Prime Esperienze
Salve Terra, qui Koona 9a parte
di sexitraumer
24.01.2012 |
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"Quando l’immagine termica occupò metà dello schermo senza ingrandimento di Johanna fermai il veicolo..."
Fermai il mezzo per valutare l’orizzonte davanti a noi. La pioggia continuava. Iniziai cautamente la discesa assistita dai sensori esterni. Portai piano la mini stick in avanti e tolti i freni avanzammo inclinati in avanti. Ogni cinque-sei metri davo un colpo di piedi, e mi fermavo per poi lasciar scivolare il TM per inerzia fino al successivo colpo di freni. Dopo una decina di piccoli singhiozzi, valutando la praticabilità del sentiero, procedetti più decisa in avanti di una cinquantina di metri. Il TM dovette inclinarsi un paio di volte di lato restando però stabile, anche se Rasputin aveva preferito accovacciarsi sotto i miei piedi vicino la pedaliera metallica del freno. Ritornati al suolo quasi piatto fermai il mezzo per dar modo a Greg di affiancarsi a destra. I tergicristalli si muovevano a velocità costante. Aspettammo che la pioggia finisse. Valutai che non potevamo stare fermi troppo a lungo, pena la caduta di potenza delle batterie che venivano parzialmente ricaricate durante il movimento. Anche il rover si fermò. Mario e Greg ci fecero segno con il pollice per indicarci che andava tutto bene. L’altezza del TM li proteggeva in parte dalla pioggia. Greg per ingannare il tempo mi disse bonariamente:“La procedura vorrebbe che tu tenessi il casco indossato e chiuso Koona.”
“Sciocchezze, e poi io l’ho sempre guidato così.”
“Sei stata brava Koona con la collina. Meno male che abbiamo lubrificato i cuscinetti. Vanno bene, vero?!”
“Sì Greg, non si sente più lo stridio acuto delle ruote.”
“Come hai imparato a guidare Koona?”
“Un po’ vedendo mamma, ed un po’ con l’aiuto del computer.”
“Non sei male, Koona. Davvero.”
“Grazie Greg! Tutto bene Mario?”
“Sì, Koona! Pure lì dentro spero.”
“Sì.”
La pioggia si era attenuata. Comunicai ai due colleghi la fuori che ero pronta a muovermi. Ripartimmo in pianura. Il terreno davanti a noi era abbastanza regolare cosi che potevo prendere i quindici km l’ora di velocità massima. Il piccolo radar sopra il tetto sul davanti ci informava delle buche pericolose dandoci tutto il tempo di modificare l’andatura, e di evitarle con poche correzioni. Trascorremmo una buona ora di viaggio tra la pioggia che aumentava lievemente e cambiava direzione e qualche pozzanghera un po’ più profonda che ci faceva inclinare. Le ruote metalliche rivestite di titanio ed iridio con le incisioni più appropriate per una buona presa sul terreno roccioso sembravano non corrodersi per i continui bagni di ammoniaca condensata che sia il computer, sia mia madre mi avevano detto avesse un forte potere riducente. Greg con un mezzo più piccolo, il rover, semplicemente evitava quelle stesse pozzanghere sulle quali noi del TM passavamo sopra. All’improvviso mi chiamò Greg. Si era manifestato un imprevisto:
“Koona! Ferma il mezzo!”
“Ok.”
Con un deciso colpo di freno fermai il TM. Pioveva ancora e davanti a noi tuoni fulmini in lontananza ci facevano una sinistra compagnia.
“Che succede rover?”
“Koona! Abbiamo le batterie al minimo. Sono durate meno del previsto.”
“Volete salire sul TM?”
“No. Non siamo nemmeno a metà percorso.”
“E allora?”
“Ci connettiamo alla vostra batteria. Ci ricaricate. Mario dice che basteranno venti minuti.”
“Va bene.”
“Koona, tieni acceso il TM. Non spegnerlo. Il collegamento lo faccio io. So già dove sono i cavi.”
Dai monitor esterni vidi che Mario e Greg spingevano il mezzo a mano. Erano rimasti parecchio dietro a noi. Di almeno un centinaio di metri. Per ingannare l’attesa interrogai Mario:
“Mario cos’è successo alle vostre batterie?”
“In due parole si sono rivelate scadenti. Erano molto vecchie come modello; ma ero convinto che erano di una marca affidabile; mi sono sbagliato. Probabilmente sono state danneggiate dall’atmosfera di Titano; è corrosiva. Comunque non preoccuparti. Si possono ricaricare facilmente.”
Dai monitor potevo vedere che Greg aveva aperto un pannello laterale e collegato dei cavi al rover. Si trattava solo di aspettare. Offrii loro la possibilità di salire nel TM se lo avessero desiderato.
“No, grazie Koona. Se saliamo non scendiamo più, ed abbandoneremmo qui il rover. Tieni la potenza alta per venti minuti. Potremo proseguire un’altra oretta.”
“Non è pericoloso caricare le batterie con la pioggia ed il fulmini?”
“Un problema alla volta Koona. Comunque hai ragione! Mario, scendi dal mezzo e riparati dietro il TM.”
