incesto
Aymone... 1a p. (...Alfredo e la Morelli...)
di sexitraumer
28.10.2009 |
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"“Ahnnnnnn! Ohhhhhhh! Uhmmmmm!”
Aymone poté accorgersi quanto fosse semplice per quella donna far entrare quel vitreo quasi fallo ancora intriso di acqua..."
Il mondo di Toraldo & Olivina, Terra d’Otranto, secolo XVIEro sul punto di arrivare al paese, e come usavo fare da scapolo, per precauzione d’intesa con Olivina, presi anzi prendemmo alloggio nella locanda in cui anni prima potei avere veramente mia sorella Olivina la prima volta. Da quel magnifico pomeriggio erano passati degli anni, e sia io che Olivina eravamo indubbiamente invecchiati. Vi starete chiedendo perché parlo al plurale: ebbene non ero solo più vecchio; ero anche sposato: mia moglie si chiamava Francesca, una graziosa donna delle parti mie, nipote del mio maestro in giovinezza Don Grico De’ Greci. Era il momento di presentarla alla famiglia di Ranuccio e Olivina. Mio nipote si era fatto grande e vederlo cresciuto mi faceva uno strano effetto. Giunti in prossimità della locanda io e mia moglie scendemmo dalla piccola carrozza con cui avevamo coperto il viaggio. Eravamo a maggio e c’era un bel sole. Il locandiere ci chiese se avevamo bagagli: gli dissi una sola cassapanca che venne scaricata dal locandiere con l’aiuto del suo garzone. Mi guardai intorno. La vita in paese procedeva tranquilla ed era quasi la mezza. Non eravamo tanto lontani dalla piazza del mercato. Il locandiere, notai, mi aveva riconosciuto come quel cliente con il vezzo dei travestimenti da nobile spagnolo di otto anni prima. Chissà come faceva a ricordarsi di me. Mi chiese chi fosse la donna che mi stava sempre accanto tenendosi al mio braccio qualunque passo facessi: - e chi doveva essere ? - naturalmente era mia moglie Francesca. Dopo i convenevoli del caso mi chiese quanto saremmo restati, e se volevamo pagare anticipatamente; naturalmente “volevamo” andava tradotto con “dovevamo” e chiesto il prezzo, e non volendo contestarlo, gli misi in mano un piccolo sacchetto con i ducati messi da parte per il viaggio. Il vecchio locandiere, visti i ducati, divenne radioso e si apprestò subito a darmi il resto. Lui non aveva una camera matrimoniale disponibile per cui fece affiancare dai suoi garzoni due letti individuali. Una volta lasciati soli in camera nostra, al primo piano con vista sul corso di palazzetti di bianco tufo, mia moglie mi disse:
“Io vorrei fare la pipì signor marito, potreste farvi portare un pitale? Sotto il letto non lo vedo.”
“Subito mia cara, lo chiedo immediatamente. Scendo un pochino.”
Andai a farmi dare un pitale e vedendo ch’era sporco e da poco usato reclamai dicendo che ce lo dovevano portare sopra i garzoni e ben pulito…
“…che mia moglie non ha da esser considerata a guisa di comune puta!”
Con quello ch’ebbi a pagare ne approfittai per maltrattare un pochino quei poveri garzoni in umile abito da lavoro:
“Perdonate signor Toraldo, noi non avevamo intenzione, lo puliremo e lo porteremo a voi immantinente. Potete salire se lo desiderate, tranquillizzatevi.”
Salii da mia moglie dicendole che avevo provveduto. Tuttavia ci fecero un po’ aspettare perché il garzone andò di persona a lavare il pitale alla fontana per il volgo in fondo alla strada. Potei notare che tornava di fretta verso la locanda.
“Allora mio signor marito, quando arriva questo pitale?”
“Scusate tanto moglie, se mi metto di guardia alla porta fuori, perché non la fate nel catino?”
“Perché quell’acqua con le rose mi serve per dopo Toraldo.”
“Avrei sete, vi dispiace se ne bevo un poco?”
