Lui & Lei
VACANZA IN MONTAGNA (2/4)
di Grande_Bruno
31.12.2024 |
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"Lì, nella notte, con i pantaloni e le mutande abbassati a metà delle cosce, con una ragazza meravigliosa che profumava di donna al punto tale da stordirmi, ..."
Parte 2/4Chi ha letto le mie storie, sa che quello che scrivo è ispirato alla mia vita e solo adesso che ho raggiunto un’età matura, voglio riportare in queste righe le sensazioni e le esperienze che hanno fatto di me l’uomo che sono. Ecco quindi la seconda parte della storia che è emersa dalle nebbie della mia memoria.
Tornammo all’albergo attorno alle tre, incontrando diversi ospiti che, a differenza nostra, davano inizio alla loro escursione quotidiana nel pomeriggio, terminato il pranzo ed in piena digestione. Non fu necessario questo a ricordare ad Emma ed a me che quel mezzogiorno non avevamo pranzato, ma riuscimmo comunque a scampare al calo degli zuccheri grazie ad alcune barrette che mi ero messo nello zaino e che non mi andava di riportarmi a casa al termine della vacanza.
Quando facemmo rientro nel giardino quasi vuoto, scoprimmo che il ristorante era chiuso e per altre tre ore non avrebbero riacceso i fornelli. Proposi alla mia compagna di escursione di consumare qualcosa al bar ma lei mi rispose che voleva riposare un po’ in vista del nostro ritorno sul pianoro. Annuii, convenendo che aveva ragione e che mi sarei ritirato anch’io nella mia camera per schiacciare un sonnellino. Ovviamente, avendo conosciuto diverse ragazze in passato, sospettai che la stanchezza fosse solo una scusa quanto piuttosto il desiderio di non frequentarmi per qualche ora. Dopo quel ditalino e l’orgasmo che aveva provocato, non voleva sembrare troppo facile o dare l’impressione che adesso non potesse più fare a meno di me. Sospettai comunque che, per un altro orgasmo simile, tra l’altro nemmeno uno dei miei migliori, si sarebbe gettata nel fuoco.
Prese la sua fotocamera e scomparve lungo le scale che portavano alle camere. Avrei voluto consigliarle di non pubblicare la foto che le avevo scattato, che un passaggio in un programma di fotoritocco l’avrebbe migliorata, ma credetti che dire alla donna che si aveva penetrato a tradimento con due dita e portata al parossismo del piacere che la foto che le ritraeva non fosse perfetta sarebbe stata una gran pessima idea, soprattutto se avevo intenzione di entrare nel suo splendido corpo anche con altre mie estremità.
I cinque giorni passati a camminare in zona avevano allenato i miei muscoli a sufficienza per non sentire stanchezza, permettendomi di non cercare riposo su un letto, da solo, quindi mi sedetti ad un tavolino del bar, all’esterno, sotto un ombrellone, aspettando che una buon’anima di cameriere venisse a chiedere se volessi qualcosa. Un cameriere arrivò, ma definirlo «buon’anima» sarebbe stata un perfetto esempio di ossimoro, come stavo iniziando a comprendere.
– “Oh, ben tornato!”, disse Lucio, iracosamente ironico, facendomi riaprire gli occhi che avevo chiuso per riposare un po’. “Com’è andata con la ragazza con i capelli non rossi?”,
– “piacevole escursione, devo dire”, risposi, deciso a tralasciare proprio la parte migliore. “Emma, perché a questo nome risponde quella splendida fanciulla, ha una passione per i film d’amore, un qualche tipo di orsetti di peluche con l’impermeabile e il lavoro manuale”. Mi guardai bene dallo specificare che tipo di «lavoro manuale» avesse apprezzato qualche ora prima.
– “Bene, allora le faremo sbucciare le patate in cucina, questa sera…”, ribatté stizzito il mio amico, fraintendendo completamente.
– “Oh, no!”, lo corressi, “questa sera io e lei torneremo lassù a fare altre foto”. Lanciai un’occhiata al pianoro che, dal fondovalle, sembrava parecchio in alto.
“Sarà meglio portarsi qualche coperta in vista del freddo della notte”. L’espressione di Lucio non lasciò dubbi sulla sua opinione del tempo che passavo con Emma invece della influencer che aveva rubato il suo cuore. O, più probabilmente e prosaicamente, forse solo un altro suo organo.
– “La foto che voglio io è un’altra. E se non me la porti entro due giorni dovrai pagarti tu gli altri giorni, se vuoi restare qui a goderti questo luogo così”. Quindi, prima indicò le tre cime di Lavaredo all’orizzonte con un dito, poi lo spostò su un capannello di giovani. Non fu difficile notare al centro una testa femminile dai capelli rossi.
– “Non preoccuparti”, gli dissi per calmarlo. Nel caso, posso dire che, nonostante tutto, anche a casa non si sta male. Lui non rispose per qualche istante, per poi ricordarsi del nostro incontro in mattinata.
– “Ah, già! Il tuo piano basato sulla gelosia”, esclamò, apparendo però meno convinto di qualche ora prima. “Comunque, ti porto qualcosa?”. Ordinai un toast ed una tazza di the, poi chiesi a che ora avrebbe aperto il ristorante.
– “Sarà utile mettersi in viaggio un po’ presto, io ed Emma, prima che cali troppo il sole”,
– “che te ne frega”, disse Lucio guardandomi sopra il bloc notes dove stava scrivendo la mia comanda. “Verso le otto e mezza sale in jeep il responsabile della stazione meteorologica nei pressi del rifugio” e mi indicò un uomo di mezza età che stava scrivendo ad un portatile. Sollevai un sopracciglio.
