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Lui & Lei

MISSIONE A ROMA


di Grande_Bruno
13.11.2024    |    8    |    0 6.0
"In ascensore c’era poca gente..."

Questa è un racconto con pochissimi risvolti erotici, ma con l’avanzare dell’età, i vecchi ricordi diventano più importanti, specialmente con i decenni che passano tra la tarda mezza età e la vecchiaia. È come se nelle nostre menti, i ricordi dei primi anni venissero immagazzinati sempre più in profondità nei circuiti cerebrali. Ricordare il passato allevia il peso ed i dolori dell’età matura, mentre chi ascolta si arricchisce di esperienza, di storie e cultura. Si tratta di un vero vantaggio reciproco. Ora che ho ritrovato la tranquillità dei miei pensieri, dopo 40 anni di lavoro e la meritata pensione, mi tornano in mente i momenti felici della mia giovinezza spensierata.

La strada a due corsie era molto affollata e molto chiassosa. Il suono dei clacson era molto frastornante. Avevo preso servizio in una Task Force tra la mia Sezione investigativa del settore tributario e l’Ufficio delle Imposte di Roma. Era un lavoro destinato a finire, per via della lontananza dalla mia città e quindi, da tutto ciò che sentivo appartenermi.

Stavo camminando su quella strada, per andare a lavorare: il mio primo giorno a Roma. Avevo lo sguardo fisso sulla strada, volto inespressivo quasi a rappresentare la morte dentro, dato che mi ero appena svegliato e, si sa, quando ci si sveglia non si mostra la propria espressione migliore. I chilometri percorsi nella giornata precedente non erano nulla a confronto di quel centinaio di metri che dovevo percorrere, prima di svoltare a sinistra e arrivare in sede. A consolarmi era solo il pensiero che avevo un albergo a tre isolati dall’ufficio, con ampio posto macchina: tre isolati, una passeggiatina ogni mattina.

Prima di svoltare a sinistra, feci particolare attenzione ad una donna, d’età compresa tra i 25-30 anni, alla guida di una macchina che non le si addiceva assolutamente dato il suo fascino quasi attraente. Una macchina di classe, ma particolarmente rude nel suo design. Non feci tanto caso a lei, né mi chiedevo se lavorasse in ufficio, era uno sguardo perso nel vuoto, quello che io avevo rivolto a lei, senza aspettarmi un’intesa da parte sua, era molto elegante, ma non m’interessava. Indossava una giacca nera, come il colore dei suoi capelli, occhiali marrone scuro. Tale era la perfezione con la quale il suo rossetto opaco colorava le labbra. Non riuscii a vedere se portava la gonna o i pantaloni. Non fa nulla, curiosità, nulla di più.

Mi accorpai quasi subito con i miei doveri, feci conoscenza con i colleghi di turno e conobbi personalmente il capo della task force. Una donna. Troppo gentile per i miei gusti, troppo cordiale nei miei confronti. Era una donna biondina, occhi verdi ed era molto interessante, forse anche una ragazza piena di risorse, non a caso era un Capo Ufficio; ma interessante SOLO su questo punto di vista.

Le ore trascorrevano quasi ad un decimo del tempo originale, ma ero abituato a quel genere di lavoro, a Milano non facevo altro, ma, essendo Milano la mia città, (pur essendo di origini campane) le giornate pesavano di meno. In questa città ero in un albergo a meno di cinque isolati dal posto di lavoro, a Roma erano 30 Km. Pensando a questo, stuzzicavo una matita sulla mia scrivania, con la punta poco temperata e accuratamente disposta nel portapenne.

Sera: Terminai quanto dovuto. Scappare dall’ufficio per arrivare in albergo. Mentre uscivo, sentii qualcosa dietro la mia spalla, era un oggetto vivo, era una mano. Girandomi, guardai il mio Capo Ufficio, per la prima volta senza occhiali, con un mucchio di fogli in una cartella, sotto il suo braccio:

– “Scusa, ti ho spaventato?!”,
– “affatto!”,
– “se non hai la macchina, ti accompagno io!”,
– “non è il caso, sono a 200 metri da qui”,
– “ma mica ti voglio accompagnare a casa tua. Andiamo a cena fuori”,
– “guarda, non sono dell’umore giusto”,
– “mi offendo se non vieni!”,
– “bhe! Se insisti… non vorrei mai che ti offendessi!”.