Mario e Greg si allontanarono dal rover e si appoggiarono alle pareti del TM che erano di fibra di carbonio, materiale non metallico e poco conduttore. Al contrario il rover era metallico almeno al settanta per cento. Aveva un aspetto rustico ed essenziale. Tutt’altro che comodo. Notai che avevano abbassato la capotina per evitare l’effetto vela con il vento. Fortunatamente qui da noi aveva smesso di piovere. In lontananza invece tuoni e fulmini sembravano ancora i padroni di casa mentre Saturno ed i suoi spettrali anelli erano silenziosi ed indifferenti alla meteorologia di Titano. Non volendo aumentare l’ansia di Johanna evitai di chiedere a Greg notizie della Pegaso che ci aspettava da sola, abbandonata. Ignoravo persino che aspetto avesse. La mia angoscia era immotivata: anche la Pegaso ed il suo lander erano due moduli ad alto grado di automazione. Anche la Pegaso aveva un computer che la stava proteggendo. Greg mi aveva parlato delle batterie al plutonio che la tenevano “calda”; per lo meno nel breve periodo. I miei pensieri erano scorsi veloci. Greg mi disse via radio che le batterie erano state ricaricate. Guardai dal parabrezza di plexiglas e vidi che i due erano tornati al loro posto. Potevamo ripartire. Mi assicurai che il rover si muovesse. Greg armeggiò sui comandi ed il piccolo scheletrico rover si mosse. Dopo un’occhiata al livello della carica elettrica, dopo aver letto settantuno per cento residuo portai la potenza su giallo, mini stick avanti e il TM ripartì col solito rassicurante rumore acuto. Ebbi un momento di angoscia quando vidi il livello scendere ancora: sessantanove punto sette. Johanna mi chiese:
“Resisteranno le batterie?”
“Le nostre o le loro ?”
“Le nostre.”
“Sì, spero di sì. Guarda, boh, non lo so! Sai, io usavo il TM una mezz’oretta non di più, e la manutenzione come ha detto Mario, non l‘ho fatta. Probabilmente il computer di sorveglianza l‘avrà fatta fare ai droidi … facevano tutto loro.”
Era una mezza balla che avevo detto per rassicurare Johanna, dopo aver detto qualche mezza verità. In verità vera però, io i droidi li avevo usati per costruirmi la serra personale distogliendoli dalle normali attività. Le batterie al TM me le ricaricavano i droidi; ma non ricordavo di aver mai ordinato la loro sostituzione con batterie meno usurate. Ci era costata un bel po’ la ripartenza dallo stand by con cui avevamo soccorso il rover. Cercai di mantenere la velocità costante senza forzare né accelerare improvvisamente. Decisi per dodici orari al massimo, cercando di mantenere i dieci costanti. Così ci avremmo messo più di due ore; fermate escluse. Venni richiamata alla realtà da Greg:
“Koona!”
“Dimmi Greg.”
“Come sta Johanna?”
“Sto bene Greg, grazie! Koona guida bene, è un po‘ preoccupata dei consumi della potenza motrice.”
“Koona, non è il caso.”
“Perché ?”
“Ci sono anche celle di combustibile, come riserva di emergenza, sono batterie al perossido di idrogeno. Puoi fare un rapid scan? L‘altro giorno le ho viste mentre cercavo i dotti di lubrificazione dei cuscinetti.”
“Come?”
“Accendi il computer di navigazione e porta il dito su “reserve power“, quando si apre una schermata secondaria, di nuovo il dito su scan peox!”
“Scan peox?”
“Sì. Questo modello dovrebbe averle. Ce le ha, ti dico Koona!”
“Aspetta.”
Accesi lo schermo del computer di navigazione e portai il dito sopra l’iconetta di reserve power, quindi dopo un’altra schermata vidi “scan peox”; un‘altra ditata: Un segmento grafico mi fece capire che si stava compiendo la scansione. Lo schermo lampeggiò non appena il segmento si riempì di bianco. Un sentimento di angoscia mi aggredì; parlai direttamente a Greg:
“Dice alarm. Solo sei di dieci hanno il verde di ok. Quattro sono rosse. Sono barrate.”
“Capito Koona. A quattro di esse il perossido è evaporato con il tempo.”
Adesso capivo che io il TM non l’avevo curato proprio. Greg “mi soccorse”:
“Comunque anche sei possono bastare. Adesso siamo a metà strada, e le batterie principali sono ancora cariche, vero?!”
“Sessantotto e cinquantasei.”
“Tranquilla, fino a venticinque-trenta risponderà bene ai comandi. Se va a quindici ci fermiamo, e aspettiamo il riciclo di ricarica; dovresti recuperare un venti circa, sufficiente per muoversi. Tuttavia quando accadrà saremo già arrivati, ed al sicuro nella Pegaso!”
“Se lo dici tu Greg.”
Dunque, pensai, se si scendeva a quindici: pausa, riciclo; se ritorna a venti si riparte; fino al prossimo stop. Mi venne un dubbio; chiamai Greg:
“Se ho capito bene a quindici mi fermo, ricicliamo, e ripartiamo appena arriviamo a venti. Però credo, dopo un paio di volte dovrei risparmiare di più per continuare a riciclare; dovrei disinserire i sistemi non essenziali come il riscaldamento interno, ed i monitor che guardano all’esterno … vero?!”
“E non dimenticare la radio ! Complimenti Koona! Vedo che te ne intendi. Brava.”
S’intromise il mio Mario:
“Niente male Koona, davvero!”
Johanna mi batté una mano sulla spalla. La mia riflessione era stata apprezzata. Johanna, tutto sommato, si stava fidando di me. La prima volta in vita mia che mi sentivo un “capitano”. La custodia del computer di sorveglianza mi mancava. Camminavamo lentamente con il rover che ci seguiva affiancato. Ad un certo punto vidi che il rover si stava fermando, per cui mi fermai anche io. Greg e Mario si scambiarono il posto. Ora guidava Mario e Greg gli sedeva accanto tenendosi ai corrimani del mezzo come meglio poteva lievemente impacciato dalla tuta termica. Mario sembrava guidare in maniera più scattosa, oserei dire inesperta; e secondo me era nervoso. Sapeva che arrivati sulla Micenea sarebbe stato denunciato da Johanna, dalla sola Johanna però. Greg da capo missione si era impicciato il meno possibile nella storia tra me e lui. Da quello che avevo potuto capire Mario non era in pericolo se fosse dipeso solo da Greg. Tuttavia forse nel comportamento di Johanna c’erano delle pecche: aveva offerto il proprio corpo a Mario in cambio dell’impegno (non mantenuto) di non interessarsi al mio. Non era obbligata a farlo, e poteva anche darsi che Johanna fosse segretamente, o almeno inconsciamente, innamorata di Mario. Il vero pericolo per lui era sorella Johanna, non Greg. Ma anche il comportamento di Johanna era censurabile! Questi erano i miei pensieri quando vidi il loro rover accelerare improvvisamente e guadagnare molto più terreno rispetto a noi due che per cautela procedevamo a dieci lentissimi km orari. Si stavano formando dei pericolosi banchi di nebbia, la quale nebbia però non era di vapore acqueo come sulla vostra Terra, bensì di metano e ammoniaca. La visibilità cominciava a diminuire paurosamente. Per la rotazione di Titano eravamo a metà pomeriggio inoltrato. Perdemmo presto di vista il loro rover. Provai a chiamare alla loro radio:
“Mario, Greg! Dove siete ?”