“Fate pure Toraldo, ma al vostro posto non lo farei. Che ne sapete quando l’hanno messa lì. L’acqua della fontana sarà più fresca. Non è mica lontana…ma non fatemi guardar quell‘acqua che poi la pipì mi scappa…”
Contavamo i secondi che ci stava mettendo a risalire: alla fine eccolo il giovane garzone, con il pitale, ben ripulito e asciugato prima di salire per portarlo da noi. Per questo ci aveva messo tanto. Potevamo dire che splendesse. Il garzone lo consegnò, ed al mio cenno si dileguò. Preferii per il momento non dargli la mancia benché fosse stato abbastanza sollecito; tuttavia secondo me ce lo dovevano far trovare già in camera. Mia moglie quando fummo di nuovo soli mi chiese:
“Signor marito, compiacetevi di voltarvi, altrimenti non mi riesce!”
La mia consorte Francesca si sedette sulle ginocchia ben sollevandosi la gonna e poté alfine urinare. Io nel frattempo mi misi a guardare dei quadretti al muro della stanza ammirando dei piccoli rilievi in legno di mogano che riproducevano la Vergine Maria, suo figlio Nostro Signore Gesù Cristo, ed il Santo protettore del posto. Quando ebbe finito di vuotare la sua vescica Francesca si allontanò dal vaso, ed io dovetti allontanarlo da lei sistemandolo sotto il letto. Mia moglie teneva ancora la fessa pelosa in vista con la gonna rimboccata alla vita, poco al di sotto dell‘ombelico. Avevamo consumato la nostra unione già da qualche mese. Ora, ero come suo consorte nel pieno diritto di guardarla. Mia moglie vedendo che gliela stavo contemplando mi chiese:
“Signor marito?!”
“Ditemi Francesca, son…tutt’occhi!” - Francesca colse la mia ironia con un sorriso.
“Se guardate nella mia sacca dovreste trovare delle spugne chiare, me ne portereste una?”
“Dove la tenete?”
“Lì nel mio bagaglio. Son le spugne del mio corredo. Prendetele con cura!”
Rovistai tra le sue cose, e feci per darle la spugna. Mia moglie la rifiutò dicendomi:
“Non a me, marito! Pulitemi voi la fessa! Ch’io mi devo regger la gonna! Vi prego signor marito, bagnate voi quella spugna.”
Bagnai la spugna in quell’acqua con i petali di rosa, poi premetti la spugna contro la fica della mia consorte, ch’ebbe un sospiro per la spugna che le carezzava e bagnava la vulva dal pelo nero come i suoi magnifici capelli ricci. Feci sette od otto passaggi con la spugna, poi venutami la voglia per i sospiri di mia moglie e per averle visto gonfiarsi il seno mentre la toccavo, la baciai e lei subito schiuse le labbra per incontrare la mia lingua. Non poteva abbracciarmi perché stavolta voleva tener la fessa a mia disposizione nel caso volevo abbassarmi a leccarla. Ormai era pulita. Liberai io stesso le mani a mia moglie e le dissi:
“Andiamo sul letto Francesca.”
Mia moglie mi abbracciò libera dalla gonna. Indietreggiammo insieme fino al letto mentre ci baciavamo e lei vi si stese per prima. Io staccatomi dal bacio appassionato perché improvviso le rivoltai la gonna per aver di nuovo la vista sulla sua vulva, e stavolta anche sul suo grembo ed ombelico, e lei pronta allargò tosto le cosce; rivedendola tirai fuori io stesso la mia lingua per assaggiarla proprio lì. Mi chinai a leccare quella vulva rinfrescata dall’acqua di rose del catino, e la mia lingua fece del suo meglio per deliziare lì la consorte che, da parte sua, si stava slacciando la veste al petto pronta ad offrirmi la dolcezza del suo morbido seno con due capezzoli marroni ben carnosi e dalla forma regolare. Leccavo su tutta la sua (ed ora mia) fica. Per me ogni donna lì ha quel suo sapore di caldo, e di umido, che mi fece all’istante gonfiare il pisello. Fra poco l’avrei penetrata per inseminarla ed assicurare, speravamo, discendenza a Toraldo.
