva sempre come qualcosa al pari della roccia, priva di qualsiasi attrattiva per me, al contempo formasse, nella figura di quel massiccio, la materializzazione del fascino. Ci fermammo con un principio di fiatone, ammirando il soggetto dell’«epica foto» di Emma. Un paio di nuvole si erano impigliate nelle sommità di due montagne, sfilacciandosi nelle correnti di alta quota. La ragazza, dopo aver chiacchierato per tutto il tempo dell’escursione, riempiendo il silenzio che avevo volontariamente lasciato per buona parte del tragitto lungo i sentieri dall’albergo fino a lì, sembrò anche lei priva di parole, persa per un attimo in quello che sembrava un mutismo reverenziale. In realtà, più proseguivamo nell’escursione, più le sue argomentazioni scivolavano subdolamente verso argomenti e domande sempre più intimi ed il culmine avvenne quando arrivammo: mentre cercavo di prendere fiato senza farglielo notare, un piede sopra un masso, intento a far decelerare il battito del cuore, perso nella vista delle tre cime, lei si avvicinò, mi abbracciò al collo e mi baciò su una guancia, assicurandosi che un suo seno spingesse contro un mio braccio.

– “Grazie”, mi disse, “sei stato gentilissimo a portarmi qui”. Non ebbi difficoltà nel riconoscere nella sua voce una nota che, se fino a quel momento era stata presente, la ragazza aveva tenuto molto più celata, trattenendosi dal palesarla a me. Sorrisi.
– “Sto pensando che potremmo fare una foto con le cime sullo sfondo a destra e tu nel terzo sinistro ripresa in mezzo primo piano. Potresti appoggiarti all’angolo di quel masso, così sfruttiamo l’inclinazione della luce naturale”, le proposi, indicando una roccia delle dimensioni di un furgoncino adagiata a qualche metro da noi, probabilmente lasciata dai ghiacci durante il loro ultimo ritiro.

Un’ombra di dubbio, forse dovuto alla terminologia tecnica, apparve sul viso di Emma, ma, dopo un attimo di titubanza, si avvicinò all’angolo della roccia e vi si adagiò. Presi la fotocamera dalla borsa, la misi al collo, l’accesi e ruotai la ghiera da «panorama» a «priorità al diaframma», controllando le impostazioni di apertura. Quando sollevai lo sguardo dal display, notai che Emma appariva tesa, nervosa. La interrogai con lo sguardo. Lei sembrò scossa da un brivido. «Io… perdonami, ma…» abbassò lo sguardo, intimidita da qualcosa. Pensai al suo ex che l’aveva ingiuriata riguardo alle sue capacità di fotografa, rendendola probabilmente insicura anche come modella per uno scatto.

Coprii la distanza che ci separava togliendomi la fotocamera dal collo e appoggiandola su un sasso, poi le posai un dito sulle labbra. “Shhhh…”, le feci, poi la baciai con dolcezza. Lei non oppose resistenza ma appoggiò una mano sulla mia nuca e l’altra in fondo alla mia schiena. La mia lingua scivolò nella bocca di Emma e subito la sua le si fece incontro, dandole il benvenuto strisciandosi contro come fanno due gatti quando si salutano. La sentii sciogliersi tra le mie braccia, rilassarsi come nemmeno era accaduto la sera precedente.

Aveva messo qualche goccia di una fragranza prima di raggiungermi al bar, ma dopo due ore di camminate profumava di attività fisica, sole e spensieratezza e colmandomi le narici mi faceva impazzire. Fu una sofferenza staccarmi da lei. Nonostante ciò, la guardai soddisfatto per il piacere che mi aveva donato la sua bocca. Lei sorrise, gli occhi che le luccicavano: era evidentemente intenzionata a voler dire qualcosa, ma le emozioni che aveva appena vissuto sembrava le avessero tolto le parole. Sarebbe stato comunque superfluo, perché il suo volto esprimeva perfettamente tutto quanto. I suoi occhi si spalancarono ancora più e lo stupore si aggiunse al suo viso quando percepì una mia mano scivolare sotto i suoi pantaloncini e le sue mutandine.