Attesi la loro risposta diversi angosciosi secondi, ma non la ottenni. Rivolsi lo sguardo verso Johanna che aveva assunto un’espressione preoccupata e rassegnata ad un tempo. Non ci dicemmo niente e da parte mia continuai a muovermi col mezzo, dato che una ripartenza da fermi mi sarebbe costata molta energia. Era chiaro che Mario aveva escogitato qualcosa. Qualcosa di cui non dovevamo essere testimoni; né io, né Johanna! Con una mano sulla mini stick, ed il dito sul cursore digitale della potenza continuavo a chiamare alla loro radio:
“Mario, Greg, si può sapere dove siete? Perché siete andati avanti ? Non riusciamo più a vedervi.”
Attendemmo invano una loro risposta. Dissi a Johanna:
“Io proseguo. Che tu sappia la rotta fino alla Pegaso è quella che sta in memoria?”
“Sì, ha predisposto tutto Greg.”
“Proseguiamo, può darsi che li ribecchiamo più avanti.”
Proseguimmo fino ad un’ora senza però trovare alcuna traccia del loro passaggio. Stava iniziando a far buio ed il cielo stava diventando blu violetto. Nonostante fossimo protetti dal parabrezza nella cabina pressurizzata potevo sentire le folate di vento contro il TM. Proprio non riuscivo a capire com’era possibile che Mario e Greg stessero viaggiando sul rover aperto. A quel punto poteva anche darsi che erano stati balzati fuori da una ventata, o che magari avessero perso conoscenza …
“Proprio quando stava facendo buio!”
“Già! Una bella copertura!”
“Che intendi dire?”
“Che tu sappia, Mario ha sentito dei miei discorsi con Greg?”
“No, non di persona almeno.”
“Se non è stupido ha capito che ci deve eliminare se vuole l’impunità. Io non sono tranquilla a questo punto!”
“Nemmeno io.”
“A che punto siamo del tragitto ?”
“Metà, secondo la card installata da Greg.”
“Puoi accelerare Koona?”
“Sì, ma perderemo energia più rapidamente; poi dovremo fermarci per ricaricare con il riciclo.”
“Vai. Se necessario, ci fermeremo. Ora vai più veloce per favore!”
“Come vuoi.”
Portai la potenza su verde e raddoppiammo la velocità al suolo in circa sei secondi. Il TM era un mezzo pesante dopo tutto. Protettivo, ma pesante! Agendo sulla mini stick riuscivo ad evitare le buche profonde, ma sterzando e correggendo il mezzo rallentava automaticamente, per poi accelerare. Le batterie si stavano consumando rapidamente, e dopo trenta minuti arrivarono a quel fatidico quindici per cento. Rallentai e fermai il mezzo. Piovigginava appena. Anche la temperatura esterna si stava abbassando. Dovevo disinserire i sistemi non essenziali per riciclare quanta più energia possibile. Non chiesi il parere a Johanna. Disinserii il riscaldamento del plexiglas e fermai i tergicristallo; via anche la visione thermal imaging. Il sensore termico era puramente passivo, ma per funzionare doveva restare alla giusta temperatura; e per mantenerlo alla giusta temperatura bisognava impiegare energia. Ora potevamo contare solo sui nostri occhi. Spensi anche il piccolo radar sopra il TM, che davanti a noi segnalava una collina a cui avremmo dovuto girare intorno. A malincuore spensi, per ultimo, il riscaldamento. Presto avremmo iniziato a sentire freddo. Presi il cane che stava annusando i calzari termici di Johanna, che accortasene lo scostò muovendo poco la gamba per non fargli male, e senza rimproverarla, carezzai Rasputin; poi lo presi, e lo sistemai nella sua Capsula. Lui almeno sarebbe stato al caldo. Eravamo fermi. Io ero un po’ stanca e me ne andai nel corridoio interno, un rettangolo di due metri per uno e mezzo. Ne approfittai per distendermi sul pavimento. Anche Johanna si distese in cabina. Lasciai la radio accesa casomai quei due chiamassero. Ci riposammo tre quarti d’ora, aspettando che il riciclo ci desse quel venti per cento che ci avrebbe consentito di muoverci. Provai a dormire; tutto ciò che ottenni fu di appisolarmi e di fare un lievissimo sonno senza sogni. Non so cosa fece o sognò Johanna. Venimmo svegliate da un tuono in lontananza il cui lampo stimolò le nostre palpebre. Avanti a noi stava piovendo. Tempaccio, sempre tempaccio. Guardai l’indicatore di carica. Segnava ventiquattro. Bene, più di quanto desiderassi in quel momento. Mi alzai e ripresi i comandi. Feci muovere il mezzo senza superare i dieci km orari. Anche Johanna si era destata. Le dissi subito:
“Accendo il radar, e la visione termica. Se sei d’accordo continuo a tenere spento il riscaldamento.”
“Continua a tenere spenta la visione termica. Se andiamo piano basterà il radar.”