“Ahnnnn! Marito mio come leccate bene! Ringrazio, ahnnnn, la Provvidenza che mi fece , Ahnnn!, incontrare un maschio come voi marito mio!”
“Uhmmmm, slurp, uhmmm, sì buona la vostra fica, moglie mia! Uhmmmm!”
“Ahhnnnn! Ahnnnn! Amore mio Toraldo, ahnnn! Compiacetevi di smettere un istante! Vi prego!”
“Uhmmmff! Ma che succede Francesca!”
Staccai la testa da quella divina e disponibilissima vulva che ho sempre creduto mia di diritto dato che la devota Francesca mai ebbe a negarmela nell’ultimo mese. Me la concesse anche durante il malessere del mestruo. Certo quella volta non leccai… comunque mi ero fermato. Tenevo la mia testa sopra il suo bacino.
“Signore Iddio perdonatemi per questo mio piacere! Vi prego fate che resti incinta! Voglio dare figli a Dio ed al marito mio!”
Mia moglie Francesca si fece il segno della Croce, poi mi chiese:
“Fatevelo anche voi signor marito!”
“Ma…”
“Fate come vi dico! E che il Signore ascolti le nostre preghiere!”
Non c’era da discutere. Francesca, era credente e timorata di Dio e tanto desiderava restare incinta. M’inginocchiai sul letto sollevando il torso ed il capo e mi feci anch’io il segno della Croce. Dopo averlo visto Francesca mi disse:
“E ora fatemi vostra!”
Cercò con un abbraccio la mia testa onde scambiarci i baci con i nostri seni quasi del tutto scoperti. Poi mentre io mi apprestavo a baciarle il collo ed a scendere sul suo seno, lei mi prese il membro quasi eretto in mano per deliziarlo un po’ con la mano calda e femminile. Mentre la baciavo delicatamente leccandola e sfiorandola con le labbra Francesca mi disse tra un rantolo e l’altro:
“Abbiamo, ahnnnn, pregato il Signore, Toraldo. Vi prego, ahnnnn, perdonatemi se non ve lo prendo in bocca, ahnnnn, so che amate quella cosa. Ma ora facciamolo secondo morale! Ahnnnn! Aspettate di esser pronto, e poi mettetelo dove dovete!”
Il mio cazzo si era ormai drizzato per il gentil corpo e la gentil voce della mia consorte. Entrai dentro mia moglie, e ne colsi calore e piacere con la punta della cappella. La sua vagina dentro era molto piacevolmente umida e del pari piacevoli erano i suoi respiri. Non so se aveva avuto il tempo di bagnarsi con i miei colpi di lingua. Certo che con il fervore religioso interruppe quei magnifici assaggi. Ora invece battendo, battendo, battendo sentivo il calore di una vulva gentile come la sua padrona; naturalmente anche mia moglie Francesca mi bagnava il glande con la sua vagina eccitata dal mio generoso membro. Ero convinto, o almeno mi piaceva pensare, che Francesca non fingesse con i respiri. Mia moglie era una donna dagli umili modi; quella però era una tattica; in realtà era una donna molto intelligente e ferma nei suoi propositi. Stava godendo con garbo: i suoi primi rantoli erano sussurrati; servivano anche a stimolare i miei baci per il suo viso tutto; il desiderio della sua pelle ce l’avevo e continuai a baciarla; solo dopo un po’ dei miei colpi più impegnati i suoi respiri divennero più decisi. Cominciavo ad alzare il livello del mio desiderio di lei a mano a mano che la sua fica diveniva sempre più calda e bagnata siccome brodo. Cercai la sua lingua, il suo alito, e la sua saliva; tutta la saliva che potevo toglierle per poi ridargliela e così incrociando le nostre lingue. Francesca doveva anche prendere fiato e dopo aver fatto scorta di aria mi baciò appassionatamente e venni copioso nella sua fica. Mi stringeva l’abbraccio ad ogni sparo di sperma facendolo seguire da un altro bacio subito dopo. Le diedi il seme in abbondanza credo. Poi restammo congiunti e abbracciati per riposare dopo il nostro legittimo coito. Parlammo un po’ nel letto ancora abbracciati come fosse l‘estasi:
“Signor marito!”