– “Ah, bell’orario per andare a controllare l’igrometro. Anche lui non apprezza la tv, la sera?”. Facendo spallucce nel massimo dell’indifferenza, il mio amico mi spiegò in poche parole che il tizio era stato mandato qui qualche giorno prima da un‘università in Trentino-Alto Adige per sostituire un circuito bruciato necessario per la trasmissione dei dati meteo attraverso la rete dati dei cellulari, ma quello che era stato fornito dall’azienda produttrice in Germania era sbagliato e, dopo avere ordinato quello corretto, il quale sarebbe arrivato nel tardo pomeriggio con un corriere, quella sera avrebbe terminato il suo lavoro e nella notte sarebbe tornato a Bolzano.
– “Praticamente è rimasto qui a raccogliere di persona i dati e spedirli via e-mail, ma domani si sposa la figlia e non vuole mancare”,
– “comprensibile”, commentai.
Quando Lucio andò a preparare la mia merenda, mi alzai e parlai con l’uomo: dopo essersi assicurato che fossimo solo in due, indifferente alla motivazione che ci portava lassù, accettò di darci un passaggio alle otto e mezza con la jeep. Tornai alla mia sedia, soddisfatto che almeno la lagna di farci altri dieci chilometri con un dislivello positivo non indifferente, quella sera, ce la saremmo schivata. Presi il telefonino dalla tasca e cominciai a studiare cosa portarmi quella sera con noi per fare la foto. Buttai giù una lista, prevedendo possibili problemi e non solo per quanto riguardava lo scatto: la lampada da campeggio che avevo portato con me e che si era limitata a occupare spazio e pesare nei bagagli sarebbe potuta tornare utile e pure le altre tre o quattro barrette energetiche che erano rimaste in camera. Ovviamente, anche il pacco di batterie avrebbe finalmente fatto qualcosa per meritarsi la mia fatica nel portarlo fin lì.
Mi stavo godendo il toast quando sentii uno strepito alla mia destra. Mossi solo gli occhi non volendo apparire troppo interessato a quanto stava accadendo. Notai che il gruppo di ragazzi era decisamente diminuito e che ora Gaia si vedeva perfettamente. Si vedeva perfettamente soprattutto il suo sguardo assassino, puntato sul povero Arturo, che stava nuovamente armeggiando con la fotocamera. Supposi fosse un altro di quelli che comprava una macchina da mille e passa euro e con le caratteristiche simili a quelle del telescopio orbitale Hubble ma non leggeva il manuale di istruzioni, aspettandosi che funzionasse come la fotocamera del telefonino con qualche intelligenza artificiale ad occuparsi delle varie impostazioni, molte delle quali completamente ignote al proprietario. O, come capii pochi secondi dopo, quando il ragazzo abbandonò il gruppo, dirigendosi di corsa verso l’interno dell’albergo, che la batteria era di nuovo a terra.
Gaia, cercando di non mostrare la propria frustrazione ai suoi seguaci e probabilmente per avere un attimo di pace, propose dieci minuti di pausa. Selfie, video e autografi sarebbero proseguiti più tardi, promise. Un mormorio di disapprovazione si levò tra i fan, ma dopo qualche secondo si allontanarono: una volta finalmente da sola, la ragazza si lasciò cadere sul divanetto, chiudendo gli occhi e cercando di rilassarsi.
Tornai a concentrarmi sul mio toast ma, dopo un paio di morsi e un sorso di the, mi resi conto che qualcuno si era fermato accanto a me. Quando mossi la testa trovai proprio lei che fissava il suo telefonino, uno di quelli sovradimensionati, appositi per l’uso dei social network. C’era una profonda rabbia nel suo sguardo quando lo mosse dal display alla mia faccia.
– “Sei tu…”, iniziò a chiedere, per poi tornare a controllare sullo schermo prima di continuare. Pronunciò il mio nome come se fosse una presa in giro nei suoi confronti. “Bruno Kasanova?”, annuii supponendo che avesse trovato il mio profilo social con il mio pseudonimo. Mi fissò confusa. “Ma… parente?”,
– “oh, no! Purtroppo”, risposi, trattenendo a stento un sorriso. “In caso contrario avrei chiesto uno sconto per l’acquisto dei casalinghi di casa mia”.
– “Cosa?”, sbottò e solo dopo qualche secondo comprese cosa intendessi, senza però accorgersi che, adesso, la stavo davvero prendendo in giro. “No… intendo quello famoso, di una volta!”, simulai stupore, poi disgusto.
– “Giacomo Casanova? Quel puttaniere libertino, baro, ladro ed evaso?”, scoppia in una risata, la ragazza confusa che mi fissava. “Spero proprio di no! Voglio dire: se fossi suo pronipote la stirpe si sarebbe davvero imbastardita. Povero Giacomo, sono scarso pure come puttaniere, ed è il mio passatempo preferito”. Gaia restò in silenzio un istante, incapace di comprendere se fossi serio.
– “Ma… mi stai prendendo per il culo?”. Non potei evitare di abbassare lo sguardo all’altezza dei suoi glutei che, stretti in un paio di pantaloni che lasciava ben pochi dubbi, apparivano meravigliosi.
Ammisi con me stesso che non mi sarebbe dispiaciuto affatto prenderla per il culo, ma non in senso figurato… La ragazza si scosse dalla confusione. Allungò il telefono verso di me, mostrandomi lo schermo: sotto la scritta «emmacattaneo» ed il geotag «Tre cime di Lavaredo» appariva la foto che avevo scattato qualche ora prima e che Emma aveva caricato su Instagram senza modificarla se non aumentando un po’, fortunatamente non troppo, come invece molti facevano, la saturazione ma senza raddrizzarla. La ragazza appariva magnifica, con una carica erotica che permeava l’immagine al punto tale che io mi sarei vergognato a pubblicarla; constatai che avrei forse dovuto aumentare di uno step l’apertura del diaframma, diminuendo la sfocatura che dissolveva il contorno delle tre cime con lo sfondo.