“Come vuoi.”
Arrivammo contro la collina e il TM, secondo la rotta programmata, ci girò intorno. Il giro richiese venti minuti e due o tre interventi di controllo dell’assetto. Poi finalmente eravamo dall’altra parte. Johanna sembrò riconoscere il posto guardando dal plexiglas e mi disse:
“Direi che stiamo per arrivare, forse siamo vicini.”
“L’indicatore segna ventuno e mezzo. Fra non molto dovremo fermarci nuovamente.”
“Quanto manca Koona?”
“Cinque km secondo la card di Greg.”
“Prova a richiamarli.”
“Mario, Greg! Ci sentite? Mario, Greg! Ci sentite?”
Nessuno rispose.
S’intromise Johanna, e parlò direttamente lei:
“Greg, mi senti? Tu e Van Brenner riuscite a sentirmi? Cosa è successo?”
La radio era muta. Ormai eravamo tutte e due preparate al peggio. Solo che quel “peggio”, anche se l’avevamo immaginato, non osavamo parlarne; ma lo intuivamo entrambe. Per quel che ne sapevo io eravamo di fronte a tre possibilità: Mario aveva ucciso Greg; Greg poteva aver ucciso Mario; o erano riusciti ad uccidersi l’un l’altro. E questa era l’ipotesi peggiore: né io, né Johanna sapevamo pilotare la Pegaso. La quarta ipotesi che avessero avuto un incidente di guida la scartai a priori: il rover avrebbe inviato un messaggio di richiesta soccorso in automatico. Il gelo scese su noi due. Eravamo entrambe parzialmente responsabili dell’accaduto: io per aver sedotto Mario ed averlo avvertito su Johanna. Johanna per averlo colpito con quel pugno ed essersi confidata con Greg capo missione; quel che mi rodeva l’animo era che Greg era alla sua ultima missione prima del meritato riposo con la sua famiglia. Lo vedevo come un simpatico nonno, anche se io non avevo mai saputo cosa fosse un nonno. Maledizione! Ormai era pure buio. Provai a dire a Johanna:
“Tu sai dov’è la Pegaso?”
“Certo, ma è buio ormai, perché me lo chiedi?”
“Senti, proseguiamo fino alla nave; solo così potremo vedere cosa è successo.”
“Come vuoi. Finché c’è energia …”
Rimisi in movimento il TM. L’indicatore era sceso a venti. Faceva freddo. Dieci minuti di cammino a dieci km orari. Restai silenziosa e guidavo con cautela. Le piccole buche che facevano sobbalzare il TM non mi disturbavano. Le prendevo a bassa velocità. Johanna mi suggerì:
“Koona, per caso stai tenendo spento il thermal imaging?”
“Sì, per risparmiare.”
“Lascia stare! Accendilo. Fra poco potrebbe tornarci utile. Immagino sia in grado di vedere dei corpi caldi.”
“Come vuoi. Lo accendo. Hai ragione.”
Accesi il sensore d’immagine termica. Uno schermino a cristalli liquidi s’illuminò ricostruendo l’immagine termica dell’ambiente intorno a noi. Tempo due minuti e la potenza avrebbe iniziato a decrescere. Il radar mi accorsi in quel momento mi stava restituendo un’immagine sempre più definita. Aveva l’aspetto di una casetta triangolare in alto, rettangolare alla base. Fissai lo schermo. Johanna se ne accorse, e mi disse che quella probabilmente era la Pegaso che ci stava aspettando.
“La Pegaso! Siamo arrivati Koona.”
“Aspetta che chiedo la distanza.”
“Dai, vediamo.”
Anche lo schermo del sensore termico l’aveva individuata. Portai il dito sulla relativa immagine ed il computer del TM la ingrandì tre volte. Era proprio la Pegaso, ed emetteva calore. Tolsi il dito e l’immagine tornò alle dimensioni normali. Avevo visto mia madre fare quel gesto decine di volte. Il cruscotto del TM per la sottoscritta non aveva segreti. Portai il dito sulla lettera “d” a margine dello schermo del radar, e chiesi al computer la nostra distanza. Apparve il valore “m=3,00090”. Dissi a Johanna:
“Tremila metri, con un errore di novanta.”
“Allora siamo arrivati.”
“Sì.”
“Senti come s’ingrandisce l’immagine termica?”
“Tocchi con l’indice l’oggetto, e ci lasci il dito per un secondo circa.”
“C’è il panorama?”
“C’è la funzione azimuth, scorri il dito per lungo alla base dello schermo! Mamma faceva così. Vedi un po’!”
Johanna seguì le mie istruzioni ed il video del thermal imaging gli restituì l’immagine di 180° in azimuth. L’elevazione era solo di 30°, verso sopra ovviamente. Johanna mi chiese:
“Il piccolo radar può fermare il fascio di onde in una determinata direzione?”
“Boh, io non ricordo di averlo mai fatto. Ma perché ?”
“C’è un oggetto che mi sta incuriosendo e non è un sasso …”
“Non so.”
“Puoi accelerare?”
“Sì, tanto ormai siamo arrivati.”
Accelerai il TM portando il dito indice della mano sinistra a fondo corsa. Il TM stava tremolando per gli scossoni. Johanna si stava reggendo alla meglio. Ci stavamo avvicinando. Ad un km circa Johanna mi disse:
“Ferma, ferma!”
“Sto frenando, tranquilla.”
Feci pressione sulla pedaliera metallica. Il TM ci mise sette (o diciassette?) secondi a fermarsi. I freni ovviamente erano elettrici. Sentivo il rumore acuto dei cuscinetti delle ruote metalliche. Il computer in quegli attimi che mi parvero eterni fece quanto di meglio c’era nei suoi algoritmi per fermare in sicurezza il veicolo. Guardai l’indicatore della potenza: diciotto e venticinque. Avevamo consumato un bel po’ tra accelerata e frenata. Le batterie erano vecchie e facevano presto a scaricarsi. Io non le avevo mai cambiate, né mai ordinato ai droidi di farlo. Johanna mi fece una battuta:
“Chissà che non diventi una camionista sulla Terra!”