Forse avrebbe voluto dire qualcosa, come ricordarmi che eravamo praticamente nel secondo punto più visibile di tutta la zona, che chiunque avrebbe potuto vederci, ma quando la punta del medio e l’anulare della mia mano destra solcarono, fendendo, i petali del suo bocciolo di rosa e poi scivolarono dentro di lei, l’unico uso della sua bocca che riuscì a trovare fu appoggiarla sulla mia spalla sinistra e mordere la maglietta, mentre tutte le parole che pareva volessero uscirle in una volta si tramutarono in gemiti di piacere. Mentre le mie dita lavoravano dentro di lei, nelle mutandine che si stavano inzuppando di rugiada, le baciai con passione il collo, percependo il suo cuore che stava galoppando incontro al piacere.
«Sei bellissima, Emma…» le sussurrai quando spinsi il polso contro il suo clitoride ormai eretto fuori dalla sua tana, facendolo ondeggiare a sinistra e a destra. Le grida che la mia clavicola soffocava salirono di volume fino a diventare quasi isteriche e, oltre alle mie dita, anche la mia spalla cominciò a bagnarsi con i fluidi corporei di Emma.

Non ci volle molto, ormai, prima che Emma finalmente avesse il suo meritato orgasmo: mi conficcò i denti nella spalla in uno spasmo di piacere, mentre le sue grida divennero un gorgoglio basso e alternato a profonde inspirazioni. Mi strinse con le braccia mentre intuivo i muscoli delle sue gambe perdere forza.

Rimase diversi secondi in quella posizione mentre il piacere, raggiunto il culmine, iniziava a sfumare in una sensazione di appagata soddisfazione. Sollevò la testa dalla mia spalla respirando lentamente, gli occhi chiusi. Cercò la mia bocca con la sua e mi baciò lentamente, succhiandomi le labbra. Estrassi lentamente le dita dalla sua figa, cercando di non macchiarle i vestiti, poi, quando si allontanò da me, succhiai davanti ai suoi occhi il medio e l’anulare che scintillavano per il suo desiderio che li aveva bagnati.

Mi godetti il sapore del suo utero, sottolineando il piacere con un basso gemito soddisfatto. Le mutande mi stringevano e non so cosa mi trattenne dal possederla su quel pianoro, contro il masso. Lei mi guardò quasi sconvolta. Evidentemente non era abituata a vedere un uomo apprezzare il gusto del suo sesso. Ma, da quanto aveva raccontato, era stata per anni con un idiota che ne aveva minato in continuazione la sua autostima. La provocai sorridendo soddisfatto e promettendole che la volta successiva era mia intenzione suggere quell’ambrosia dalla fonte. Lei divenne rossa in viso, ma l’imbarazzo non riuscì a prevalere nei suoi lineamenti sulla speranza che succedesse realmente. In un ultimo slancio di passione, le presi il viso e le appoggiai un bacio sulle labbra. L’imbarazzo scomparve.

Afferrai la fotocamera per la cinghia, la misi al collo e chiesi alla fanciulla di rimettersi in posizione mentre eseguivo un nuovo, veloce controllo delle impostazioni. Sollevai la macchina, posi l’oculare davanti all’occhio sinistro e composi l’immagine. Emma compariva adesso ben più felice e sicura di prima, uno splendido sorriso illuminava il suo incantevole viso. Però avremmo potuto fare anche di meglio.

