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Prime Esperienze

Salve Terra, qui Koona 2a p.


di sexitraumer
19.01.2011    |    7.049    |    0 6.5
"” Mi misi a vedere la vita di quel bravo scultore italiano per circa un’ora quando pensai d’interrompere l’olofilm per chiedere al Sorvegliante: “Abbiamo..."
Conoscevo a memoria la procedura avendola vista recitare molte volte a mia madre. Il regolamento di Titano Uno prevedeva che per ogni attività esterna si dovessero individuare almeno due scopi perché venisse autorizzata. Attesi due o tre minuti in attesa del parere del Sorvegliante che per fortuna sentenziò:

“Autorizzazione concessa Koona.”
“Grazie, vado subito.”
“Ti consiglio di portare con te i droidi due e nove: gli unici disponibili al momento.”
“Non occorre. Voglio fare un po’ di esercizio fisico.”
“Come desideri Koona.”

Mi recai nel locale delle tute. La mia era già pronta. Me la tenevo bene. L’avevo indossata decine di volte. Per indossarla dovetti spogliarmi di nuovo. Mi tolsi la giacchetta e la maglia e calati i pantaloncini rimasi in sole mutande; a seno nudo mi infilai nella tuta. Presi in braccio Rasputin, ed estratto da uno stipetto una capsula a chiusura ermetica da un metro per cinquanta per trenta cm vi feci entrare il cane che si accovacciò secondo i miei desideri. E la richiusi. Percorsi allora i corridoi tenendo la capsula di Rasputin con la mano destra e sotto il braccio sinistro il mio casco a tenuta stagna. Eravamo pronti per la camera di transizione. Digitai la combinazione del mio anno di nascita, e comandai la chiusura di una porta dietro di noi. Infilai il casco e lo bloccai. Mi assicurai che nemmeno a Rasputin mancasse l’ossigeno allacciando una derivazione alla mia tuta quindi aprii la seconda porta. Tre passi ed eravamo all’esterno. Il bus - sulla Terra li chiamate così - era parcheggiato a sei metri dalla porta. Spinsi il mio piccolo telecomando sulla polsiera multifunzione della tuta come mi aveva insegnato mia madre Iga, ed il veicolo si mosse verso di noi. Si fermò, e aperto sul lato destro uno sportello a scorrimento entrammo; e lo sportello si richiuse automaticamente. Del fumo ed una luce verde annunciarono congiuntamente che l’aria era tornata respirabile, a pressione normale. Liberai prima Rasputin, che andò a sedersi al posto davanti a destra com‘era sua abitudine. Poi mi svitai il casco, e presi posto dal lato guida a sinistra. In realtà non dovevo guidare niente. Dovevo solo digitare C-3 sulla tastiera a sfioramento ed il Titan Multi Transport Unit, che per brevità in famiglia chiamavamo Tiemme, era un vano-bus elettrico a sei ruote con guida computer indipendente, remota, e manuale per le emergenze ci avrebbe portato a destinazione. Rasputin si era drizzato davanti al trasparente scodinzolando tutto contento di partecipare all’esplorazione con la sua padrona. Il tragitto richiedeva dieci minuti, altrettanti per il ritorno. Solo dieci di stazionamento quindi. Più che sufficienti per vuotare la capsula e trasportare i suoi contenitori nel vano e quindi tornare alla base. Il TM era a sei ruote, nonché a sei posti: 2 davanti al parabrezza e 4 laterali. La sua autonomia era di otto ore. Dalla scomparsa dei miei genitori era diventato una sorta di camper con il quale procedevo di tanto in tanto ad ispezionare anche una piccola serra che avevo costruito da sola dall’altra parte di una collina alta cinquanta metri circa, fuori dalla vista del Sorvegliante di silicio. Era l’unico posto fuori dalla sua giurisdizione informatica. Semplicemente per lui non esisteva. L’avevo costruita io stessa con l’aiuto di due droidi i primi tempi. Dopo il loro lavoro con me prima di rientrare tutti nel braccio uno cancellavo la loro memoria. Poi da un certo momento in poi il Sorvegliante modificò la loro programmazione per impedirmi di cancellare la loro memoria. Ed io smisi di servirmene. Io volevo che la serra fosse un posto “solo mio”. Lì la tecnologia e la sorveglianza non dovevano proprio esserci. Una volta ogni venti giorni mi recavo dentro la mia serra dove grazie ai fabricator, piccoli strumenti-computer fabbrica-tutto che mi ero portati dietro, mi ero fatti fare alcuni strumenti con cui gestivo la mia serra ed il mio divertimento lì. Come io non potevo beneficiare del braccio tre, il Sorvegliante non poteva entrare nella mia serra. Quella era solo per me stessa. Non avevo informato il Sorvegliante che da parte sua non poteva vedere la mia serra personale poiché il suo controllo radar trovava un ostacolo naturale nella collina. Procedevamo lentamente e per fare poche centinaia di metri ci volevano dieci lunghi minuti. Il paesaggio dinanzi a me era allucinante: c’erano nubi arancio e violetto all’orizzonte e di lì a poco probabilmente
avrebbe piovuto metano liquido e ammoniaca.
Il colore della roccia sembrava argentato, mentre da vicino era di un grigio più opaco.
Il Sorvegliante mi aveva istruito da tempo sulla reale natura delle piogge di Titano. La mia tuta teoricamente era anticorrosione ma era bene non fidarsi troppo. Stavamo per arrivare; lo sapevo dal fatto che il TM stava rallentando. Il settore C-3 non era lontano, e potevo vedere in lontananza le braccia della Y della stazione Titano Uno, una delle quali era il modulo dove avevo sempre vissuto io dalla mia nascita. Il veicolo si fermò. C’era qualcosa che mi angosciava; eppure l’avevo fatto molte volte. Rasputin, il mio cane, sarebbe comunque rimasto nel TM. Ero arrivata; avvitai di nuovo il casco e aprii la valvola dell‘ossigeno. Rasputin conosceva a memoria la procedura: lui sarebbe rimasto di guardia dietro il parabrezza a zampe sul cruscotto. Io per precauzione lasciavo la radio aperta, sperando che il Sorvegliante in caso di mio impedimento sentendo i guaiti del cane, mandasse qualche droide in mio soccorso. La pressione dell’atmosfera di Titano era grossomodo simile a quella interna del TM. Chiusi la cabina dal resto del vano, ed isolata la cabina ad ossigeno e azoto potevo aprire i portelli laterali ben sicura che l’aria non sarebbe fuoriuscita comunque. Certo forse poteva entrare nel vano quella di Titano fatta di metano e azoto e tracce di pericolosa ammoniaca. Il vento c’era. Aprii e discesi. Muovevo i miei passi all’esterno e mi diressi davanti alla riva del lago di C-3 ad una decina di metri da me. Lì sul bordo del lago giaceva abbandonata una sfera di metallo bianca colorata con delle strisce rosse diagonali. Era butterata di graffi, ammaccamenti, e bruciature dovuti allo stress dell’ingresso nella nostra atmosfera relativamente densa. Vi erano pure diverse goccioline di condensa; certo non di vapore acqueo. Non aveva oblò dato che non era abitata. Due dei tre paracadute si erano già sciolti dato che si erano afflosciati sul lago di ammoniaca e metano. L’altro paracadute era asciutto ed impolverato ed a quanto potei vedere non troppo corroso, se non dal freddo. Il capsulone di sopravvivenza aveva un raggio di due metri. Una bella palla per lo più vuota dentro. Era in abbandono; i pannelli della sfera erano già corrosi dall‘ammoniaca liquida del lago dove la capsula era rimasta impantanata nove giorni. In quel momento mi chiesi curiosamente dove avevo imparato quel termine adattissimo: impantanata …