“Cos’è una camionista?”
“Una che guida un mezzo come questo, grande tre volte questo, per consegnare merci nei supermercati.”
“Cos’è il supermercato?”
“Se riusciamo a tornare sulla Terra ti ci porto. Promesso.”
“Boh. E adesso?”
“Dammi il thermal imaging!”
“Guarda che è acceso!”
Johanna individuò una macchiolina a cui non avevo dato peso. Era grande poco più di un centimetro. Più o meno ovale distesa per la lunghezza. Johanna vi puntò sopra il dito, ed ingrandì l’immagine fino a quando non occupò l’intero schermetto di venti centimetri per dieci. L’immagine era molto sfumata anche se era perfettamente a fuoco. Era sempre più calda dell’ambiente intorno. Il sensore termico fece apparire la temperatura stimata: 38°0,5. Non occorreva essere un Einstein ( si dice così vero?!) per capire che quello che aveva visto Johanna era un corpo umano disteso sul suolo di Titano come la sottoscritta che svenne il giorno della sua prima mestruazione. Non sapevamo chi fosse. Greg o Mario avevano suppergiù la stessa statura e le tute erano identiche. Colori nel campo dell’infrarosso ovviamente non se ne distinguevano. Johanna mi chiese:
“Come si fa per la distanza?”
“Rimpicciolisci come l’hai trovato.”
“Come si fa?”
“Così, guarda.”
Tracciai una x col dito sull’immagine che tornò a dimensioni naturali. L’avevo imparato da mamma: valutare la distanza in base all’ingrandimento apparente, e mentalmente sottrarre lo scarto di fuoco dovuto all’infrarosso. Sentenziai da “esperta”:
“Un centinaio di metri!”
“Apri il TM! Gli vado incontro.”
“No, aspetta. Ci avviciniamo un altro po’.”
“Svelta, e fai attenzione.”
“Me l’hai detto tu di andare più veloce prima … ”
“Va bene, va bene.”
Feci ripartire il TM senza superare i dieci km orari. Al di sotto di quella velocità tendeva a fermarsi per inerzia avendo una certa massa. Accesi il faro, ma accadde quello che temevo. La nebbia titaniana mi aveva respinto indietro il fascio di luce. Per cui lo diressi verso terra agendo su una levetta come avevo visto fare a mia madre Iga durante le sue EVA in cui portava anche me. Quando l’immagine termica occupò metà dello schermo senza ingrandimento di Johanna fermai il veicolo. Si fermò con dolcezza. Potevamo essere ad una trentina di metri. Prima, a occhio sullo schermo avevo sovrastimato. Spensi i fari inferiori, ed accesi quello superiore direzionabile. Un suono ci distolse:
“Huuuuunnnnng.”
Mi guardai intorno e vidi la ragione. Accendendo il potente faro direzionale, il radar, ed il thermal imaging i consumi erano schizzati, e l’indicatore vidi che segnava 13 e rotti. Ora, sotto il fatidico 15 per cento, non ci saremmo potute muovere più. Tuttavia non aveva più importanza. Ormai la Pegaso era piuttosto vicina. Lontana circa il doppio di quel corpo disteso in orizzontale. Johanna si era riavvitata il casco e acceso la radio e l’erogatore di ossigeno. Era buio. Misi anch’io il casco per sicurezza e, come feci per prepararmi ad uscire, Johanna mi bloccò dicendomi alla radio dei nostri caschi:
“Tu resta sul TM. Finché sei qui dentro sei al sicuro. Tieni chiuso tutto dopo che scendo; e se mi succede qualcosa, alla peggio, torna alla base ! Tanto tu sai guidarlo questo coso! Io vado a vedere. Attendi mie istruzioni.”
“Che vuoi fare?”
“Intanto vedere chi è; poi ti dirò cosa fare. Tieni accesa la radio. Speriamo che la scatola nera registri i dialoghi di cabina!”
“Cos’è la scatola nera?”
“Poi te lo spiegherò. Adesso apri.”
Johanna andò alla portiera di accesso. Toccò l’interruttore e la porta si aprì. Discese dal mezzo. La porta non si richiuse dietro di lei. La chiusi io. Rimasi ad osservare dal posto di guida. Johanna stava camminando verso quel corpo. Lo raggiunse in pochi secondi e si mise ad abbassarsi piegando un ginocchio. Quel corpo sembrava esanime. Gli voltò il casco. Mi parlava alla radio:
“Cielo!”
Interloquii subito incuriosita:
“Che cosa Johanna?”
“É Greg! Privo di sensi! Provo a prendergli il polso … cielo! Non riesco a sentirlo, e non ho con me lo scanner delle funzioni vitali!”
“Ma, è … è … è ancora vivo?”
“Non so Koona. Gli occhi sono chiusi.”
Johanna scosse alla meglio quel corpo ma non ottenne niente. Istintivamente portai il faro direzionale perché colpisse quel corpo. Pensai di abbondare accendendo anche i fari di navigazione su fondo nella parte inferiore del veicolo. Adesso quei due corpi erano adeguatamente illuminati nonostante l’insidiosa venefica nebbia titaniana. Risaltavano agli occhi i caschi gialli e le tute rosso ruggine. I guanti bianco il sinistro e rosso il destro, ed i calzari neri. Quel corpo non si muoveva, se non per gli scuotimenti di Johanna.
“Non posso dirlo Koona! Ma temo che sia morto.”
“Morto?”
“Koona, resta nel TM! Greg non risponde agli stimoli. Gli ho alzato pure il volume della radio. Non riesco a svegliarlo. Chissà da quanto sta così … provo a voltargli la testa verso la luce, chissà che riesca a stimolare la retina!”