In ascensore c’era poca gente. Per tutta la giornata il mio volto aveva conservato l’espressione neutra, degna di chi non se ne importa nulla del lavoro e ancora di meno della gente con cui si lavora. Mi sentivo più vuoto del guscio di un uovo dopo una bellissima frittata all’occhio di bue. Raggiungemmo la macchina. Restammo fermi per un po’ e partimmo verso un ristorante vicino. Prendemmo un posto per due, nel locale a pareti rosa e soffitto verde acqua. Era un bel locale, se era illuminato di notte con luce artificiale. Decisamente il genere di locale in cui avrei portato la mia ragazza, devo ammetterlo.

Presi una rapida consumazione e dell’acqua minerale. Ritenevo che le bevande diverse dall’acqua erano per gli avvenimenti speciali, per le feste: io non avevo nulla da festeggiare:
– “Permetti un attimo!”, dissi,
– “fai pure”, andai verso la cassa, chiesi un foglio ed una penna, scrissi delle cose e firmai. Diedi dei soldi al cassiere.
– “Giovanotto, faccia pervenire questo foglietto alla signora laggiù, quando chiederà il conto. Questi sono per il disturbo”.

Sfilai una banconota da 100 euro e la infilai nel taschino della sua giacca e andai, senza dir nulla a nessuno. Uscendo, vidi la donna della macchina vestita uguale come la mattina, senza occhiali marrone naturalmente; sorseggiava brandy, credo. Le sorrisi, la prima volta nella giornata che sorrisi e lei contraccambiò. Elena, il Capo Ufficio, mi vide uscire, si affrettò a chiamare il cameriere ed il giovanotto, che avevo pagato in precedenza, si affrettò ad andare verso di lei.
– “Il conto, per favore”,
– “signorina, è già tutto pagato. Il signore che ha pagato ha desiderato tanto che io le portassi questa!”, aprì il biglietto in fretta e lesse il messaggio:

«Elena, questa sarà l’ultima volta che ci daremo del TU. So perché mi hai portato qui, so cosa vuoi da me. Stasera no, forse domani, forse mai. Accontentati di avermi conosciuto. Buonanotte. Ci vediamo domani a lavoro».

Il biglietto era firmato con la mia calligrafia migliore.

Girai su una strada secondaria in modo tale che non mi potesse vedere con la sua macchina e camminai. Andavo calmo, tranquillo. Ad un tratto sentii un rumore, una macchina si era fermata vicino al marciapiede. Una macchina che non riconobbi nel buio, avevo capito solo che era grande e non poteva essere Elena.

Gli abbaglianti di un furgoncino nella direzione opposta la illuminarono e vidi il suo volto, la misteriosa ragazza di stamattina e di poco prima; mi guardava, mi sorrise. Aprii il finestrino opposto al suo e vicino al mio. Il suo sorriso lo avrei ricordato per sempre. Nei tre secondi successivi, che per me non passavano mai, ripose il suo sguardo sulla strada e ripartì. I suoi occhi mi abbagliarono il cuore quella notte. Pensai cosa fosse successo se l’avessi fermata. Non l’avrei rivista mai più. Gettai il pensiero nella pattumiera del mio cervello e mi diressi verso l’albergo.

Arrivai in albergo molto presto, prima del previsto. Imparavo a conoscere me stesso con le passeggiate: per esempio avevo imparato a camminare senza impiegare il cervello a controllare quei movimenti. Me ne ero accorto perché, con stessa meraviglia verso me stesso, ci avevo messo troppo poco tempo per arrivare in albergo: Avevo camminato troppo veloce, senza rendermene conto.