Speravo che il portello di accesso non fosse capitato di sopra; altrimenti avrei dovuto compiere uno sforzo per voltarla facendola ruotare. Fui fortunata. Il portello era un metro e mezzo sopra la mia mano estesa. Andai dalla parte opposta e cercai di sospingere lentamente la sfera perché ruotasse un po’; non di molto; quanto era sufficiente perché potessi accedere al portello di scarico. Questa rotazione che avevo imparato a fare con la dovuta destrezza richiese sei o sette minuti di così tanta tensione che mi ero inumidita tra le gambe. Dovevo farla ruotare, ma con cautela senza spingere troppo. Me ne accorsi quando presi uno dei tacchi che usavo per fermare la rotazione al momento opportuno. Sul momento lo attribuii al calore indotto dalla peluria intima. Poi avuto il portello alla portata del mio braccio esteso toccai i pulsanti di apertura automatica dall‘esterno. Un comando elettrico dapprima fece lampeggiare una luce rossa che avvertiva di allontanarsi; e così feci. Lo avevo visto fare a mamma qualche anno prima al sicuro nel TM. Come già sapevo dopo dieci secondi si aprì il portello e dal quadrato di apertura si svolse un tubo di tela verso il suolo. Due lampi flash avvertivano che stavano arrivando i contenitori. Iniziava la sequenza di delivery. Due lampi erano uguali ad un contenitore. La capsula consegnò otto scatoloni grossomodo cubici da sessanta cm di spigolo. Pesavano su Titano sette kg l’uno. Avevano vario materiale di sussistenza per lo più liofilizzato. Poi consegnatomi l’ultimo contenitore caricai il primo portandolo fino al TM. Sul momento decisi di prendere anche il paracadute che si era salvato dall’ammoniaca. Ne avrei riciclato il tessuto per la mia serra oltre la collina. Ripiegare e trasportare quel paracadute mi fece affaticare ancora di più. Eppure non pesava molto. Le mie cosce erano sempre più bagnate. Eppure ero sicura di non aver urinato. Ci vollero venti minuti buoni per completare il carico. Mi sentivo anche un po’ debole. Se avessi portato con me i droidi sarebbe bastato di meno, e sarei stata meglio! Avevo finito. Ora dovevo riprendere un po’ di fiato. Mi sedetti su un masso. Contemplai quel singolare ed angoscioso paesaggio. Saturno occupava i suoi soliti quattro quinti del cielo, ed io potevo veder passare davanti a me anche un altro paio dei sessantuno satelliti di Saturno. Gli anelli, che da Titano si percepivano quasi verticali sembrava volessero tagliarti in due; comunque sembravano pacifici fino a sembrare fermi; in realtà si muovevano alla stessa velocità dell‘equatore del pianeta madre: Saturno! Una strana quiete quella di Titano. Passeggiavo lungo la riva alla mirabile temperatura ambiente di 180 gradi sotto zero. Potevo permettermelo poiché il riscaldamento elettrico della tuta aveva circa due ore di autonomia; poi nell’ipotesi che l’ossigeno fosse bastato, avrei cominciato a sentire freddo. Scattavo delle foto che poi commentavamo assieme io e Miss Dera la mia insegnante virtuale. Guardai il mio misuratore digitale di aria respirabile: avevo circa 40 minuti a disposizione; poi sarei comunque dovuta rientrare nel TM. Tuttavia me ne ero anche allontanata, prigioniera com’ero nei miei pensieri. La mia noia venne interrotta da tre goccioline che passarono davanti alla visiera del mio casco. Era pioggia, ma non era d’acqua. I filtri della tuta cominciavano ad invecchiare. Quella poteva essere ammoniaca dato che cominciavo a sentire un odore molto simile a quello che percepivo urinando dentro i bagni della base. Aveva iniziato a piovere; le nubi molto basse e scure si scontravano davanti a me emettendo anche fulmini e lampi. Io cominciai a scattare rapidamente delle foto in tutte le direzioni ed ecco che all’improvviso le gocce davanti al casco diventano dei velocissimi goccioloni. Era scoppiato il gelido temporale di Titano. Il lago di metano dal colore argento davanti a me sembrava ribollire; i fulmini cadevano e rumoreggiavano. Non potevo restare; dovevo rientrare. Accidenti! Mi ero allontanata troppo dal TM che non poteva neanche venirmi incontro. Venni investita da un lunghissima raffica di vento che mi fece sentire anche il freddo esterno. Se non me ne andavo sarei finita in quel lago di ammoniaca e metano, con quali conseguenze si poteva ben immaginare. Era un vento fortissimo. Fui costretta a piegarmi per avanzare e come lo feci sentii qualcosa di liquido, caldo, e copioso uscire dalle mie mutande sotto la tuta. Stavolta ero sicura che fosse sangue. Ne stava uscendo una bella quantità. Mi mancavano ancora una quarantina metri di cammino. Ero convintissima che stavo perdendo i sensi per un’emorragia. Vidi la morte in faccia. Sanguinavo dentro la tuta. La mia vulva non voleva sapere di contenere quell’emorragia che mi sembrava inarrestabile. Una raffica un po’ più forte mi scaraventò a terra, e vi rimasi priva di conoscenza diversi minuti. Certa che stavo per morire per una misteriosa emorragia al sesso cedetti le mie forze all’oblio ben contenta di ricongiungermi con i miei genitori; venni risvegliata da un botto, un fulmine scagliatosi a distanza che aveva proiettato su di me la sua luce. Ero ancora lì a dieci metri dal TM. Dato l’enorme quantità d’aria in movimento la visibilità, mercé quel nubifragio infernale era ridicola. Forse sei metri a dire tanto. Diedi d’istinto un’occhiata al timer ossigeno: 38 minuti. Altri due ed ero all’altro mondo. Ma l’altro mondo era stato di diverso avviso! Ripresi coraggio; mi rialzai nonostante l‘intorpidimento, e giunta al pannello laterale del TM digitai la combinazione solo dopo averci pensato un buon minuto, stanca e stremata com‘ero non ricordavo né la combinazione, né il pulsante di emergenza dove fosse. Cominciavo a sentire gli effetti dell’ipossia quando il pannello scorse, e potei rientrare con i polmoni in debito di aria. Dovevo aspettare che il filtraggio interno eliminasse ammoniaca e metano dell’atmosfera titaniana ch‘erano sicuramente entrati dentro il vano. Ci vollero trenta lunghi secondi poi potei svitare il casco e riprendere a respirare normalmente. Non appena cercai di mettere piede nella cabina di pilotaggio il TM si mosse. Rasputin doveva aver guaito, ed il Sorvegliante assicuratosi che fossi di nuovo a bordo ci stava riportando a casa in automatico. Ero ancora sconvolta dall’accaduto. Mi lasciai cadere sulla spalliera dei sedili dopo aver fatto una carezza al cane. Arrivammo in mezz’ora per colpa della tempesta, e di due fermate di cautela. Stressata e disgustata per tutto quel sangue tra le cosce trovai la lucidità per mettere Rasputin nella capsula di sicurezza e discesi rapidamente dal veicolo. Aprii la porta, compensazione, eliminazione gas estranei, finalmente rientrai nella quiete del braccio uno. Mi sentivo sporca ed indebolita. Perdevo ancora sangue. Mi tolsi rapidamente la tuta e vidi che le mie mutandine bianche erano diventate rosse, quasi nere a tratti. Anche le mie coscette erano sporche. Tutto il mio sesso trasformato in una pozza di sangue raggrumato, a tratti quasi fangoso. Lasciai cadere in terra le mutandine ormai inutilizzabili e raggiunsi l’infermeria camminando e continuando a perdere sangue. Credevo di morire, ma trovavo ancora la forza di camminare; complessivamente ero patetica, o forse solo ingenua. Dovevo solo sperare che il Sorvegliante in infermeria conoscesse il suo mestiere. Accesi l’interruttore di emergenza e, raccolte le mie ultime forze, dissi al microfono:

“Emorragia al sesso. Estesa!”

Quindi mi distesi completamente nuda sul lettino anatomico. Non so come ho fatto a trovare le parole più giuste in quel momento. Certo non ero stata in grado di sviare il computer in funzione dottore. Mamma mi aveva trasmesso molti modi di dire. Uno scanner calò sopra di me ad una decina di cm e procedette alla scansione del mio corpo. Dai piedi alla testa. Poi di nuovo verso i piedi quando si fermò davanti alla vulva insanguinata che non volevo guardare disgustata com‘ero di aver avuto una perdita proprio lì. Dalla lampada d’illuminazione discese un cilindretto con un esagono pieno di rettangolini incisi di colore dorato (erano i suoi dìpoli micro radar) che si fermò a cinque cm dal mio sesso e lì rimase per cinque minuti, poi dopo aver indagato il mio sesso senza entrarvi, se ne tornò su e scomparve nel suo alloggiamento. Entrò uno dei droidi che afferrò con l’estensione meccanica dei suoi arti il mio braccio, e vi collocò una manica ad aria già predisposta; poi con estrema precisione e leggerezza poggiò sul mio corpo gli elettrodi dell’elettrocardiogramma. Nemmeno dieci secondi e dal computer venne restituito il risultato di pressione arteriosa e stato del cuore, che non venne trascritto dato che non erano state riscontrate anormalità. In quei momenti non riuscivo a ricordare che, avendo spesso assistito mia madre da viva, avevo imparato inconsapevolmente i modi di agire dei droidi in infermeria; solo che lì per lì non me ne avvedevo. Vidi che tutte le luci intorno a me erano verdi. Nessun allarme acustico. Lo schermo del computer si inclinò verso di me di una trentina di gradi sopra la mia testa che giaceva ancora sul cuscino; aveva preso il posto del bulbo che mi aveva visitato ed era rientrato; si animò presentando un immagine di Miss Dera che sorrideva garbatamente a mezzo busto.

“Come ti senti Koona?”
“Abbastanza scossa ancora, ho creduto di morire!”
“Morire?! Oh che idea! Il sorvegliante, dopo la scansione delle tue funzioni vitali m’informa che va tutto bene.”
“Perché sorride Miss Dera?!”
“Koona va tutto bene. Alla fine è successo …”
“Cosa è successo?”
“Non lo immagini proprio Koona?!”
“No.”
“Sei diventata donna Koona!”
“…”
“Era il tuo primo ciclo mestruale.”
“Tua mamma lo avrà avuto decine di volte. Non te ne ha mai parlato?”
“Ora non ricordo.”
“Suvvia te ne ricorderai; avrai visto che indossava gli assorbenti insieme alle mutande in certi giorni del mese. I giorni del ciclo. Ce l‘hanno solo le donne. Gli uomini ne sono esenti per struttura. Oggi era il giorno del tuo primo ciclo.”
“Il mio primo ciclo?”
“Sì, devi abituarti all’idea. Ogni 28-45 giorni avrai la sorpresa di oggi. Ma si annuncerà con del mal di testa, e dell‘irritabilità qualche giorno prima. Il tutto è dovuto alla perdita di ferro nel tuo metabolismo.”
“Ogni mese?”
“Sì, più o meno fino ai cinquanta anni o meno in taluni casi.”
“E adesso?”
“Se sei ancora scossa il droide ti ripulirà, e ti fornirà anche degli assorbenti intimi. Sono delle cose che dovrai imparare ad usare Koona. Vuoi un tranquillante?”
“Lei lo sapeva Miss Dera ? Cosa ?! No! Sto bene!”
“Cosa avrei dovuto sapere Koona?”
“Che sarebbe accaduto oggi.”
“No. Nella maniera più assoluta. Il Sorvegliante mi ha comunicato che se l’aspettava; mi aveva comunicato del tuo cambiamento di umore; ma neppure i suoi algoritmi di computer quantistico potevano prevedere il giorno del tuo ciclo.”