“Ditemi moglie!”
“Signor marito, quello che voglio ora è darvi un figlio! Risparmiatevi il seme per il mio utero! Quello che vorrei chiedervi è di non disperderlo nel mio retto tutte le volte che vi viene voglia all’improvviso.”
“Vi fa così male quando entro dietro?!”
“Io vi amo signor marito. Del male che mi fate entrando lì son felice lo stesso! Si fa grandissimo peccato, forse anche mortale, ma siamo tra noi due! Vi confesso che certe volte vorrei persino bermelo tutto il vostro sperma, ma resisto perché voi signor marito dovete inseminarmi lì dentro. In questo mio grembo havvi a nascere creatura. Portate pazienza se da qualche tempo non vi faccio fellatio, e neppure mi lascio fare sodomia. Voglio restare incinta marito mio! Apprezzerete che io voglia darvi dei figli, spero!”
Mia moglie Francesca mi baciò dopo essersi giustificata per la mancanza di quel piacere di dominazione col sesso che da lei, seppur mia moglie, non avevo potuto trarre ultimamente.
“Pazienterò Francesca, abbiamo ancora molto tempo; non abbiate timore! Non andrò con altre donne per i pertugi di cui parlate.”
“Signor marito, quando torniamo vi darò modo di rifarvi! Finché siamo qui però facciamolo secondo natura! A pomeriggio andrò a pregare nella Chiesa Madre di qui. So che la messa non vi piace troppo. Beh, se non gradite accompagnarmi, andrò da sola. Mi date il permesso in quel caso? Se non vorrete darmelo però vi prego, non fatemi cadere troppo nel peccato!”
“Avete il mio permesso Francesca.”
Nel frattempo tornato a casa dalla scuola il giovane Aymone chiese ed ottenne dalla madre il permesso di andar a giocare fino all’ora di pranzo con il paro suo Alfredo; sarebbe stato via un’ora circa. Con Alfredo, popolano figlio di contadini a salario, era amico di vicolo. A cinquanta passi dal vico di Alfredo c’era un altro vico che finiva su un muretto facile da scavalcare: era alto dove intero poco più di sette piedi. I due ragazzi si erano dati appuntamento al muretto con la breccia, posto che dietro racconto di Alfredo, prese interesse anche per Aymone. Solo una volta che furono giunti lì Alfredo chiese ad Aymone:
“Allora li hai i soldi?”
“Ecco, questi sono! Prendili!”
Alfredo prese i soldi dando una rapida scorsa onde contarli fra le dita. Dovette essere soddisfatto perché li intascò prontamente, quindi si abbassò incrociando le mani a mo’ di scaletta. Aymone si arrampicò e salì fino a raggiungere la breccia del muro. Alfredo era più alto e non aveva bisogno di niente, se non della mano di Aymone che era già dall’altra parte. Aymone esordì:
“Che facciamo adesso, Alfredo ?!”
“Shhhhhh! Che ci sentono!”
Erano saltati in un orto con degli alberelli di arancio non potati; ciò consentiva loro di non venir visti, a meno di non guardare bene tra i rami. Alfredo, già pratico del posto, fece strada passando sotto quelle frasche di un percorso che già conosceva; poi all’improvviso si fermò di nuovo. Sussurrando disse:
“Il posto è questo. Ora sai come arrivarci. Mò però se vuoi che ti aiuto a vedere dove si spoglia e scopa devi aggiunger ancora moneta…”
“Ma ti ho già pagato!”
“Hai pagato per lo percorso. Se vuoi vedere nuda la Bianca Morelli havvi a darmi un supplemento! Ma li spendi bene! Sapissi ccè fica ca tene! La porta ranne akkussì! E pensa alle cosce!”
Alfredo, che già conosceva cotanta meraviglia di prostituta, fece a gesti la descrizione del sesso della donna onde spingere Aymone a cacciare altro denaro. Aymone cominciava a disperare, tanto che vuotò le sue tasche al suo amico.