Appena sotto, con un giro di parole e dimostrando di possedere una certa vena poetica, Emma raccontava che quella foto era stata scattata dal ragazzo che le aveva dato un orgasmo pochi istanti prima, quindi compariva il collegamento al mio profilo. Giunsi alla conclusione che sua madre non usasse i social, così come il resto della famiglia; mi chiesi anche se pure le altre foto o per lo meno le loro descrizioni, presenti nell’album alludessero alla sua vita sessuale. Avrei dovuto farci un giro, più tardi, magari a letto, con qualche fazzolettino di carta.
– “Quindi l’hai scattata tu”, concluse la rossa. Non nascose la propria cocente delusione. “Cazzo…”,
– “qualcosa non va?”, domandai.
– “Fanculo!”, mi disse, il trucco pesante che non riusciva a nascondere la sua rabbia. Sembrò sul punto di sputarmi addosso. “Io mi devo tirare dietro quella merda mentre uno bravo, è uno stronzo come te che corre dietro a quella stupida troia”. Non so spiegarmelo, ma non rimasi sorpreso dalla trivialità della «vippetta».
– “Di certo non ho intenzione di sollevarmi al tuo livello sociale e, soprattutto, culturale, principessa”, le risposi, offeso esclusivamente per il termine con cui aveva etichettato la dolce Emma. A giudicare dall’espressione di sorpresa e allarme di Gaia, il disprezzo che apparve sulla mia faccia fu ben più efficace di qualsiasi insulto che potessi lanciarle contro. “Quindi, abbi la cortesia di non macchiare la tua persona con un plebeo come me e torna dal Frank Capra che ti meriti, anche se mi sembra più Frank West”. Gaia fu sul punto di esplodere, vibrando come se un brivido l’avesse colpita, ma poi si limitò ad un:
– “ti odio! Sei uno stronzo!”, infine si voltò con le mani che si stringevano in pugni con un vigore tale che mi sarei aspettato di sentire il grosso telefonino emettere suoni di plastica intenta a creparsi.
La guardai allontanarsi cercando di non fissarle il culo, ma il mio sforzo ebbe ben poco successo. Avrei dovuto offendermi, sentirmi insultato, ma l’unica cosa che feci fu infilarmi la lingua tra i denti per non mettermi a ridere quando mi chiesi cosa avrebbe pensato Lucio se avesse assistito a quello scambio di battute.
Verso le sei del pomeriggio, con in mano la lista che avevo preparato in giardino, recuperai il materiale che ritenevo necessario per passare la notte al pianoro con Emma e lo posi nello zaino, aggiungendo un paio di borracce piene, qualche barretta proteica e una manciata di preservativi: a giudicare dal comportamento della ragazza quando le avevo proposto di tornare lassù, immaginai che sarebbero tornati comodi. Mi dispiacque non aver portato della crema per massaggi oltre a quella solare…
Avevo mandato un messaggio a Emma, informandola della possibilità di scroccare un passaggio. Lei mi aveva risposto che si sarebbe presentata al parcheggio per l’ora pattuita con la sua fotocamera e il necessario per la notte all’aperto e così fece: mentre l’ombra delle montagne stava risalendo dalla valle verso il pianoro dov’eravamo diretti, mi raggiunse accanto alla jeep dell’albergo data in prestito al meteorologo.
Emma mi sorrise, incapace di trattenere l’eccitazione. Mi diede un casto bacio su una guancia, ma la mano che appoggiò, forse inconsciamente, a pochi centimetri dal mio inguine, di casto mi sembrò avere ben poco. «Sono davvero curiosa di scoprire cosa vuoi fare questa notte», mi confidò a bassa voce, lasciando intendere un secondo senso alle sue parole. Non voleva darlo a vedere, ma era decisamente intenzionata a sedurmi nella speranza di ricevere un nuovo ditalino come quello della mattina. Sogghignai al pensiero. Non avevo intenzione di deluderla. Il meteorologo indugiò qualche secondo di troppo su Emma quando la vide per non far capire che apprezzava la sua vista quanto una cella temporalesca, poi notai un accento di amarezza infondersi nelle sue parole quando annunciò che stava per partire. Salimmo sui sedili posteriori, in quanto quello anteriore era occupato da una scatola di cartone dalle dimensioni sufficienti a contenere un forno a microonde, ma quando l’avevo vista spostare dall’uomo avevo intuito che non doveva pesare più di un paio di etti: verosimilmente era solo un circuito elettronico avvolto in fogli di pluriball, gomma e isolante, più un manuale per il montaggio scritto in tedesco e probabilmente tradotto in un italiano più simile al lituano.
Il viaggio, che nella mattina aveva richiesto un paio di ore a piedi, in auto richiese solo un quarto d’ora di scossoni, sobbalzi e chiacchiere del meteorologo che, probabilmente, stava cercando di impressionare Emma con fronti di aria fredda, anticicloni e precipitazioni. Ma la spiegazione fu così noiosa che il mio interesse per il meteo passò in pochi minuti da un già scarso in precedenza a inesistente, facendomi ricredere riguardo alla noia che dovevo sopportare durante le lezioni pomeridiane di tre ore di matematica alle superiori. In più i sedili della jeep erano tutto fuorché comodi e sembrava che dovessimo prendere con le ruote ogni singolo, dannato buco e sasso presente nella strada sterrata. Quando finalmente scendemmo dal mezzo, mi sentivo ancora più stanco della mattina.
– “Che logorroico, per la miseria”, dissi, quando la jeep ripartì nella luce arancione della sera,
– “…e non ci ha nemmeno detto com’è il tempo domani”, esclamò Emma, ponendosi lo zaino in spalla.