Il droide venne di nuovo affiancandosi al lettino con una spugna imbevuta di liquido che dall’odore riconoscevo come l’antibatterico che già avevamo usato con mamma molte volte. I suoi arti meccanici avevano all’estremità una quaterna a croce di dita metalliche che trattenevano una spugna. E cominciò a pulire delicatamente la mia vulva sfregando senza premere e solleticandomi a tratti; altrettanto fece alle mie cosce che allargai per facilitargli il compito. Tutte le cosce interne erano rosse, per via del sangue che vi si era depositato. Il mio sesso sembrava sporco ed appiccicoso e soprattutto, me ne accorsi per la prima volta, puzzava. Il droide a mano a mano che me lo ripuliva riusciva a restituirgli il suo colorito mulatto. Provai del piacere quando la spugna bagnata e detergente del droide mi venne passata tra lo spacco delle mie grandi labbra. Cacciai un sospiro quando il detergente e la spugnetta sfregarono il mio meato urinario rimasto incrostato lievemente dal sangue. Con quel solletico continuo urinai senza che nessuno, nemmeno il droide, ci trovasse niente di strano. Il droide si era fermato, e dopo un minuto riprese a ripulirmi. Ci vollero altri quattro minuti poiché estese la pulizia fino alle caviglie dove se ne era sceso quel sangue durante la mia escursione all‘esterno. A me sarebbero bastati trenta secondi. Era molto probabile che il droide fosse istruito dal Sorvegliante che gestiva anche l’infermeria. Ero ammutolita dalla sorpresa. Dunque era così che si diventava donne: con un’emorragia al sesso e tanto tanto sporcarsi di sangue che puzzava, intimamente. Il droide prese un’altra spugnetta a forma di stretto cilindro e me la introdusse di poco nella vagina, molto lentamente. Finì di pulirmi sempre lentamente. Il resto lo feci io d’istinto usando al meglio quella piccola spugnetta che sottrassi alle sue dita meccaniche per poi gettarla in terra senza che il droide se ne curasse. Infine una delle sue appendici prese un irroratore di antibatterico dal colore verde-azzurro che mi spruzzò mescolato con un pochino d’aria su tutto il sesso perché vi si diffondesse bene. La mia vulva conobbe il sollievo di quella piccola doccia rinfrescante. Mi ero alzata rimanendo seduta con le gambe a mezzo metro dal pavimento. Il droide mi porse gli assorbenti con delle mutandine nuove. Miss Dera mi disse come indossarli entrambi gesticolando vestita con un assorbente da lì, da dove trasmetteva lei. Poi mi sedetti con quella curiosa novità proteggente ed asciutta tra le cosce finalmente pulite. Miss Dera mi disse dallo schermo a cristalli liquidi con piccola videocamera che gli restituiva la mia immagine:

“Adesso, se ci riesci, alzati. Scendi piano e appoggiati al droide; ti accompagnerà nella tua stanza e riposati. Per oggi niente studio. Però da domani ci mettiamo sotto Koona. Non credere che te la scampi! Ah, un‘altra cosa Koona! Importante!”
“Sì?!”
“Tra nove ore devi cambiare quell’assorbente. Adesso io ed il Sorvegliante vedremo che scorta ce ne è qui alla base. Se non ce ne saranno abbastanza per coprire due anni dovremo riprogrammare alcuni personal fabricator per produrne un congruo numero, anche a scapito di altre cose. Mi segui Koona?!”
“Sì, Miss Dera!”
“D’ora in poi dovrai riciclare anche la cellulosa della carta e dei vestiti. Intesi?!”
“Miss Dera, io sarei stanca. Possiamo riparlarne stasera?”
“Certo Koona! Fai un buon riposo.”

Andai nel mio alloggio insieme al droide che mi sosteneva il braccio con uno dei suoi arti meccanici. Il mio cane Rasputin mi fece le feste in corridoio. Lo ignorai perché ero molto stanca limitandomi ad una carezza di sfuggita. Arrivata nella mia stanza indossai il pigiama come ero stata abituata fin da piccola con mamma. Per me quell’assorbente era qualcosa di nuovo. Ora almeno mi sentivo pulita. Mi distesi sul letto chiedendo in caso di emergenza un ologramma di Miss Dera. Rasputin si accovacciò sul pavimento accanto al letto. Feci cenno al sensore davanti al mio giaciglio che volevo le luci abbassate. Vennero abbassate anche in corridoio. La porta era inutile chiuderla. I droidi erano controllati dal Sorvegliante, e programmati per stare sempre ad almeno un metro e mezzo da un essere umano eretto in piedi. Provai ad addormentarmi. Ora finalmente potevo abdicare alla realtà. Volevo solo riposare. Dormii bene fino alle ore diciotto più o meno. Per svegliarmi il Sorvegliante aveva diffuso musica dal volume progressivamente più alto. Sbadigliai e ripresi conoscenza con l’ambiente esterno. Mi toccai istintivamente le parti basse e scoprii l’intruso; quella nuova presenza dentro le mie mutande. Naturalmente dovevo anche urinare e così mi diressi al bagno. Avevo ripreso le mie forze e istintivamente fatto cenno al droide che non era necessario che mi accompagnasse. Giunta al bagno mi calai le mutandine e mi sedetti sulla tazza. Guardai l’assorbente ed al centro aveva una macchia rosso-nera: la stessa che avevo notato nelle mie mutandine di ritorno dall’esplorazione. Era indubbiamente estesa. Urinai e mi ripulii poi con un battito di mani chiamai il droide che arrivò in otto secondi. Gli diedi l’assorbente e gli dissi:

“Prendimene un altro! Questo è andato!”

Il droide andò a prendermene un altro pulito che prontamente indossai. Quindi mi ricordai che dovevo fare delle cose: passare l’aspirapolvere nella stanza del refettorio e pulire il tavolo delle riunioni. Non ero tenuta a farlo. Le due corvée mi erano state annullate visto il mio stato di choc di poche ore prima. Adesso io sentivo il bisogno di dare una ripulita. Mi diressi nella stanza del refettorio. C’era rumore. Un rumore che conoscevo: Lì vidi i droidi che stavano aspirando la polvere. Ribattei le mani e si fermarono. Poi rivolta verso l’oculare del Sorvegliante dissi ad alta voce:

“Computer! Disinserisci i droidi! Pulirò io qui. Dì loro di portarmi straccio e spazzolone da pavimenti.”

Il Sorvegliante s’intromise:

“Ben ritrovata Koona! Riposato bene allora?!”
“Sì, bene grazie!”
“Ne hai davvero voglia Koona?!”
“Sì, assolutamente. Posso farlo io. Così avrò qualcosa da fare fino all’ora di cena.”
“Come preferisci Koona!”