Aprii la porta della mia stanza numero 211 ed entrai per la prima volta nel mio albergo. Strano alloggio per un tipo come me, troppo elegante. Finii come tutte le persone normali: mi abituai all’idea di tutto questo lusso, convinto di poter sopravvivere alla mia separazione da esso: Quando una persona ci vive bene nel lusso, si abitua a quel genere di vita e tornare a vivere come una persona da poco, risulta più difficile, rispetto a come entrare nelle ricchezze e della vita a sbafo.

I miei pensieri erano molto vicini a quelle mie riflessioni: «Ma guarda che figlio di puttana che sono. Arrivare nel lusso senza faticare nemmeno un po’», pensavo. E, pensare quelle cose ed in qualche modo farne parte, devo essere sincero, mi piaceva. Chissà però se «lusso» è sinonimo di «lussuria!!». E pensare che mi ero fatto scappare l’occasione del Capo Ufficio. Non sapevo se era un rifiuto psicologico da parte mia a quella vita, oppure qualche effetto indesiderato dell’alcool che avevo bevuto…

Un momento, ora ricordo, quella sera non bevvi alcool.

«Finirai per abituarti a questa vita da vip!». Pensavo tra me e me ed era questo ciò che a me non piaceva assolutamente. Una vita da vip, aperta con un bel rapporto sessuale con il Capo Ufficio. Presi il telefono nella camera e presi l’elenco telefonico cercando il cognome di Elena. Pensavo fosse una mossa astuta, dato che una ragazza di quel calibro, sincera come una primula innamorata, doveva vivere da sola, per farmi capire le sue intenzioni e cosa realmente lei volesse da me quella notte. Composi le prime tre cifre del suo numero di telefono e sospirando, riattaccai. Troppi ricordi mi avrebbero legato a Roma, dopo una notte di passione con lei ed era una delle cose che volevo evitare. Adesso che sto ricordando e scrivendo, ammetto con dolore che non mi pentii di aver riattaccato.

Dolorosamente, perché ero freddo in apparenza e se volevo evitare certe complicazioni, era per non entrare in troppi legami sentimentali, senza facile futuro.

Dolorosamente, perché ero freddo in apparenza, ma non sarei potuto rimanere freddo dopo il calore provato in una notte di passione, con una donna, che io amavo, senza accettarlo e soprattutto, senza immaginarlo… Con questi pensieri mi addormentai.

La mattina dopo andai a lavoro, a piedi. Salutai tutti ed andai a sedermi sulla sedia, dietro la mia scrivania. Entrò nella sala sempre il Capo Ufficio, Elena. Si appoggiò sulla mia scrivania, poggiando i palmi sul legno. Intravidi poco del suo seno, mentre lei, quasi disinvolta, mi rivolgeva un sorriso. Non se ne era resa conto e io non le facevo pesare l’incidente.
– “Tenga conto dell’ultima richiesta dell’Ufficio Superiore, è il nostro funzionario più anziano. Cerchi di non deluderlo”, annuii. Perché perdere tempo, aprii subito la lettera.
– “Non mi sono ancora arresa! Miro ad ottenere quello che voglio, anche contro la tua volontà. Rispondi, richiudi la lettera e riportala nel mio ufficio”. Risposi senza pensare. Un mio collega stava andando appunto nell’ufficio di Elena.
– “Porta questa al Capo”,
– “Certo…”. Le arrivò la lettera e lesse: «non credo ci riuscirai». Dopo circa 30 minuti, passò vicino la scrivania e mi sogghignò con aria divertita.
– “Vedremo”, mi disse.

Tornai in albergo in fretta, chiedendo velocemente la mia chiave della solita stanza 211. Lanciai una busta e il receptionist la prese a volo.
– “Stasera non ci sono per nessuno”,
– “bene, signore”.

Entrai in stanza e mi cambiai velocemente, erano le 21:13. Mestre dormivo profondamente, venni svegliato dal telefono che ronzava in modo da disturbarmi il sonno e mi svegliai di soprassalto. Erano le 22:00.
– “Scusi signore, ho da dirle due cose”,
– “non poteva dirmele domani mattina?”,
– “una delle due cose è urgente. Una signora ha chiesto di lei, dice di chiamarsi Lory… E in più c’è una lettera”,
– “porti la lettera e dica alla donna di aspettare. La farò salire tra poco. Il tempo di prepararmi” e riattaccai.