Ridemmo alla sua battuta mentre ci rimettevamo in cammino. Il sole aveva già cominciato a scivolare sotto le cime a occidente e le ombre della notte ad inspessirsi negli avvallamenti. Le poche nuvole all’orizzonte si erano già ingrigite ad oriente, perdendo il rossore della sera. Fortunatamente, l’aria era ancora di un piacevole tepore, in cui echeggiavano i canti di qualche uccello e, di tanto in tanto, le strida di un rapace. Quando arrivammo in cima al pianoro e raggiungemmo il punto dove in mattinata avevo dato un orgasmo alla ragazza, il sole era ormai un lucore ad occidente e la notte iniziava il suo breve regno quotidiano.
– “Temo che siamo arrivati troppo tardi”, constatò Emma, con un pizzico di delusione nella voce. Mi tolsi lo zaino dalle spalle e lo posai a terra.
– “Tutt’altro: è ancora troppo presto”, risposi. Lei mi guardò confusa, ma sembrò fidarsi sufficientemente per accettare le mie parole,
– “meno male, pensavo di aver fatto un viaggio a vuoto”. Aprii la cerniera dello zaino e cominciai ad estrarne il contenuto. Presi un plaid e lo posi a Emma.
– “Per favore, stendilo in qualche posto un po’ comodo”, le chiesi, poi cacciai anche la lampada e il treppiede.
Dischiusi quest’ultimo, allungandone le gambe e posandolo appena oltre il macigno dove avevo piazzato la ragazza per la foto che aveva causato tutto quello scalpore con la «vippetta». Feci un paio di passi indietro, inquadrando meglio nella mente la scena, poi controllai la bolla di livello della testa e regolai la lunghezza di uno dei sostegni per averla perfettamente dritta. Emma mi si avvicinò, stringendosi ad un mio braccio. Un seno, di nuovo, venne volontariamente appoggiato contro il mio corpo.
– “Hai freddo?”,
– “no”, rispose, poi si corresse, sebbene sembrasse ancora calda per la camminata. “Solo un po’”. Le dissi di passarmi la sua fotocamera, la programmai e la innestai sul treppiedi.
La ragazza continuava a non capire cosa stessi facendo, ma probabilmente apparivo ai suoi occhi come una persona competente. Attesi qualche secondo dopo aver premuto il tasto di scatto, quindi controllai la foto apparsa sul
piccolo display. Non male, dovetti ammettere: una volta passata al computer sarebbe stata ancora migliore. Emma si sporse e guardò a sua volta l’immagine, simile a quella in cui era ritratta anche lei. Non parve particolarmente colpita quando si voltò verso di me. «Abbiamo già finito?». Le posi una mano dietro la nuca, una sul collo e la baciai. Fu sorpresa dalla mia mossa, ma dopo qualche istante il suo atteggiamento passò da passivo ad attivo, massaggiandomi la schiena e gemendo nell’apprezzamento. Nella leggera brezza della sera, percepii espandersi il profumo che aveva impregnato le mie dita bagnate dopo averle estratte dalle mutandine della ragazza, quella mattina. Misi una mano sotto il suo sedere e la sollevai, lei strinse le gambe attorno alla mia vita. La portai fino al plaid e ve la adagiai sopra.
– “Spero tu abbia controllato che non ci siano sotto sassi appuntiti”, le dissi, sdraiandomi accanto a lei. Lei prese il mio mento e lo avvicinò alle sue labbra. Il suo fiato caldo accarezzava la mia faccia.
– “Taci e baciami”, rispose sottovoce, quindi diede il buon esempio.
Passammo una buon’ora a baciarci e a coccolarci sul plaid, completamente vestiti. Emma, in un paio di occasioni, aveva provato a togliermi la maglietta o denudare sé stessa, ma in ogni occasione l’avevo fermata, dicendole che ci avremmo pensato più tardi. Lei mi guardava confusa, probabilmente incapace di comprendere perché un ragazzo non volesse spogliarla e poi farci sesso, visto che in passato, considerando quanto era bella, molti dovevano averlo fatto senza perdere molto tempo in preliminari o almeno provandoci. Quei capelli biondi, lunghi e ondulati, che arrivavano fino a metà della schiena e quegli occhi azzurri mi facevano impazzire e, per quanto l’avessi vista sempre vestita, lasciarle addosso quella maglietta e quei pantaloncini era una sfida quasi impossibile. Va detto che, ad un certo punto, lei si risentì, chiudendosi in sé: si strinse le braccia al seno e si sedette, guardando dalla parte opposta alla mia.
– “Bruno, pensavo volessi portarmi qui con la scusa della foto per fare l’amore sotto le stelle, ma mi sembra che non stiamo concludendo nulla”, si lamentò con voce sommessa. Un accento di eccitazione non soddisfatta permeava la sua voce. “Il ditalino di questa mattina è stato meraviglioso e speravo in altro, ma non fai altro che baciarmi…”,
– “che sciocchina che sei”, l’apostrofai con dolcezza, “la scusa del sesso sotto le stelle, mi serviva per portarti qui e permetterti di fare una foto memorabile”.
Emma si voltò verso di me, il viso che mostrava tutta la sua incomprensione. Mi alzai in piedi e le porsi una mano, che prese e in un attimo anche lei era in posizione eretta. Afferrai la lampada da campo elettrica e l’accesi in modalità «luce calda», illuminando un piccolo cerchio di qualche metro di raggio con un bagliore dorato così che potessimo vedere agevolmente. Invitai Emma a raggiungere la fotocamera ancora in posizione sul treppiedi e le chiesi di toglierla e passarmela. La curiosità sul suo volto non calò di una minima frazione nemmeno quando mi pose la macchina e vide che avevo in mano uno strano oggetto piatto se non per una protuberanza all’estremità.