I droidi che avevano atteso in stand-by vennero spenti del tutto. Si ritirarono in un angolo in attesa di nuove mansioni. Uno solo andò a prendermi il necessario. Per la prima volta lo trovai decisamente buffo. Attendevo ancora in pigiama quando il Sorvegliante mi rivolse una domanda ancora intanto che ritornava il droide:

“Non preferiresti studiare Koona?! Domani Miss Dera t’interrogherà. Prima prendi la licenza media meglio è.”
“No; preferisco lavorare; io di persona ! Così risparmiamo i droidi. Consumano energia.”
“A proposito di droidi: ho notato recentemente durante la manutenzione programmata che i numeri 2, 3, 7 e 9 hanno subito d’interventi di cancellazione della loro memoria recente dopo l’attività all’esterno della base. Ne sai niente Koona?”
“No. Perché dovrei?”
“Perché il 3 ed il 7 ti avevano accompagnata fuori. Secondo le mie rilevazioni ben oltre la collina del settore C-4 confinante con il C-3 dove sei stata tu.”
“Ho fatto una piccola gita fuori programma, lo ammetto. Ma della memoria non ne so nulla.”
“Sarà, Koona ! Ma le tue espressioni facciali suggeriscono che la mia domanda ti dia imbarazzo.”
“Niente del genere Sorvegliante!”
“Comunque il battito delle mani per fermare i droidi era un gesto concordato con tua madre e tuo padre. I droidi ora reagiscono ai miei ordini. Se ti sembra di poterli comandare anche te con un battito di mani è perché io lo consento Koona.”
“Va bene Sorvegliante, ho compreso.”

Il Sorvegliante mi stava tenendo sotto interrogatorio ed il droide che avevo inviato a procurarmi il necessario per le pulizie a mano ancora non arrivava. Sicuramente Il Sorvegliante lo aveva momentaneamente fermato. “Egli” proseguì:

“D’ora in poi non sarà più possibile cancellare loro la memoria di quanto eseguito. E durante le esplorazioni all’esterno se non percepirò costantemente, ripeto costantemente, il loro segnale di operazioni normali ne interromperò il funzionamento e ti dimezzerò i pasti Koona. Privilegerò le sole calorie sul sapore e sulla varietà. Oltre a non autorizzare più altre attività esterne. Manderò solo i droidi a ricevere le capsule. Sigillerò la base. Farò solo ciò che è necessario per tenerti in vita e nulla più.”

Da faccia tosta continuavo a chiedergli d’illuminarmi sull’accaduto:

“D’accordo ma che è successo Sorvegliante?”
“Koona! Alcuni di quei droidi erano, cioè sono istruiti per operare nel braccio 3: quello con il reattore nucleare a fissione. Se quel reattore non riceve la sua manutenzione ogni due settimane, quella manutenzione che a te è comunque proibito sia di occupartene che di conoscerla nei particolari, è delicata per ragioni legate alla radioattività. Chiedi pure a Miss Dera o al Dottor Waeldyma cosa sia la radioattività! La particolare manutenzione del caricamento in sicurezza delle pastiglie di uranio e plutonio gli esseri umani non possono farla esponendosi personalmente al pericolo della radioattività. In assenza di adulti responsabilizzati dal regolamento di missione, o in subordine dalla legge terrestre di navigazione spaziale, il braccio 3 è solo per i droidi! Intesi Koona?!”
“Ma tu Sorvegliante non mi fai accedere troppo spesso neppure nel braccio 2!”
“Me l’ha ordinato il dottor Waeldyma! Ho ordinato ai droidi di eliminare della muffa che si trova in alcuni cibi a lunga conservazione. Ma si ripresenta! Sembra inevitabile. Tu non hai ancora un sistema immunitario perfettamente formato ed efficiente. Un’infezione gastroenterale non saprei come fronteggiarla. Oltretutto abbiamo una scorta di antibiotici estremamente limitata. Tu queste cose non le sai perché non apri di persona i box delle capsule di soccorso. La parte noiosa la fanno i droidi per te. Un anno fa due capsule di medicinali inviate dalla nave del dottor Waeldyma non sono giunte a destinazione. La prima si è disintegrata perché è entrata con troppa velocità nella nostra atmosfera densa. L’altra purtroppo l’ho persa io durante l’avvicinamento a Saturno. Non sono riuscito a ritrovarne il segnale dopo una sua breve interruzione. Capisci la situazione Koona?! Qui ogni droide deve fare quel che è programmato come è già programmato. La peggior cosa che possa capitare qui è che si rimanga senza energia per un fermo cautelare del reattore superiore ad una settimana!”
“Cosa mi accadrebbe?”
“Saresti veramente sola! Dovrei ridurre al minimo le comunicazioni ologramma con Miss Dera da Marte 3 e ridurre le comunicazioni con l’astrocargo militare del dottor Waeldyma alle sole comunicazioni voce nella misura di cinque minuti ogni settantadue ore. Dovrei ridurre ad un quarto dell’attuale le tue comodità, che dai per scontate o dovute, come luce a cenno delle dita o doccia calda in qualunque momento. Dipendiamo dal reattore Koona! Ti prego, non dimenticare che dovrei spegnermi anche io.”
“Anche tu?”
“Mi spiego: rimarrei acceso in Modalità Minima di Sorveglianza, e non potrei più fare conversazione con te. Sono dei complessi algoritmi di programmazione che mi consentono d’interagire con te come fossi un umano. Ma richiedono pur sempre energia. Io non sono umano. Io non ho umore. Io non provo sentimenti. Posso anche fare a meno della conversazione. Io ti sto dietro secondo la mia programmazione. Chiedo anche consigli ed aggiornamenti a Marte 3; ma da loro devo essere indipendente. Non possono spegnermi dal di fuori Koona! Tutto questo però ha un prezzo!”
“Quale?”
“Io consumo da solo il 35% dell’energia di tutta la base Koona! Se tu fossi capace realmente di gestire alcune cose senza nascondermele potrei abbassare un po‘ il livello di guardia, e quindi di consumi.”
“Non capisco, è tanta?!”
“Se ci fossero i tuoi genitori interagiresti con loro principalmente; essi ti sorveglierebbero ed io potrei consumare di meno; assorbirei intorno al 22% più o meno. Tenerti compagnia invece vuol dire interazioni più complesse e più veloci! E ciò si traduce in più produzione di calore nei miei circuiti di silicio e nelle mie celle atomiche; questo calore va a sua volta va smaltito con sistemi artificiali. Quindi consumo anche altra energia per raffreddarmi.”
“Sei stato chiaro Sorvegliante. Ho compreso.”
“Buon lavoro Koona. Il droide che aspettavi è arrivato.”