Chissà chi doveva essere questa Lory, pensavo, aspettando che la lettera da leggere mi arrivasse su. «Ti volevo incontrare questa sera, ma sei via e aspetto il tuo ritorno domani a lavoro, ti prego. Domani partirai, vieni almeno a lavoro. Ti amo. Elena. Non salgo su ad attenderti, vado all’aeroporto per prendere mia sorella. Ti Aspetto». Accartocciai la lettera, la buttai nel cestino e richiamai il portiere.
– “Faccia salire la donna”.

Sentii bussare dopo poco. Andai ad aprire. Quell’espressione da mezzo addormentato mi passò di colpo, guardando la donna della macchina, che indossava una minigonna e una giacchetta molto casual.
– “Ciao. Posso entrare?”,
– “ce... Certo!”,
– “ti ricordi di me??”,
– “no, so solo che non mi riesci a stare lontano. Ti ho vista appena sono venuto a Roma e ti ho incrociato ogni tanto, ma non ti conosco”,
– “ti spiegherò tutto domani, ora desidero solo fare l’amore con te”.

Anche io la desideravo molto. Dopo averla accuratamente spogliata e aspettando che anche lei facesse lo stesso, baciai tutta la sua pelle e strinsi la sua carne alla mia. Sudai su tutto il suo corpo, in un insieme di gemiti e piacere, che si fondono in passione. Mi piacque molto il sapore di quella donna sconosciuta, dormendo piacevolmente stanco e appagato. Mi svegliai felice e sereno, ma orribilmente amareggiato, quando scoprii che quel corpo tanto caldo e tanto delicato non c’era più tra quelle lenzuola. Trovai un biglietto accartocciato e ripiegato su sé stesso. Mi affrettai ad aprirlo e notai una calligrafia che non vedevo da tempo e che non riconobbi, ma avevo l’impressione di averla già vista da qualche parte. Il messaggio diceva:

«Amore, scusami se sono fuggita così, ma ho dovuto farlo, per paura di rimanere tutta la vita vicino a quell’intenso sentimento che provo per te. Mi chiamo Lorena Cecchi, tua compagna di superiori a Napoli, fin quando, al quarto anno ci separammo per via del lavoro di mio padre. Il ricordo di lui che aveva trovato lavoro qui a Roma mi rattrista molto, pensando ad allora, perché adesso che lui è morto, mi rendo conto che seguirlo 8 anni fa mi distaccava per sempre da ciò che provavo per te. Adesso ho perso per sempre lui e te. Sono sposata da 5 anni con un uomo che stimo tantissimo, sono madre di due figlie che amo più della mia vita e guardarle ora mi viene in mente quel buon padre che saresti potuto essere. Il destino ha diviso i nostri corpi, ma non riuscirà a dividere il nostro amore, almeno da parte mia. L’altro ieri mattina, quando ti ho rivisto per la prima volta in macchina, nutrivo un certo interesse per te. Di sera, in quello stesso giorno, ti ho visto entrare in questo albergo e ti ho visto mentre prendevi le chiavi, per gioco e curiosità ho chiesto come ti chiamavi al portiere e ho scoperto la dura realtà, che mi ha fatto soffrire per tutta la vita. Ieri notte è stato bellissimo, mi sono risentita ragazzina, insieme a te, mentre stringevi il mio corpo per concederti ad una sconosciuta. Sapevo che in quell’aria un po’ misteriosa di quell’uomo in macchina si nascondeva quel ragazzo tanto amato durante gli anni della mia gioventù. Mi sento felice in parte, perché sono riuscita ad amarti, anche solo per una notte. Parto per Lugano, in Svizzera e ti prego, non cercarmi più, poiché mi farebbe male rivederti e non poter far nulla. Il tuo amore di ieri notte e la tua espressione beata mentre dormivi questa mattina, mi faranno ricordare di te, appagando quel dolore che provo da quando sono adolescente e che mi porterò dentro la tomba. Ti chiedo solo una cosa, non buttare questa lettera: è l’unico ricordo che avrai di me, mi dicevi sempre a scuola che ti piaceva la mia calligrafia. L’amore di una persona lontana può esistere, lo sto provando a mie spese e sono felice, se non fosse per quel desiderio umano di volerti toccare. Addio per sempre, mio unico e solo Amore della mia Vita. LORY».