– “Cos’è?”, domandò. Misi l’oggetto sotto un’ascella, aprii il vano della fotocamera e vi feci scivolare fuori la pila. Al suo posto infilai l’oggetto.
– “È il mio pacco di batterie”, le spiegai, poi mi avvicinai a lei e, tenendo la fotocamera per la cinghia, afferrai la ragazza per la vita e la baciai con passione, scivolandole in bocca con la lingua. Lei non si fece pregare e subito la sua si strofinò con la mia. Restammo qualche secondo così, poi mi staccai. “La fotocamera deve durare a lungo”, le sussurrai in un orecchio. Sentii la sua mano scivolare sul mio cavallo e stringere dolcemente, afferrando il mio cazzo in erezione attraverso gli abiti. Dopo quel tempo passato a fare petting, dovevo avere le mutande macchiate di liquido precoitale. Sfregò un po’, come a controllare quanto fosse duro. A sua volta, mi bisbigliò in un orecchio:
– “Anche tu?”,
– “lo scopriremo tra un momento, ma prima…”, risposi e le porsi la macchina, “ne varrà la pena”, le promisi, quando parve che la cosa la lasciasse delusa per l’interruzione.
Le feci riposizionare la fotocamera sul treppiedi, quindi le dissi di accenderla e programmarla come le avrei consigliato. L’avevo già fatto in passato con la mia, ma aver studiato nel pomeriggio le caratteristiche della macchina di Emma avrebbe permesso di avere risultati migliori. La baciai sul collo e le dissi di impostare la sensibilità del sensore a 1600, poi il diaframma con apertura a f/2.8. Emma, come mi aspettavo, non aveva idea di cosa stessi parlando, e allora le spiegai come fare, come muoversi nei menù.
– “Muovi la rotellina così”, le suggerii, appoggiandole una mano su un seno e ruotandola nel medesimo senso. I suoi capezzoli erano ancora turgidi e lei sussultò con un gemito di piacere. La baciai ancora e le consigliai di togliere la correzione automatica del rumore.
– “Come?”, chiese lei, dolcemente.
– “Vedi quel menù?”,
– “sì”,
– “ecco, tu continua a scendere così…”, le ordinai mentre una mia mano calava sotto la sua cintura e scivolava nelle sue mutandine. La sentii inspirare profondamente, di certo sicura che si sarebbe ripetuto l’episodio della mattina. Due mie dita scivolarono tra le labbra della sua figa, discostandole. Le feci calare dal clitoride fino all’ingresso del suo utero, da cui usciva desiderio liquido quasi a fiotti, poi risalii fino in cima. Quando ritornai in basso, accompagnai il suo sospiro con uno “scendi ancora”, ripetendolo fino a quando raggiunse la voce che cercavo.
– “Spero che non abbiamo già finito…”, sussurrò con un filo di voce. Mi sporsi per baciarla sulla gola, percependo il suo cuore battere all’impazzata.
– “Non preoccuparti, è una programmazione lunga…”,
– “menomale”, sospirò, con una certa gioia. Mossi ancora le dita tra le sue labbra finché non raggiunse la voce successiva.
– “Adesso devi girare di nuovo la rotella”,
– “come?”, chiese mezza stordita dal piacere.
– “Così”, dissi e le afferrai delicatamente il clitoride, muovendolo tra i polpastrelli. La ragazza trattenne il fiato, chiudendo gli occhi come se fosse stata colta da un capogiro. “Hai capito come?”,
– “s…”, fece per pronunciare, ma poi disse il contrario:
– “no!”, non trattenni il sorriso.
– “Te lo ripeto”. Lei tremò tutta, poi lanciò un grido roco. Iniziai a temere potesse pisciarsi addosso in uno spasmo di piacere. Forse sarebbe stato meglio terminare la programmazione, prima. Scesi ad accarezzarle l’apertura dell’utero con un dito, avvicinandomi ed allontanandomi in una spirale in senso orario. “Pensi di riuscirci oppure ho esagerato?”. Emma ebbe un tremito, ma riuscì ad allontanare le mani dall’inguine dove sembrava volesse contemporaneamente strappare la mia mano e trattenerla il più possibile. Quando parlò, dalla voce sembrava che qualcuno le avesse iniettato una dose appena insufficiente di anestesia:
– “sì… ma lasciami finire… per favore”. Non avevo mai sentito un «per favore» poco convinto come in quel momento. Finii di spiegarle come impostare gli autoscatti di due minuti l’uno.
– “Così ricordi il procedimento e potrai stupire i tuoi amici con foto incredibili”, le dissi. Si era ripresa un po’ rispetto a prima, ma continuavo a tenerla per la vita e a massaggiarla nel sesso bagnato e caldo. Un dito le stava massaggiando l’interno dell’utero da qualche minuto.
– “Mi sa che ricorderò qualcos’altro, di questa notte”, ipotizzò, voltando il capo verso di me.
– “Qualcosa come questo, intendi?”, domandai, sfilandomi da dentro di lei e stringendo nelle mie dita bagnate di desiderio il suo clitoride ormai completamente eretto.
Feci un po’ di pressione e lo sfregai con i polpastrelli come se fossi stato intento a cercare una stazione su una vecchia radio usando una manopola. Emma lanciò un grido, le gambe che sembravano collassare tra di loro come due pilastri colpiti da un terremoto, poi una si sollevò e cominciò a pestarla contro il terreno. Dovetti trattenerla per il busto con il braccio libero per non farla cadere, stringendola a me. La ragazza tremava come una foglia mentre la sgrillettavo senza pietà, lei che gemeva incapace di trattenersi. Un profumo fruttato cominciò a spandersi dalle sue mutandine, mentre la sua voce si faceva roca.