Non successe niente. Greg era dunque morto! O quanto meno non riprendeva i sensi. Mi ricordai di quando ero svenuta e svegliatami scoprii che ero rimasta con soli due minuti di ossigeno prima di entrare nel TM, per cui dissi a Johanna:
“Vedi quanto ossigeno gli resta.”
“Aspetta, sì, hai ragione!”
Attesi il responso di Johanna china su quel corpo esanime protetto dalla tuta termica:
“Ne ha ancora per sei minuti. La temperatura interna però sta scendendo.”
“Portalo nel TM!”
“Va bene, lo porto. Ma tu fai attenzione! E ricordati che manca anche Van Brenner all’appello!”
Johanna trascinò quel corpo per le ascelle fino al TM. Io aprii il portello di accesso. Johanna appoggiò il corpo per le spalle, poi lo spinse dentro per i piedi, quindi entrò nel vano. Attese i trenta secondi necessari a purificare l’aria esterna che era entrata con l’apertura, poi quando apparve la luce verde si svitò il casco. Lo stesso feci anch’io. Come andai verso quel corpo Johanna mi bloccò con un gesto usando il tono imperativo:
“Non avvicinarti! Ci penso io, non ti preoccupare.”
Restai in cabina di pilotaggio, ma guardavo attraverso il piccolo uscio a vetro plastico. Johanna gli svitò il casco e glielo tolse. Ebbi anch’io la certezza che era Greg; aveva gli occhi chiusi come se dormisse. Il suo viso appariva roseo e rilassato. Alla base mi sembrò che fosse più pallido. Johanna gli mise una mano sul collo e vide che non riusciva a sentirgli pulsare la vena giugulare. Non ci pensò due volte. Gli aprì la cerniera della tuta e scopertogli il petto diede dei pugni nel torace. Da quello che potevo capire cercava di riavviargli il cuore; tuttavia non sapevamo certo da quanto fosse fermo. Non sapevamo quanto tempo il suo cervello era rimasto privo di ossigeno. Probabilmente non si sarebbe risvegliato più. Mi chiamò e dopo avermi mostrato il gesto che stava facendo sul corpo di Greg con mani e braccia mi disse:
“Fai questo movimento al cuore dal basso verso l’alto. Si chiama massaggio cardiaco …”
Mi inginocchiai a gambe larghe sopra la pancia di Greg, e feci quel massaggio come Johanna mi aveva insegnato in quei pochi istanti. Lei intanto si era chinata a praticargli la respirazione bocca a bocca. Si fermò un istante per dirmi:
“Non ti fermare! Continua !”
Poi continuò a mandargli tutta l’aria che poteva per diversi secondi, poi si fermò. Le venne in mente una cosa perché, fermatasi, si guardò intorno. Cercò una scatola alla parete del TM col simbolo del soccorso: losanga bianca bordata rosso, o talvolta anche una croce rossa in campo bianco. Trovò il box che cercava e lo aprì. Cercò buttando via tutto quello che non serviva … tirò fuori una scatoletta con due piattini ed un filo. Mi disse di farmi da parte e di non toccarlo. Era (lo seppi dopo) un defibrillatore portatile. Johanna, da medico, sapeva usarlo. Mise uno dei piatti sul cuore e l’altro ad una certa distanza. Diede corrente. Il corpo di Greg sussultò attratto dall’elettrodo sul petto, poi tornò per terra. Un altro colpo! Tornò per terra. Un altro colpo! Tornò per terra. Johanna attese dei secondi. Niente. Niente, niente, e niente di niente stava succedendo. Gettò sul pavimento il defibrillatore, ed emotivamente esausta abbassò le spalle. Disse:
“Mi dispiace Koona. Greg è morto. Non c’è più niente da fare credo … requiescat in pacem!”
Inginocchiata su quel corpo, eretta col busto, gli fece un segno simile ad una croce con la sua mano destra a formare il numero tre con pollice, indice e medio. Era la prima volta che vedevo quel gesto da quando avevo conosciuto Johanna.
“Che vuoi dire con quelle parole?”
“Era latino, non conosci il latino?”
“No.”
“Il latino è lingua ufficiale della Chiesa Cristiana Cattolica Romana. Volevo dire “Riposi in pace”. Sulla Terra ti spiegherò.”
“Che si fa adesso?”
“Dobbiamo cercare di sapere dov’è Mario ! Sicuramente lui sa qualcosa. Siamo in pericolo Koona! Probabilmente è stato Mario ad ucciderlo. Con lui mi ero confidata …”
“Di cosa è morto Gregory?”
“Non posso dirlo così a occhio. Ma dal colorito mi sembra una morte da ci-o.”
“Sembra addormentato.”
“Forse il ci-o-due o il ci-o.”
“Cos’è il ci-o?”
“Monossido di carbonio! Ne bastano quindici parti per milione, se non ricordo male, per mandarci all’altro mondo.”
“Non lascia tracce?”
“La rilassatezza del volto è una delle più tipiche. Anche il colore rosa è un’altra. Può darsi che Mario gli abbia sabotato gli erogatori, in fondo era libero di muoversi nella base. Greg purtroppo si è fidato di lui, ed ecco il risultato! Povero Gregory. Era al suo ultimo viaggio.”
“Uhm, ci-o … uhm … porco Saturno! Rasputin! Ormai è chiuso da due ore buone!”