Quella donna sconosciuta era la scolaretta che avevo amato tanto tempo fa. Avendola avuta senza saperlo mi rattristava molto, con il rasserenamento di capire quello che provavo per lei ai tempi delle superiori. Compresi il suo gesto: sapendolo dopo quella notte di fuoco, mi sarei ricordato tutto di lei e infatti ancora la ricordo. Non la rividi mai più.

Era tardi, mi vestii subito, feci una breve colazione e uscii per andare a lavoro, pensando e ripensando a quella lettera. L’aria sapeva di gelso e rugiada.

Quella era la mia ultima giornata a Roma: sarei partito la mattina dopo, prestissimo, alle prime luci dell’alba, senza ricordare niente di quei giorni, senza ricordare nessuna di quelle persone, solo Lory. Il pensiero di quando sarei partito sarebbe tornato troppo facilmente su quel corpo tanto desiderato, quasi per gioco e ricordare quanto mi piacque e convivere con l’idea di non rivederla mai più mi procurava angoscia nel cuore.

Se avessi avuto un rapporto con una qualsiasi altra ragazza, mi sarebbe rimasto indifferente, ma con Lory, era un qualcosa che non riuscivo ad inghiottire, nonostante i miei sforzi. Avevo di lei solo quella lettera. Rimpiansi quei momenti, perché mi diedero la forza per rivivere quei momenti che non avrei più contemplato: Quell’età tenera che tutti chiamano Adolescenza.

Ero felice, seduto sulla mia solita scrivania, vecchia per me solo di due giorni, troppo felice per i miei gusti. Avevo l’espressione di colui che aspettava un treno che portava ad un paese che non era mai stato scoperto in precedenza. La volontà di fuggire da quelle persone e da quel luogo era mascherata dalla mia dedizione al lavoro, che come sempre era pulito e perfetto.

Sotto questo punto di vista era strano il mio comportamento: se non sopportavo l’idea di lavorare dove ero, perché svolgere il lavoro in modo pulito e professionale? Comportandomi diversamente avrei preparato la mia liquidazione in molto meno tempo e sarei tornato subito a Milano.

La realtà era un’altra. Nulla accade per caso e se tutto ciò era successo c’era sicuramente un motivo. Solo che io lo ignoravo completamente. Il fatto era che il lavoro mi piaceva, solo che non era nella mia città e voler tornare a Milano era più importante.

Mi chiamò il Capo Ufficio. Mi affrettai ad andarci. Aveva lo sguardo su dei libri che non riconobbi, inforcando contemporaneamente sempre gli occhiali da vista.
– “Dunque, allora, domani mattina parti?!”,
– “sì, torno a Milano, al mio vecchio lavoro, alla mia vecchia vita”,
– “anche io, da domani, torno alla mia vecchia vita. Partirai tu, partirà anche mia sorella. Ritornerò ad essere sola”,
– “non possiamo evitarlo, né io né tu”,
– “lo so”, in quel momento, squillò il telefono. Uscii per discrezione rivolgendo un sorriso verso di lei.

Il tempo passò molto velocemente. Salutai tutti i miei colleghi e andai da Elena.

– “Bhe! Allora addio”, le dissi,
– “spero solo in un arrivederci”.

Lo speravo anch’io. La profonda conoscenza del corpo di Lory mi aveva raddolcito su questo punto di vista. Mi piaceva molto Elena, senza voler accettare. Me ne andai da lei, diretto verso l’alloggio per prendere tutte le mie cose. Preparai la valigia per la mia partenza, ricordando di prendere tutto. Compreso il cellulare lasciato spento per tutti quei giorni. Sarei partito la sera stessa, senza aspettare il mattino. Consegnando le chiavi al portiere, chiesi quasi meccanicamente se c’era qualche messaggio per me.