«Sei davvero calda, bambina…» le dissi, Il suono del tuo respiro mentre le mie dita erano dentro di te è la musica più dolce che abbia mai sentito. «Voglio ancora sentirti gemere contro la mia spalla, la mia mano bagnarsi del tuo piacere…». La vidi attraverso l’obbiettivo gonfiarsi trattenendo il fiato, il suo seno apparire più grosso, i suoi capezzoli diventare perfettamente visibili sotto il tessuto della maglietta, il sorriso perdere l’allegria a favore dell’eccitazione, i denti superiori mordere il labbro inferiore, i suoi occhi luccicare come le stelle nella notte…

«Le stelle nella notte», pensai: l’immagine delle stesse fece sorgere un’idea nella mia mente. Quasi senza rendermene conto, premetti il tasto e la fotocamera fece una serie di scatti in raffica per qualche secondo con un suono meccanico appena udibile ma ben riconoscibile. Fu Emma, correndo verso di me, impaziente di vedere come fosse venuto nei miei scatti, che mi riportò alla realtà. Batteva davvero le mani e saltava come una bambina di sette anni davanti ai regali sotto
l’albero o ad un cucciolo. «Fammi vedere! Fammi vedere!». Voltai la macchina verso di lei perché potesse avere visione sul piccolo display e premetti il tasto di visualizzazione. Si appoggiò di nuovo a me, il suo seno che entrava in contatto con un mio braccio, il cuore che le batteva al ritmo della felicità.

«Ma è bellissima!», esclamò, per poi darmi un bacio su una guancia. «Grazie!». Sì, era bellissima, al punto da togliermi il fiato: dietro di lei, le tre cime di Lavaredo erano solo dei sassi strani privi di senso. In quanto alla foto, il passaggio in un paio di programmi di fotoritocco non avrebbe fatto che del bene, aumentando leggermente la saturazione ed il contrasto e raddrizzandola di una manciata di gradi. Sì, d’accordo, non faceva poi nemmeno così schifo, lo ammisi, per essere una foto scattata al volo con una macchina che non conoscevo e senza un filtro polarizzato sull’obiettivo, con un dito ancora bagnato di trasudo vaginale e la mente invasa dal piacere che avevo donato ad un angelo.

– “Questa voglio pubblicarla sui social”, decise, con il buon senso di non aggiungere che avrebbe fatto mangiare le dita al suo ex. Apprezzai il suo entusiasmo, ma mi fu impossibile non suggerire:
– “avrei un’idea per una foto migliore…”. Lei sollevò lo sguardo dal piccolo display e mi fissò come se avessi detto di aver appena scorto uno yeti dietro ad un macigno che si sparava una sega dopo averla vista godere per due dita nella sua figa.
– “Cioè?”, domandò.

Non risposi subito, guardando per un istante verso le montagne, prendendomi un attimo per riordinare velocemente le idee e assicurarmi che non solo la cosa fosse fattibile, ma che avrebbe portato a qualcosa di decente. Dopotutto, stavamo cercando di fare una foto alle tre cime di Lavaredo, forse uno dei soggetti più famosi al mondo, immortalate sotto qualunque luce, ora del giorno, clima e con ogni tecnica fotografica mai concepita ed essere minimamente originali sarebbe stato impossibile, quindi dovevo puntare su qualcosa che richiedesse un certo impegno ma che portasse, nelle mie capacità limitate, a un risultato che potesse rispecchiare la bellezza ed il valore della ragazza accanto a me. Tornai ad ammirare il suo volto. Mi spiacque non averlo contemplato mentre era illuminato dall’orgasmo.

– “Ci sarebbe la possibilità di fare qualcosa di… fuori dal comune”, proposi, restando sul vago, ma Emma sembrò ancora più felice di prima. Mi sentii in obbligo di aggiungere: “Ma dovremo tornare qui questa sera e restare la notte”. Mi sarei aspettato un raffreddamento dell’entusiasmo della ragazza e invece prese una mia mano, l’appoggiò al suo inguine e quella che le restava libera strinse un mio gluteo. Lei mi fissò negli occhi, le sue pupille che si dilatavano, i denti che tornavano a mordere il labbro inferiore.
– “Io e te, da soli, questa notte?”, chiese. Non aggiunse altro, ma sarebbe stato difficile fraintendere.

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