Anche voi vi chiederete cosa avevo fatto con i droidi: beh mi ero fatta aiutare a costruire una cosa tutta per me oltre la collina davanti al braccio 1. Il Sorvegliante me l’avrebbe senz’altro impedito per motivi di sicurezza ed io ho cercato di non farmi scoprire cancellando (lo avevo visto fare a mamma) la loro memoria dopo l’uso. Comunque il Sorvegliante se n’è accorto ed ora dovrò stare di più in guardia. Con la tabella dei consumi fu molto persuasivo. Anche qualche ora dopo non riuscivo a togliermi dalla testa il fermo cautelare del reattore per una settimana. Comunque ne sapevo abbastanza per fare a meno dell’aiuto dei droidi. Solo che ora, pensavo mentre passavo l’aspirapolvere, dovrò fare da sola. Avevo scoperto da sola la mia sessualità ed adesso ero decisa a continuare ad esplorarla da sola, con buona pace di Miss Dera e del Dottor Waeldyma! Ehi, quanti modi di dire sto imparando da voi terrestri! Mentre pulivo il tavolo delle riunioni (dove non si doveva riunire nessuno) meditavo il passo successivo. La costruzione di un modello maschile di essere umano. La parte facile l’avevo già fatta. I fabbricatori computerizzati della base, cinque in tutto, erano tutti funzionanti. Sulla rete Cosmoz avevo preso delle informazioni circa il modellismo umanoide. Non ero in grado di costruire organi umani; solo pupazzi umanoidi inanimati abbastanza piccoli. Troppo piccoli. Solo che quando iniziai a chieder notizie sul pene maschile il Sorvegliante mi ha tolto Cosmoz. Non ero abbastanza grande secondo lui. Oggi alla fine di quei due lavori chiesi al Sorvegliante un’ora da dedicare alla storia dell’arte:

“Cosa vorresti Koona?”
“Sculture di umani in azione dell’antichità. David di Donatello, oppure un bel Discobolo. Hai niente su Michelangelo Buonarroti? Secondo Miss Dera è stato il più grande dei periodi antichi!”
“Ecco, trovato! Vita di Michelangelo, può andarti bene in olofilm?”
“Sì.”

Mi misi a vedere la vita di quel bravo scultore italiano per circa un’ora quando pensai d’interrompere l’olofilm per chiedere al Sorvegliante:

“Abbiamo un qualche olofilm sulla sbozzatura? Vorrei saperne di più. Mi sono incuriosita quando Michelangelo voleva insegnare a sbozzare al suo allievo, il Gianbologna!”
“Si tratta della fase iniziale dello scolpire, anche se a monte c’è anche una certa scelta del materiale…”

Era meravigliosa l’Italia, la sua Firenze, ed anche quel periodo storico con quelle sue vesti variopinte. Ero innamorata di quella penisola dell’Eurasia così ricca di arte e di monumenti. L’arte mi piaceva, ma mi piaceva soprattutto il panorama multicolore del tutto diverso da quello che dovevo sorbirmi tutti i giorni della mia vita. Quando sentii parlare in letteratura di Dante Alighieri nessuno più di me poteva sapere cos’era l’inferno. Io ci abitavo. Comunque venni accontentata e potei vedere dei documentari sulla fase della sbozzatura nella quale la scultura prendeva forma grazie ai colpi di scalpello mirati dell‘artista. Pensai, a sogni e sceneggiato terminati, che qui alla base gli strumenti non mancavano, ed anche Titano avrebbe fornito la materia prima. Solo che per la lisciatura non sapevo come regolarmi. In mente l’idea mi era già balenata ed il Sorvegliante ancora non aveva capito. Voi invece credo di sì. Dato che non avevo uomini, me ne sarei scolpito uno io, di persona e senza l’aiuto dei droidi, i quali temevo, sarebbero stati disinseriti dal Sorvegliante se li avessi adibiti a certe incombenze; dopotutto scolpire la pietra consuma energia, e non poca! Tuttavia dopo qualche ora di sogni ad occhi aperti mi venne in mente che per scolpire un uomo a dimensioni naturali con la roccia di Titano ci sarebbe voluto tantissimo tempo ed una certa fatica; per cui ridussi il mio futuro lavoro alla scultura di quell’organo così particolare che il Sorvegliante non mi faceva mai trovare neanche su Cosmoz sorvegliando la mia navigazione personale. Delle sue dimensioni non ne avevo una vera idea, dato che nelle statue era riprodotto abbastanza piccolo. Ed io ragionavo: se entra dentro la donna, dentro di me, dev’essere per forza più grande. Ancora non sapevo che dovesse essere turgido, un termine per me nuovo dal significato oscuro. Dai PF non potevo farmelo fare. Il Sorvegliante temevo che me li avrebbe disattivati quando fosse venuto a conoscenza della natura dell‘oggetto. Andai nella sala degli attrezzi onde procurarmi i mezzi per scolpire: martello (ve ne erano di tutti i tipi) ed una particolare chiave di sbullonamento che terminava con una punta rettangolare, più o meno come uno scalpello di quelli che avevo visto in olofilm. In teoria erano attrezzi pericolosi per la mia età; comunque il Sorvegliante non ebbe a ridire quando li nascosi nella sala degli attrezzi, nella quale trovai anche la materia prima: delle scaglie di roccia titaniana che papà o mamma dovevano aver prelevato per gli scopi inerenti la missione. La trovai in due scatole modulari in attesa di essere imbarcate e spedite verso la Terra probabilmente. La mia scelta andò su una scaglia di roccia grossomodo cubica da mezzo metro di spigolo. Pesava moltissimo per cui mi feci aiutare dal droide a deporla sul tavolo da lavoro. Poi, ordinato al droide con un mio cenno di ritirarsi, presi martello e scalpello (di fortuna, espressione che ho imparato dagli olofilm terrestri) ed iniziai a sbozzare ciò che avevo in mente: il fallo maschile. Come sbozzatrice mi resi conto quanto poco valessi. Scolpire la dura roccia era più faticoso di quanto pensassi. Per puro caso dirigevo i miei colpi con criterio seguendo le venature della roccia già intagliata dai miei genitori. Come prima applicazione non era male: contavo nei prossimi giorni di ottenere un primo sbozzo di fallo lungo circa una ventina di cm e con una sezione circolare di tre o quattro (con buona pace di Miss Dera che mi aveva insegnato alcuni elementi di geometria piana). Da quel giorno cambiai: la mattina seguivo gli insegnamenti di Miss Dera, al pomeriggio studiavo tre ore, quindi prima di cena andavo in officina e lavoravo alla mia scultura. Mi facevo proiettare dal Sorvegliante documentari sulle tecniche di rifinitura e lucidatura degli sbozzi. Nello scolpire il mio fallo personale non ero stata molto precisa: il corpo del fallo tendeva a formare un arco verso l’alto; scoprii guardando le statue degli antichi che dovevo dotarlo di una cappella un po’ più grande del corpo quasi cilindrico. Nelle rifiniture stavo rovinando quasi tutti i cacciaviti che il droide che mi seguiva prendeva, e li portava via a rimetterli in sesto. Dopo due mesi di studio conseguii la mia licenza media notificata alle autorità da Miss Dera, quindi potei accedere agli studi superiori. Questa volta tra le materie avrei trovato pure l’educazione sessuale. Miss Dera mi fece una panoramica dell’accoppiamento: mi parlò del desiderio di compagnia, della ricerca dell’altro sesso, dell’incontro, dell’affetto, e del sesso. Molte di quelle cose le immaginavo già da sola. Sul sesso potei avere le conferme che cercavo. Alcune cose le avevo intuite esplorando il mio di sesso. Seppi lo scopo dell’eiaculazione e decisi di correre un rischio: il mio fallo di roccia era completo tranne per qualche particolare: non avrebbe potuto eiaculare mai. Siccome scolpire era un conto, ed eiaculare un altro, ebbi l’idea di chiedere l’aiuto di un droide: spiegai visivamente e a gesti cosa mi aspettavo che facesse, ed il droide (consumando poca energia) praticò il buco con molta decisione scavando un vero e proprio cunicolo da un capo all’altro del mio fallo, al quale mancavano i testicoli: mi riservavo di scolpirli in un secondo momento. Applicai alla mia invenzione un tubicino con un serbatoio, e verificai il funzionamento del cunicolo facendovi scorrere dell’acqua attraverso di esso. Il Sorvegliante “vedeva” quello che accadeva in sala officina, ma non disse nulla fino a quando non portai il fallo fuori dalla stanza per metterlo in camera mia. Da qualche tempo avevo notato che i droidi lo inquadravano spesso con il loro oculare artificiale; e i droidi rispondevano al Sorvegliante, che mi aveva spiegato, li incaricava di rispondere anche a me; l’ultima parola ce l’aveva lui però…in corridoio il Sorvegliante mi chiese:

“Cosa dovresti fare con quella riproduzione del fallo maschile Koona?”
“Studiarne in funzionamento per la lezione di scienze umane e naturali.”
“Immagino te l’abbia suggerito Miss Dera.”
“No, assolutamente. Miss Dera me ne ha parlato, ma non arriva a tanto. Si tratta di una mia iniziativa. Miss Dera, è sempre un po‘ troppo pudica; non c‘entra niente con questo modellino.”
“Capisco. E cosa ci fai con quell’oggetto allora?”

Disinvoltamente mostrai la mia scultura, ancora grezza, con il buco che avevo fatto praticare dal droide ed il tubicino di gomma che io stessa vi avevo applicato.

“Vi faccio scorrere l’acqua attraverso, grazie al tubicino di gomma che ho montato io stessa, per studiare l’apparato urogenitale maschile, Sorvegliante.”
“Capisco.”
“Computer!”
“Dimmi Koona!”
“Potresti far costruire dai fabricator un sacchetto che dovrebbe simulare la vescica? Mi servirebbe di una trentina di cm cubici.”
“Va bene me ne occuperò senz’altro. Per quando ti servirebbe Koona?”
“Boh, anche domani sera.”
“Un sacchetto di polietilene può andar bene?”
“Sì, ma resistente e con interruttore di rilascio attraverso il tubo, naturalmente. Puoi farcelo mettere?”
“Rilascio a gravità ?”
“Sì, ma se è possibile anche a pressione. Una piccola pompa con interruttore elettrico.”
“Capisco. Se abbiamo abbastanza polietilene da riciclare è questione di un paio d’ore. Incarico subito i droidi della ricerca.”
“Grazie Sorvegliante.”
“Ben felice di fare qualcosa per te Koona!”

Era strano che il Sorvegliante fosse così collaborativo. Se era un computer intelligente nelle prossime ore mi avrebbe fatto sottrarre il fallo. Era abbastanza rifinito, ma ancora da lisciare. In officina avevo cercato della carta abrasiva senza trovarla. Probabilmente dovevo imparare ad usare una mola montata su supporto rotante ad alta velocità. Ne avrei parlato al più presto a Miss Dera, -pensai- come educazione tecnica. Avrei imparato a molare. Certo mi ero quasi tradita pur di apparire disinvolta al Sorvegliante: il rilascio a gravità era normale chiederlo; ma io gli ho chiesto d’installare anche una piccola pompa per conferire pressione al fluido di simulazione. Era sottinteso che avrei usato acqua. Mah, sarei stata a vedere che succedeva. Nel frattempo andai nei miei appartamenti privati per nascondere la mia scultura. Da quando avevo preso la licenza media avevo diritto ad un po’ più di privacy, e nella mia stanza su alcune cose intime il Sorvegliante non m’interrogava più rimandando le domande al corridoio come fosse un mio amico d’incontro. Trascorrevo le ore studiando. Non facevo alcuna fretta al Sorvegliante per il sacchetto di polietilene che doveva simulare la vescica. Un pomeriggio di cinque giorni dopo il Sorvegliante mi disse che il serbatoio era pronto. Me lo fece portare dai droidi dopo la lezione con Miss Dera. Presi il sacchetto e me lo portai in camera mia senza nasconderlo come avevo fatto con il fallo. Ne esaminai la robustezza e vidi che gli era stata messa una piccola pompa esterna subito dopo la fine del sacchetto prima dello svolgimento di quel tubo di gomma che volevo collegare al canale del fallo scavato dal droide con il suo micro trapano. Riempii di acqua il sacchetto e provai la pompa esterna. Funzionava. Il getto d’acqua venne espulso con un certo vigore. Studiai e Miss Dera era felice di aiutarmi secondo i miei desideri. Nei giorni successivi i droidi mi approntarono la mola montata sul supporto rotante che avevo chiesto e mi vennero proiettate le istruzioni su come si usasse. Portato il fallo in sala officina provvidi a lisciarlo al meglio delle mie possibilità. In tre ore realizzai un discreto lavoro; avevo tra le mani: un fallo eretto, duro, curvato e pronto per far godere una ipotetica vagina. Gli collegai per la prima volta la vescica artificiale e lasciai scendere il liquido acqua per gravità. Senza volerlo feci una lezione di fisica elementare: potei notare che quanto più in alto tenevo il tubo con la vescica di polietilene, tanto più velocemente scendeva l’acqua dal buco sulla cappella. Provai anche la pompa e ne rimasi entusiasta. Lo schizzo arrivava ben in là. Avevo approntato in sei settimane un autentico giocattolo, forse un po’ pesantuccio, per gli esperimenti di auto erotismo. Mi portai in camera mia quel fallo prendendolo per la parte cilindrica e ridevo tra me e me pensando se anche il membro dell’uomo si prendesse in quel modo. Comandai al mio fedele Rasputin di aspettarmi fuori dalla mia stanza, e mi chiusi la porta dietro di lui. Arrivata in camera mia lo deposi sul mio letto. Mi dissi: in fondo sono sola, chi potrebbe mai proibirmi di provarlo?! Mi calai immediatamente la tutina inferiore e rimasta a cosce e gambe nude mi distesi sul letto impugnando quel fallo di roccia dura. Me lo passai più volte sopra le mie mutandine solleticandomi continuamente. Notai che la vulva cominciava a gonfiarsi e l’orlo delle mutandine sembrava ogni istante più insufficiente. Spostando la cappella e seguendo il solco del mio spacco spostavo continuamente gli orli delle mutandine, ora il destro, ora il sinistro, fino a quando non si sgualcì del tutto. Aumentai il mio respiro e questa volta volevo sentire il fallo, con tutta la sua durezza, sfiorarmi le mie carni intime che avevo imparato a toccare per darmi piacere. Purtroppo benché fatto di roccia non era né caldo, né pulsante. Mi venne un’idea diabolica: chiamai il mio droide con il cenno di sempre, e gli chiesi a voce come ero solita fare:

“Portami del latte; riscaldalo bene prima. Lo voglio a quaranta gradi di temperatura circa. Sotto i quaranta non me lo portare!”