Continuai per un buon paio di minuti, poi la sua schiena si arcuò e la sua bocca si aprì per un grido che non le uscì mai. Si contorse per diversi secondi, poi sembrò accasciarsi quasi fosse svenuta e solo le mie braccia le impedirono di crollare a terra. La presi con tutte e due le braccia, sollevandola, poi l’adagiai sul plaid su un fianco, ancora scossa dall’orgasmo, e le sussurrai in un orecchio: «Lo so, sono un grande stronzo» e la baciai, quindi mi rimisi in piedi, tornando alla fotocamera.
Controllai le impostazioni (impostare una lunga esposizione notturna e, contemporaneamente, «sditalinare» una bionda è una cosa un po’ complicata, almeno per me) mentre mi godevo il nuovo profumo delle dita, quindi premetti il tasto di scatto dopo aver impostato cinque secondi di ritardo. La macchina iniziò a registrare l’immagine mentre prendevo una borraccia dallo zaino. Mi accosciai accanto ad Emma che si stava riprendendo, porgendole l’acqua.
– “Scusa, le dissi, ironico, prometto che non lo faccio più”. Lei prese la borraccia e bevve un sorso. Mi lanciò uno sguardo, incerta se chiedermi di darle un altro orgasmo simile o terrorizzata di essere nuovamente travolta da un’emozione di tale di intensità. Presi la bottiglia in alluminio che Emma mi allungò una volta dissetata, la chiusi e la appoggiai un po’ in là. “Adesso che ho visto come vieni quando ti metto le dita nella passera, sono curioso di scoprire come godi con una lingua che te la lecca, poi mi dici cosa preferisci”. Il sorriso che si disegnò sul suo splendido volto fu più eloquente di qualsiasi parola.
– “Però… beh, dovrei restituirti il favore”. Annuii.
– “Oh, lo farai, non preoccuparti”, le risposi, sorridendo e pregustando gli orgasmi che il suo splendido corpo mi avrebbe donato, quella notte. La baciai e intanto le afferrai il fondo della maglietta e la sollevai.
– “Non prenderò freddo?”, mi domandò, sebbene l’aria fosse ancora abbastanza calda. In realtà, gocce di sudore le colavano dalla fronte. In ogni caso, avevo portato un paio di maglie (anche se credo che lei ci sarebbe stata due volte in una mia), una coperta e alcune di quelle bevande che si scaldavano premendo il fondo della confezione, causando il mescolamento di due sostanze chimiche e lo sviluppo di una reazione esotermica che avrebbe scaldato il liquido edibile:
– “cioccolata calda magica, per intenderci. No, non preoccuparti”, risposi, “ho intenzione di scaldarti io con il mio corpo. Anzi, aspetta che te lo dimostro”.
Le lasciai la maglietta addosso ma le sfilai con dolcezza e con una certa teatralità i pantaloncini, gettandoli un po’ in là. Le mutandine, nere, con il pizzo, erano, come mi aspettavo, bagnate al punto da poter essere strizzate. Le baciai sulla macchia, aspirando voracemente con il naso il profumo che ne scaturiva. Emma fu entusiasta dalla mia espressione soddisfatta.
«E adesso, se mi permetti…», dissi, ma non attesi la sua risposta: presi l’elastico con i denti e le abbassai. Le donne hanno questo stupido vizio di indossare biancheria costosa, privandoci del piacere di farla a pezzi permettendoci di dimostrare quanto desiderio ci pervada dopo aver drogato la nostra mente con l’effluvio della loro femminilità. Emma trattenne il fiato, improvvisamente imbarazzata, mentre il suo bocciolo di rosa appariva per la prima volta alla mia vista, illuminato debolmente dalla lampada da campeggio: le piccole labbra, marroni per l’irrorazione sanguinea, dai contorni irregolari, si protendevano verso l’esterno, quella sinistra leggermente più di quella destra, aperte, consentendomi di vedere il gioiello che celavano; il clitoride, uno dei più grossi che avessi mai visto, come avevo notato poco prima con il tatto, aveva le dimensioni della falange finale di un mignolo e svettava come a sfidarmi di leccarlo; l’utero, proprio mentre lo contemplavo, si aprì sotto la spinta di una grossa goccia di ambrosia, che sembrò esplodere, rilasciando una nuova ondata di profumo direttamente nella mie narici: si dissolse in un rivolo di liquido biancastro che scivolò nel perineo e si disperse tra i glutei della ragazza, probabilmente finendo nell’ano.
Non dissi che era bellissima, che era la cosa più meravigliosa al mondo: piuttosto, presi le cosce muscolose della ragazza, le sollevai mostrandomi il suo splendido culo, appoggiai la punta della lingua appena sopra l’ano e risalii il perineo fino all’utero, che penetrai per qualche centimetro. Mentre il desiderio liquido di Emma si depositava tra le mie pupille gustative e si insinuava nell’epitelio olfattivo, sentivo la mia mente perdere lucidità e i miei slip diventare fastidiosamente stretti.
Appoggiai le gambe di Emma sulle mie spalle, poi le aprii le labbra con le dita e cominciai a leccarle la passera con vigore. La ragazza s’irrigidì e si rilassò, stringendo le chiappe quando sentiva la punta della mia lingua passare su qualche punto più sensibile, emettendo gemiti di piacere e sospiri. Finalmente mi fece felice quando una sua mano si posò sulla mia testa, come ad impedirmi di sfuggire dal lavoro che le stavo praticando.
Il profumo della sua passera era travolgente, mi stordiva e mi eccitava allo stesso tempo, costringendomi ad uno sforzo per continuare con la mia lingua e non a tirare fuori il mio cazzo e fotterla con violenza. Sarebbe arrivato anche quello, ma al momento l’unica cosa che poteva fare era causarmi un fastidio all’uretra e quella sensazione di liquido precoitale che sgorgava dal meato e si dissolveva nel tessuto delle mutande.