“Ma ti dico che ti ho già pagato! Guarda non ho niente più nelle tasche!”
“E va bene! Vorrà dire che ti farò credito! Ma me li dovrai dare entro stasera!”
“Va bene te li do stasera !”
“Giura!”
“Va bene lo giuro!”
“Sputa per terra!”
Aymone sputò per terra davanti ai piedi di Alfredo così che il patto tra di loro era valido e vincolante (per il più ingenuo tra i due). Del resto i due ragazzi non potevano essere più diversi: coi vestiti dai bei colori, stirati, ed i capelli biondini ben tagliati e pettinati Aymone, che poteva permettersi anche dei calzari; l’opposto Alfredo: capelli scuri tagliati alla meglio (quando poteva permettersi il taglio; di solito provvedeva il prete o qualche suora volontaria) camicia lisa, anche se la sua umile madre gliela puliva comunque; i pantaloncini erano grigi, da lavoro nei campi; Alfredo suo malgrado in primavera ed estate risparmiava i calzari girando scalzo. Alfredo era però contento che il suo coetaneo più ricco lo ritenesse comunque suo amico; anche se a tratti ne approfittava. Ad ogni modo l’amicizia prevalse sul denaro. Alfredo gli sorrise, e lo condusse dietro di sé. Si muovevano entrambi in punta di piedi ed a testa bassa sotto quei rami per pochi passi finché non capitarono alla fine dei rami. Una volta usciti erano davanti ad una casa con portoncino interno che dava sul giardino ed una finestrona. Ai lati del muro c’era una scala di pietra che portava in terrazza. Erano però del tutto scoperti. Sentirono dei rumori e istintivamente Alfredo indietreggiò e si buttò in terra; altrettanto fece Aymone che aveva il vantaggio di essere più basso dell’amico e dietro di lui. Una donna vestita di sola camicia da notte raffazzonata uscì in giardino non oltrepassando la parte lastricata di pietra. Prese un pitale alquanto grande, ed alzatasi la veste sotto, si mise ad usarlo. La patacca pelosa della donna era appena visibile mentre urinava e rimaneva abbastanza ferma anche per far dell’altro. Poi si alzò, avanzò fino al limitare dell’albero, e ne prese alcune foglie con le quali si pulì tra le natiche. Nel farlo la donna offrì un po’ del suo culo sfatto alla vista dei ragazzi che non osavano fiatare mentre tenevano la testa piatta a terra sotto quei rami. La donna prese poi il vaso e ne gettò il contenuto nell’orto, tra quei rami, nell‘erba poco curata e un tantino alta…
Alfredo venne colpito alla schiena da qualche schizzo, e lo stesso i capelli di Aymone. I due ragazzi si tennero il lancio contro di loro senza fiatare. Poi la donna entrò in casa senza chiudere la porta del giardino. Alfredo provò per primo ad alzare la testa un istante per valutare la situazione, poi si alzò facendo cenno ad Aymone di restar fermo. Valutando d’aver via libera Alfredo raggiunse la scaletta che portava alla terrazza. Si appiattì sul muro e risporgendosi di lato a guardar un istante fece cenno ad Aymone di raggiungerlo. Aymone si alzò e di corsa raggiunse, passando davanti alla porta del giardino, l’amico. L’amico gli disse che sarebbe dovuto passare di lato, e non sul davanti. Salirono entrambi fino alla terrazza senza però raggiungerla; non era necessario: tutto quello che serviva loro era raggiungere un lucernaio, una piccola finestra di un braccio di lato con sportello libero sui cardini governato da un cordino. Quello era il lato della stanza che dava sul giardino del vicino e lì non potevano aprirsi finestre. Luci sì però! I due ragazzi erano protetti dal muro di cinta. Alfredo con la coda dell’occhio provò a vedere se la donna era nella stanza e non vedendola in silenzio fece cenno a ad Aymone di non fiatare. Alfredo lentissimamente spostò lo sportello di legno onde far passare più luce. C’era da sperare che la prostituta che si apprestavano a spiare attribuisse al vento il movimento dello sportello del lucernaio. La donna era altrove, probabilmente nella prima stanza dell’ingresso ad aspettare il cliente. Alfredo, da “esperto” ne approfittò per spiegare a bassa voce al suo amico Aymone la cosa:
“Guarda che se la Morelli vuole scopare in penombra, insomma chiude il lucernaio, io i soldi non te li rimetto! Insomma entro stasera me li dovrai dare lo stesso. Va bene?!”