– “È di poco tempo fa, signore”,
– “grazie!” ed infilai il messaggio nella tasca interna della giacca.

Sulla via del ritorno, sbagliai strada, quasi per destino. Ripensando a Elena, che probabilmente non avrei più rivisto, sentivo di amarla, ma mi sarei abituato a controllare il sentimento, soprattutto stando lontano da lei.

Arrivai vicino un ponte che dava sul Tevere e mi fermai, un po’ inquietato per l’errore. Uscendo dalla macchina e affacciandomi al ponte, mi ricordai della lettera che del portiere; la aprii e la lessi. Il messaggio diceva:

«È doloroso dirti addio, ma purtroppo non possiamo cambiare gli eventi. Ti amo con tutta me stessa e ti penserò sempre. Ti auguro solo di essere felice, come non lo sarò mai io. Buona fortuna».

Mi sarebbe mancato tutto di lei: il suo sorriso, il colore dei suoi capelli, i suoi buffi occhiali. Avrei commesso il secondo errore più grande della mia vita: Avevo perso Lory per non averle detto che l’amavo, quando potevo tanto tempo fa. Non potevo perdere Elena, per lo stesso sciocco motivo. Dovevo chiamarla, dovevo parlarle, confessarle tutto, per arrivare finalmente a stringerla tra le mie braccia.
Accesi il cellulare e cercai il suo numero nel mio portafogli. Contemporaneamente una chiamata disturbò la mia azione. Risposi:
– “Pronto!”,
– “ma dove ti sei cacciato, ti cerco da quando sei partito”,
– “ho mantenuto il cellulare spento. Mi sono proprio dimenticato”,
– “quand’è che torni a Milano, domani, vero?”,
– “non tornerò a Milano, rimango a Roma”,
– “ma come, non…”. Non gli feci finire la frase. Gettai il cellulare in acqua e rientrai in macchina.

La forma della Luna che si specchiava era diventata irregolare, per via delle onde che l’impatto del cellulare con l’acqua aveva creato. Mi diressi verso l’albergo di Elena.

– “La signora Elena è in camera?”,
– “no, è andata all’aeroporto, se non sbaglio ad accompagnare la sorella. Devo dirle qualcosa?”,
– “lasci stare”.

Mi diressi verso Fiumicino, all’aeroporto. Da dove ero ci misi tre quarti d’ora per arrivare. Parcheggiai e scesi dalla macchina, mentre iniziò a piovere. Presi l’ombrello e andai in sala di attesa, correndo più veloce che potevo. Raggiunsi la piazzetta all’aperto, dove si poteva osservare la partenza dell’aereo. Erano rimaste pochissime persone e, tra tutte quelle, riconobbi quei capelli biondi ed il completino che non la smentiva. Andai verso di lei, coprendola dalla pioggia con il mio ombrello.

– “È partita tua sorella, io ancora no”,
– “mi hai spaventato”, girandosi di scatto,
– “come mai sei tornato?”. Le porsi il messaggio che mi aveva lasciato,
– “non ci speravo che lo avessi letto. Sapevo che non saresti partito prima di dirmi addio”,
– “ciò che ancora non sai è che non parto più. Rimango qui, accanto a te. Perdonami solo di non aver capito prima cosa io provavo per te. Mi sono comportato malissimo nei tuoi confronti”,
– “non importa. Cosa è che ti ha fatto capire!?”,
– “la Luna sul Tevere”,
– “cosa?”,
– “no nulla, una cosa mia, ti spiegherò tutto domani” e la accarezzai.

Le diedi un bacio per ricordarle che l’indomani non sarei più partito. Ce ne andammo guardando l’aereo che iniziava a volare. Un aereo che non sarebbe tornato indietro. Come io non sarei tornato a Milano e come il tempo che non sarebbe mai tornato indietro. Vivo ancora con Elena. Di Lory non seppi più nulla. Solo che mi amava e che non mi avrebbe più cercato.

Non la rividi mai più.
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