Emma si contorceva sul plaid, come in preda ad un dolore che le impedisse di muoversi agevolmente, ma le parole che pronunciava, basse e quasi celate dai sospiri che le era impossibile controllare, lasciavano comprendere che quella era l’impressione sbagliata. I suoi polmoni si riempirono e per qualche secondo rimasero in quello stato quando due dita scivolarono dentro di lei, bagnandomi di desiderio fino a metà dell’avambraccio. Cominciai a stimolarle il punto G con forza mentre le mie labbra attaccavano il clitoride che svettava sulla sommità della sua passera come un fortino imprendibile.
Dalle grida che lanciò fui quasi sul punto di credere che avesse visto un orso sollevarsi in piedi davanti a lei, ma poi, con una voce rabbiosa ma ancora sconquassata dagli ansimi, mi ordinò: «Non fermarti, Bruno! Fammi impazzire». Credo mi abbia piantato le unghie nel cuoio cappelluto quando venne. In effetti, temetti avesse avuto anche un arresto cardiaco perché si irrigidì per qualche secondo e poi si accasciò sul terreno, senza dire nulla. Sollevai la testa dalla sua figa e la guardai: solo il movimento delle narici indicava che respirava ancora.
Estrassi le dita da lei, e fu come toglierle dal foro di un contenitore sotto pressione perché dal suo utero fuoriuscì una gran quantità di ambrosia che si riversò lungo il perineo e sul plaid. Contemplai quello spreco con dolore per qualche istante, poi tornai al resto della mia amante: mi sdraiai accanto a lei e le posi le dita che l’avevano sgrillettata sotto il naso. Emma percepì il profumo intenso del suo sesso e, con gli occhi chiusi, afferrò dolcemente la mia mano, l’avvicinò alla bocca e le leccò.
– “Lo sai che è il tuo trasudo?”, le domandai. Avrei potuto usare un termine più poetico, ma perversamente volevo vedere che effetto avrebbe provocato in lei scoprire che stava suggendo ciò che la sua figa produceva per agevolare il movimento di un cazzo dentro di lei. La ragazza, invece, sorrise.
– “Oggi ho sentito il mio profumo segreto tante di quelle volte e in occasioni così piacevoli e dolci, Bruno, che nel pomeriggio mi sono sditalinata pensando a te e l’ho assaggiato”, confessò, “… è delizioso”. Non potei che essere d’accordo. Con dolcezza penetrai con le due dita nella sua bocca e le baciai un angolo delle labbra.
Lei le succhiò con gusto, poi spostò la testa all’indietro, liberandole. Mi prese la testa e mi limonò con passione, la sua lingua che mi invadeva con un impeto che non mi sarei aspettato. Sembrava volesse violentarmi il cavo orale. La cosa non mi dispiacque e fu un peccato che, alla fine, terminò. O, più esattamente, fu un bene perché baciava con una tale passione, Emma, che credetti di sborrare nelle mutande. La ragazza mi fece sdraiare sulla schiena, si sedette sul mio addome e si tolse la maglietta, mostrando una pancia piatta ed un reggiseno dello stesso stile delle mutandine. Si mise le mani dietro la schiena, dove c’era lo sgancio, ma poi si fermò, guardandomi con complicità.
– “Le vuoi vedere, le mie due bambine?”,
– “se sono belle quanto i tuoi occhi, sì”, le dissi, poi aggiunsi dopo un paio di secondi: “ma se sono come il tuo culo” e glielo palpai, “no, perché non credo di poter ammirare due spettacoli simili e non avere un infarto”.
L’espressione del suo viso passò dal compiaciuto, al quasi offeso e, infine, comprese le mie parole, si illuminò in un sorriso. Il reggiseno perse la sua forma, i lembi che lo tenevano chiuso dietro la schiena penzolarono lungo i fianchi: un attimo dopo, Emma lo tolse e due splendidi seni si ersero sopra di me. Erano una seconda abbondante, con capezzoli circondati da piccole aureole di un rosa scuro. Non potei trattenere il bisogno di toccarli con le mani, ma non ne ebbi modo: Emma si abbassò verso di me e me li mise direttamente in faccia, strusciandoli. Sentivo il calore delle mammelle scaldarmi il volto e i capezzoli impuntarsi sulla mia pelle quando cambiava direzione. Credo che avrei potuto passare la notte in quello stato, senza lamentarmi di non aver posseduto Emma.
In realtà, ad un tratto riuscii, mentre incoscientemente la ragazza li faceva passare sulle mie labbra, a risucchiare in bocca un capezzolo. La bloccai in quella condizione mettendole le mani sulla schiena, ma lei non replicò. Anzi, mi baciò sui capelli e sentii il suo respiro farsi più profondo. Percepii anche il suo bocciolo di rosa inzuppare di desiderio la mia maglietta. Solo dopo qualche minuto in quella posizione ed essere passato a succhiare anche l’altro capezzolo, Emma si avvicinò ad un mio orecchio e mi sussurrò:
– “Ti prego, Bruno, scopami. Voglio il tuo cazzo”. Mossi la testa per liberare il capezzolo dalla mia bocca.
– “Sì, però voglio che mi cavalchi”.
Lei non disse nulla. Completamente nuda, la stella più bella di quella notte, un sorriso di soddisfazione ed uno sguardo di deliziosa attesa, scese più in basso lungo il mio corpo e, mentre a mia volta mi toglievo la maglietta mettendo in mostra le ore di palestra sotto forma di addominali e pettorali ben visibili, mi aprì i jeans, me li abbassò a metà delle cosce e poi passò la mano sulle mie mutande nere che odoravano pesantemente di eccitazione e bisogno di possederla. Con un dito sembrò disegnare il contorno dell’oggetto tubolare che deformava la stoffa, muovendosi lentamente e ammirandolo con malcelato desiderio. Mi accarezzò le palle con delicatezza e mi strappò un sospiro quando passò in cima, sfiorando attraverso le mutande la punta del glande che spiccava dalla pelle.