Andai ad aprire la capsula. Temevo che il monossido o il biossido o come cavolo si chiama avesse ucciso il mio cane per mia disattenzione. Aprii. Il cane era ancora vivo. Uscì dalla capsula e venne a scodinzolarmi dietro abbaiando. Stava protestando per il trattamento ricevuto. Sollevai, baciai sulla testa e carezzai il mio pelosissimo amico, quindi lo deposi sul cruscotto di guida; poi chiusi la porticina trasparente del comparto guida e raggiunsi Johanna che stava osservando ciò che riusciva a vedere del corpo integro di Greg. A quanto pare era stato il monossido di carbonio ebbe a dirmi Johanna; il suo corpo era di color rosa, un rosa innaturale che avevo notato anche nel suo volto solo che entrambe facemmo caso al cuore che non batteva più. Johanna rovistò nella tasca di missione sul cosciale destro della tuta di Greg (ma ve ne era un’altra anche sul sinistro) e tirò fuori alcune card con microchip di Greg. Poi scattò una foto al cadavere del nostro amico con la fotocamera della polsiera di missione, quindi mi diede delle istruzioni concise:
“Resta nel TM e sigilla le porte non appena esco all‘esterno. Proverò a vedere se c’è Mario qui intorno, ma secondo me si trova già nella Pegaso.”
“Poi ?”
“Mario è un assassino! Non fidarti di lui! Se mi succede qualcosa resta chiusa nel TM e tornatene alla base, tanto la rotta è memorizzata. Se finisce l’elettricità ricordati che ti ha detto Greg: ci sono ancora le batterie a perossido. Saranno sufficienti per tornare indietro. Il resto sai farlo tu che già conosci questo mezzo!”
“Ormai la base è chiusa. L’ha chiusa Greg. Si aprirebbe solo con i suoi codici sorgente.”
“Che vuoi dire?”
“Che Greg, prima di lasciarla, ha chiuso la base. Solo lui potrebbe aprirla.”
“Ok, hai ragione, ecco queste sono tutte le card di Greg, tieni!”
“E tu, come fai?”
“A me serve solo quella bianca che è quella che apre l’astronave. Le altre sono quelle della base. Tienile tu.”
“Ok.”
“Ora ascoltami bene!”
“Cosa?”
“Se ti dico “va tutto bene” resta nel TM, e soprattutto scappa via! Vattene!”
Detto questo Johanna si rimise il casco ed io la aiutai a bloccarlo sul collare metallico. Io rientrai nella cabina di pilotaggio e richiusi la porta dietro di me. Johanna mi fece segno alzando il pollice ed io intuii che quel segno voleva dire “sono pronta”. Aprii le porte e Johanna scese dal TM. Comandai la chiusura della porta. Johanna si diresse ad una decina di metri e fece tutto un giro intorno. Pensai di aiutarla direzionando il faro superiore. Un minuto dopo, avendo completato il giro, mi fece segno di dirigere il faro verso la Pegaso. Riuscii ad illuminarne la sola base : un tozzo cilindro a pannelli bianchi e grigi, con quattro piedi a separarlo dalla superficie di Titano, alti forse meno di un metro. Nessuna luce di lampeggio per indicare la presenza della nave. Vidi Johanna utilizzare alcune card a microchip che aveva preso a Greg. Riuscì a far uscire un piccolo pannello. Poi dopo un doppio lampeggio una scaletta telescopica venne distesa da sopra verso la superficie rocciosa. Johanna salì arrampicandosi sui pioli con mani e piedi. Era addestrata a farlo essendo un astronauta. Io alzai di poco l’elevazione del thermal imaging. Quando arrivò sulla sommità del tozzo cilindro, dove iniziava un tronco di cono appoggiato su di esso aprì un portello agendo sulla maniglia. Quel portello si aprì verso l’interno che era illuminato di azzurro. Provai a vedere se il thermal imaging poteva darmi un’immagine migliore, soprattutto ingrandita a dovere dato che ero curiosa. Feci appena in tempo a veder scomparire Johannna dentro la Pegaso. Passarono degli angosciosi secondi senza che succedesse niente. Johanna mi aveva detto di restare nel TM e di andarmene se qualcosa fosse andato storto. Provai a chiamare Johanna alla radio.
“Johanna, tutto bene?”
“Sì, Koona, qui non c’è nessuno. Senti resta nel TM che torno a prenderti. Ho provato a parlare con la Micenea senza successo, in questo momento siamo in opposizione, dobbiamo aspettare che la rotazione di Titano si compia.”
“Allora preparo il cane per la capsula!”
“Come vuoi, ma sbrigati che Mario è qui intorno secondo me. Puoi avvicinarti col TM? Lì dentro sei più al sicuro.”
“Ci provo.”
Diedi uno sguardo all’indicatore. Undici e venticinque. Chiaramente insufficienti per muoversi. Provai lo stesso, tanto dovevo fare solo pochi metri, poi avrei comunque abbandonato il mezzo. Provai a portare l’indice sinistro fino al verde. Per istintiva cautela lentamente come se temessi il risultato. Uno stridio acuto annunciò che il TM era ancora disposto a muoversi. Ero a piena potenza, ma non riuscivo a superare una velocità che forse sarà stata solo di tre o quattro km orari. Troppo piccola perché l’indicatore digitale la percepisse con precisione. Spensi il faro principale per recuperare un po’ di energia, quindi mossi in avanti la mini stick. Ci muovevamo lentamente in direzione della Pegaso. Dopo tre minuti di cammino vedendo che l’immagine ingrandiva sullo schermo del thermal pensai di fermare il mezzo. La potenza residua ormai era risibile. Non appena accesi il faro direzionale per valutare la distanza si spense da solo il thermal imaging. Non avevo più energia, e questo nonostante avessi spento il riscaldamento. Se ne andarono anche i piccoli fari inferiori: prima il destro, poi il sinistro. Delle spie rosse si accesero nel cruscotto. C’era abbastanza illuminazione perché trovassi il mio Rasputin e lo mettessi nella capsula che aveva costruito mio padre. Indossai il casco, e lo bloccai in posizione sul collare. Acceso l’erogatore di ossigeno presi con me la capsula e mi preparai a lasciare il TM. Ebbi un attimo di panico. La porta interna della cabina di pilotaggio non si stava aprendo. E grazie!-pensai- non c’è più energia. Non ci pensai due volte. Tornai verso il cruscotto, e afferrato l’estintore in dotazione, lo usai come ariete per rompere la porta trasparente. Ci vollero una decina di colpi. Poi arrivata al portello di uscita attivai la levetta di emergenza tirandola verso il basso. Il pannello si aprì. Saltai all’esterno. Misi il piede in una pozzanghera di metano; percepii il freddo di quel gas allo stato liquido sopra i calzari isolanti, un po’ invecchiati in verità. Cominciai a muovermi verso la Pegaso lasciandomi il fedele TM alle spalle. Avevo fatto bene a fermarlo. Ero a cinque o sei metri dalla Pegaso. Mi diressi nell’oscurità di Titano verso la scaletta della Pegaso, ancora estesa per la sottoscritta. Provai ad arrampicarmi alla meglio facendo leva con la mano sinistra e reggendo con la destra la capsula porta cane. La forza delle mie ginocchia sui pioli fece il resto. Mi arrampicavo precariamente preoccupata per il cane. Tuttavia su Titano non è che pesasse poi tanto. Più che altro ingombrava. Pensai, mentre ero sospesa a due metri dal suolo, di chiamare alla radio Johanna; purtroppo in quel momento mi accorsi che la radio della mia tuta era spenta; per cui la accesi con un certo sforzo, stando attenta a non cadere:
“Johanna, aiutami con la capsula. Sto per arrivare.”