Il droide si voltò ed andò a prendermi quanto richiesto. Intanto continuavo a sfiorarmi le intimità e per farlo meglio che potevo mi lasciai cadere in terra le mutandine. Colsi l’occasione per passarmelo anche tra le cosce e vidi che la mia pelle in talune zone delle mie cosce era decisamente sensibile. Provavo piacere a farmi toccare da quel coso. Mi passai tutta l’asta sulla vulva, tra le cosce, sull’inguine e provai anche a poggiarlo sul mio ano: su quel buco da cui entrò il tampone anti vermi su istruzioni del Dottor Waeldyma. Sfiorandomi anche l’ano mi sentivo intrigante, ma sapevo anche, intuendo, che sarebbe diventato doloroso. Ero decisa a procurarmi piacere dal sesso, soprattutto dal mio sesso: l’unico da soddisfare in tutta la base spaziale. Ci pensai diversi secondi finché non arrivò il droide con il latte. Presi il contenitore di quel latte e ne vuotai il contenuto seminuda dentro quella falsa vescica dopo aver aspettato dei minuti per cautela: mi avvidi che quaranta gradi erano troppi…aspettai che scendesse a trenta o poco più. Poi congedai il droide facendogli cenno di uscire fuori. Mi alzai dal letto seminuda sotto, con i peli della vulva abbastanza disordinati e chiusi la porta dietro di me. L’oculare del sorvegliante nella mia stanza sembrava spento. Incredibilmente il Sorvegliante stava rispettando la mia privacy. Tornai nel mio letto e ripresi la masturbazione di prima (ora che conoscevo il significato della parola). Non avevo la benché minima idea su da quale parte introdurlo; da sotto, o da sopra. I due termini erano in realtà indifferenti. Nel tornire il glande ero stata, - non so io stessa perché -, abbastanza simmetrica; mentre il droide in assenza di mie istruzioni specifiche scavò il canale per il tubo di gomma dritto. Presi del nastro adesivo dalla forte presa (qui alla base ce ne erano diversi rotoli) e fissai il sacchetto-vescica un metro più in alto al muro verso il lato corto del cubicolo. Rivolsi anche contro quella porzione di muro il mio bacino roseo mulatto e aprii le gambe davanti ad esso. Afferrai il fallo ritenendo che fossi nella migliore posizione per … - non ci crederete! - Sì! Proprio penetrarmi da sola! Da quel poco che avevo intuito di mio padre e mia madre che si appartavano, dai discorsi di Miss Dera, e dagli olomuvj scaricati da Cosmoz (fino a quando il Sorvegliante non me li ha censurati) perché io come donna, giovane donna provassi piacere occorreva che il pene maschile entrasse nella mia vagina. Solo che di pene maschile qui su Titano non ce n’era neppure l’ombra. Per questo me ne ero costruito uno io, abbastanza somigliante. Ero una ragazzetta ribelle. Chiaramente risentivo della mancanza di mia madre e mio padre che purtroppo mi erano premorti. Il megacalcolatore faceva di tutto per non farmi sentire sola e purtroppo anche sorvegliata. Io però da qualche tempo sperimentavo da sola il piacere, quello vero, il piacere che derivava dalla sensazione di potere del libero arbitrio. Non ero sicura che volevo un uomo. Ero sicura però che desideravo darmi del piacere. Purtroppo quel fallo era freddo, mentre la mia mano con la quale mi carezzavo era piacevolmente calda. Ora quasi più nulla si frapponeva tra il mio fallo giocattolo e la mia vulva vera, biologica, di pura e calda carne che sudava e puzzava sudando. Quasi più nulla se non il freddo di quella roccia con cui me l’ero scolpito. Mi venne un’idea: accesi il radiatore e scaldai quel fallo dopo averlo disconnesso dal tubicino di gomma. Ce lo lasciai una quindicina di minuti perché assorbisse il calore necessario. Intanto mi carezzavo la vulva come all’inizio quando scoprii il piacere della masturbazione. Il piacere di questo momento apparteneva solo a me. Intanto il radiatore a muro scaldava il mio fallo. Ero decisa a farcelo entrare. Decisi di correre un bel rischio dato che Miss Dera non mi aveva ancora parlato dell’imene e dell‘importanza della sua preservazione. Afferrai il fallo e valutato che era abbastanza caldo lo ricollegai al tubicino di gomma e finalmente presi la decisione di farlo entrare dentro di me. Alzai il bacino offrendo il panorama dei miei due pertugi al muro bianco della mia stanza. Feci avanzare il glande poco oltre l’ingresso e lentamente con cautela lo portai ad incontrare l’imene. Per la prima volta nella mia vita mi sentivo piacevolmente invasa, in senso pieno, non come quando entrano un paio di dita che più di un pochino di piacere superficiale non danno. Ben sei cm di quel fallo roccioso si erano fermati prima di avanzare. Li avevo fermati io. Avevo la sensazione che avanzare oltre l’imene sarebbe stato doloroso come quando lo si incontrava. Per lo meno a premere un pochino di dolore come un piccolo taglio lo sentivo. Avevo poi una certa fobia per il sangue che usciva dal sesso visto lo spavento che avevo preso con la mia prima mestruazione. Il Sorvegliante stava rispettando la mia privacy adesso; tempo prima ero riuscita a scaricare un olomuvj di una coppia di persone che faceva quelle cose lì - pensai vedendoli nudi la prima volta - e nel fare quelle cose lì il coso di lui entrò dentro la pipì di lei che era di quelle senza i peli. Tutta la sequenza sarà durata sei o sette secondi; abbastanza perché focalizzassi quella scena così turbante e così sbagliata per la mia giovanissima età; poi ecco che intervenne subito il Sorvegliante: Fine della olomuvjata e cancellazione immediata. Non dalla mia mente però. Non sono più riuscita a ripescarla quella scena; né altre simili. Io come tutte le ragazze, che sulla Terra chiamate teen ager, ero solo curiosa. Ma il Sorvegliante era stato programmato per proteggermi anche se all’inizio quella cosa gli era sfuggita. Poi a partire da quel momento con me fu sistematico nell’impedirmi di aver a che fare con oggetti oblunghi, fallici. Neppure gli ortaggi coltivati dai droidi mi venivano serviti interi. Sempre a fettine, o tritati come le carote.

-continua-
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