«Mi perdonerai se non ti faccio subito un pompino…», mi disse e con quello sguardo che luccicava le avrei perdonato qualsiasi cosa. Abbassò le mutande e il mio cazzo, finalmente all’aria della notte, si sollevò e stiracchiò, pronto a
entrare in azione, ma soprattutto a entrare in Emma. La brezza soffiò sul precoito che il petting ed il sesso orale con la ragazza avevano fatto riversare fuori dall’uretra e bagnato tutto il mio uccello, asciugandolo leggermente. Emma lo afferrò con una mano e dolcemente lo scappellò, mostrando la mia grossa cappella. Appoggiò i polpastrelli della mano libera sulla punta e, scivolando con delicatezza, tracciò dei cerchi. Cazzo, che sensazione piacevole e inaspettata. Nessuna, prima di lei, aveva mai avuto un’idea simile…
Le sue dita si muovevano meglio di una lingua, con ben più controllo e delicatezza. Indugiava un attimo sul bordo del prepuzio, poi le dita cominciavano a vorticare lentamente, sempre più lentamente, come un pianeta catturato dalla gravità di un buco nero, fino a scivolare sul meato, accarezzandolo quasi più con il movimento dell’aria che con il polpastrello stesso.
In quel momento mi sembrava di impazzire dal piacere, inarcando la schiena sopra le scaglie di roccia che costituiva il pianoro. Fui sul punto di dire a Emma che stava facendomi cambiare idea riguardo la superiorità del pompino sulla sega, quando lei smise. Alzai la testa per implorarla di continuare ma la vidi appoggiarsi al mio petto con una mano mentre l’altra teneva fermo il mio cazzo. La sua figa grondante e bollente lo inghiottì tutto in un movimento fluido. Nella luce appena abbozzata della lampada da campeggio la vidi sorridere e il suo viso non mi era mai sembrato tanto meraviglioso mentre iniziava a cavalcarmi lentamente ma con vigore. Mi sentii scivolare dentro di lei, sprofondando nel calore e nell’umido del suo utero e un attimo dopo percepire la frescura della notte baciare quasi tutta la lunghezza del mio cazzo mentre la cappella sembrava lasciare il vuoto dietro di sé.
Le presi in seno destro con una mano, mentre l’altra si bagnava del suo desiderio che colava lungo l’asta del mio uccello e poi iniziava a massaggiarle il clitoride e l’area attorno. Lì, nella notte, con i pantaloni e le mutande abbassati a metà delle cosce, con una ragazza meravigliosa che profumava di donna al punto tale da stordirmi, per qualche motivo, nonostante fino a quel momento avessi portato avanti io, e con una certa prepotenza, il gioco, mi sentii come qualcuno scopato velocemente da una ragazza che lo avesse sottomesso. Lasciai il soffice seno e accarezzai il volto di Emma.
«Voglio farti impazzire di piacere, questa notte». Lei mosse la testa e, come io avevo preso i suoi capezzoli, lei prese tra le labbra la punta delle mie dita, baciandole. Immaginai sapessero ancora della sua figa. Sembrò che mi stesse praticando un pompino… Quella ragazza aveva proprio intenzione di farmi venire…
«Riempimi di sborra…» la sentii implorare, gli ansiti sempre più ravvicinati e intensi.
Con la mano che non la stava sgrillettando la avvicinai a me, facendola sdraiare sul mio petto e iniziai a baciarla, oltre a prendere il controllo della scopata. Sette colpi lenti e poco profondi, uno ancora più lento ma in profondità, poi sei lenti e poco profondi, uno ancora più lento ma in profondità, cinque lenti e poco profondi, uno ancora più… Emma venne per la terza volta quella notte, muovendo le mani sulla mia testa senza un apparente senso e parve cercasse di violentare la mia bocca con la lingua e al tempo stesso, senza riuscire né in uno né nell’altro bene, a gridare di piacere. Lanciò un gemito strozzato, poi un sospiro. La sua testa ciondolò sulla mia spalla, come stordita.
Mentre toglievo la mano malandrina tra di noi e che le aveva provocato l’orgasmo, le chiesi se stesse bene. Sentivo il suo cuore battere contro i miei pettorali e un liquido caldo colare sul mio inguine. «Finisci di scoparmi», sussurrò come se lo stesse dicendo attraverso il sonno. «Devi riempirmi della tua sborra…». La baciai su un orecchio, poi le strinsi una chiappa, le misi una mano dietro alla nuca e ci girammo, lei sotto ed io sopra. Mi misi in ginocchio, sollevando una sua gamba e appoggiandola su una mia spalla, quindi mi avvicinai al suo inguine sedendomi sulla coscia rimasta sul plaid. Sdraiata su un fianco, gli occhi chiusi mentre era ancora preda dello intontimento dell’orgasmo, la penetrai. Iniziai a spingere dentro di lei e questa volta niente calcoli matematici, cambi di velocità e cazzate simili: il tempo della dolcezza era finito e, per il resto della notte, Emma sarebbe stata la mia puttana. L’avrei riempita di orgasmi violenti e lei avrebbe accolto ogni goccia di seme presente nei miei coglioni.
Ma, nonostante questo, quando percepii il fastidio ai polpacci che preannunciava la sborrata e la sensazione inebriante dello sperma che percorreva a grande pressione il condotto urinario per riversarsi nella figa bollente e inzuppata della ragazza, non potei fare a meno di sussurrare: «Ti amo, Emma…».
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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