Non ebbi risposta, tuttavia un braccio ed una mano destra si erano sporte dal portello di accesso della Pegaso, un altro metro a mezzo sopra di me. Avanzai di un paio di pioli. Poi ancora un altro paio. Quando valutai di essere alla giusta distanza sollevai la capsula, e la diedi al braccio che si era sporto. Tre secondi e Rasputin poteva ritenersi imbarcato. Ora toccava a me. Quando arrivai al portello quella stessa mano mi aiutò ad entrare. Come arrivai all’interno vidi il corpo per intero con il casco che mi avevano aiutato. La Pegaso era veramente stretta. Quattro seggi anatomici inclinati di una ventina di gradi occupavano il centro dell‘astronave di soccorso. La debole luce azzurra mi fece raggelare il sangue dato che vidi attraverso quel casco. Era Mario, ma non riuscivo a capire se mi stesse sorridendo o meno. D’istinto cercai di sapere dove avesse sistemato il cane. Era su uno dei seggiolini. Spostandomi di una decina di cm avanti una visione di orrore catturò la mia curiosità. Guardai meglio verso il basso, e per quel che vidi non c’era da stare allegri: un corpo accasciato sul pavimento della Pegaso. Era Johanna. Era senza casco. Aveva la sola cuffia bianca. Dalla bocca aperta era uscito parecchio sangue che le aveva sporcato il volto ed il collo che usciva dalla tuta. Mario mi scostò da una parte, ed io ancora pietrificata dal terrore, non reagii. Si diresse verso le spalle di quel corpo ormai esanime e lo sollevò dato che ne aveva la forza. Johanna aveva la gola tagliata ed i suoi occhi erano sbarrati, vitrei, e spenti. Vidi Mario che cercava di buttare fuori bordo il corpo di Johanna. Il portello era ancora aperto. Mario spinse fuori il cadavere di Johanna con tutta la tuta, e senza più il casco. Il suo viso, che guardai di striscio, gelò istantaneamente a centottanta gradi sotto zero di atmosfera esterna. A Mario non gliene importava, e si limitò a buttare fuori quel corpo morto. Poi chiuse il portello verso l’esterno. Da dentro non si poteva certo aprire a spinta. Ero chiusa dentro. Vivere o morire con quell’uomo sarebbe dipeso solo da me. Mario accese un’altra luce. Questa volta bianca, e quando una certa spia (quella del riciclo e purificazione dell’aria, come sul TM) si spense si tolse il casco. Sbloccò anche il mio, ed io lasciai che me lo togliesse. Mario mi sorrise. Io non ricambiai il sorriso. Il mio Mario era un assassino. Un duplice omicida! Due vite stroncate, ed abbandonate su quel satellite che ci apprestavamo a lasciare. Mario mi disse:
“Scegliti uno di quei posti e siediti! Al cane puoi aprire la capsula, ma è meglio se lo lasci dentro.”
“Che vuoi dire?”
“Che partiamo.”
All’improvviso un rumore acuto:
“Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip!”
Chiesi fingendomi smarrita; tuttavia ero spaventata per il mio stesso cinismo. Era come se me l’aspettassi l’eliminazione di Johanna. Non potevo prendere decisioni globali; ma di minuto in minuto …
“Che succede?”
“Il computer della Pegaso ti avverte che le batterie al plutonio stanno scaldando la nave, fra trenta minuti finiranno di scaldare anche il combustibile con cui lasceremo Titano … poi le reazioni nucleari cesseranno e si spegneranno.”
“Che vuoi dire ? Che succede tra trenta minuti?”
“Partiamo. Andiamo via da questo posto! Non sei contenta?”
“Li dovevi proprio uccidere?”
“Greg aveva un suo senso dell’onore: una specie di una vita, una moglie, capisci?!”
“E Johanna? Eri così sicuro che ti avrebbe denunciato? La morte di Greg è stata per monossido, potevi farla passare per incidente … lei poi te l‘aveva data, ed io ti avrei coperto!”
“Beh, così siamo più al sicuro, no?!”
“Mario, tu hai ucciso per me?”
“Per te e per me! Niente ci separerà più.”
Mario era fuori di sé. Se volevo sopravvivere dovevo tutt’altro che contrariarlo. Pensai di dirgli:
“Facciamo insieme la check-list! Fammi fare qualcosa !”
“Che puoi fare? La nave è automatizzata. Ho già acceso il computer di bordo. Il computer sta facendo la check list !”
-continua-
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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