“Sì, va bene. Ma adesso quando si spoglia?!”
“E mmo’ si spoglia! A quest’ora vengono i clienti! La gente è a pranzo, o in campagna, e nessuno li vede! Abbi fiducia! Che la vedi ignuda!”
La prostituta, l’idruntina Bianca Morelli, detta la Morelli, fece aspettare i due ragazzi una buona mezzora. Tuttavia Alfredo che la conosceva sapeva che da un momento all’altro la Morelli sarebbe entrata comunque in stanza. I due ragazzi appoggiate le loro teste il meno possibile al lucernaio iniziarono a spiare quella donna non più tanto giovane. Si diceva che avesse trentadue anni, ma la durezza di quel mestiere gliene aggiungeva almeno dieci. Il suo culo ormai era sfatto e appiattito; la donna non era più nei suoi verdi anni. I fianchi erano pieni di cuscini ed anche la sua pancia dimostrava delle gravidanze forse clandestine… la donna entrò in camera e da un comò estrasse dei fiori di campo, fiori comuni, per lo più margherite bianche e gialle. Poi si allontanò ed andò vicino al focolare a prendere dell’acqua in un pentolino che aveva intiepidito al calore della brace e portò quel pentolino nella stanza davanti, in alto alla quale Aymone ed Alfredo facevano prudentemente capolino. Mise un fascio di quei fiori in una bacinella d’acqua e vi versò sopra l’acqua tiepida. Usciva anche del fumo, il che voleva dire che era abbastanza calda. Poi andò in un cassetto e ne prese delle foglie di lavanda che con parsimonia aggiunse a quel fascio di fiori in acqua calda a mo‘ di decotto. Quindi offrì inconsapevole ai due ragazzi intrusi lo spettacolo per il quale avevano violato con l’incoscienza degli adolescenti il domicilio di quella donna. Si tolse la camicia da notte con un gesto rapido offrì alla stanza tutta la propria nudità. Aymone, da tre metri più in alto, cominciò a toccarsi visto che vide quella donna integralmente nuda con un esteso boschetto scuro tra le gambe. La donna, dapprima prese un bel po’ d’acqua con le mani, e se la lasciò abbondantemente scendere dal collo verso il seno, quindi prese anche a lavare tutto il viso con ampie manate. Ciò fatto, col volto bagnato, sollevò il catino, e lo piazzò per terra che ancora fumava. Abbassò il bacino fino a sedersi sul quel catino, e trovata una posizione comoda a gambe belle larghe, lavò più e più volte sia il boscoso pelo, che la vulva dalla quale cominciava a spuntare il piccetto poté notare Aymone. Alfredo da esperto gli disse con un fil di voce senza farsi sentire:
“Quel piccio un po’ più rosa è il clito, dove gode lei, lo sai cosa è il clito, sì?!”
“Che? Sì, ahhhhhhhh! Ahnnnn!”
Per continuare ad avvertirlo Alfredo si era abbassato di testa al di sotto della finestra, tanto lui quella donna nuda l’aveva vista già altre volte.
“Nnaaaa! Fermoooo! Se già te la fai adesso e vieni, che fai quando il cliente se la scopa?”
“Meeeeee che topa che tiene, ahnnnnnn, me ne farò un’altra! No?! Ahnnnn!”
“Fai piano Aymone! Se ci sente andiamo al gabbio!”
“Sìììììì, dai! Ahnnnnnn!”
La donna continuava a lavarsela onde profumare la vulva, e l’ano dato che prima aveva anche fatto un po’ di cacca. Aymone vide anche le zinne non del tutto ancora cadenti della Morelli mentre questa muoveva la mano a sciacquettare in basso. La cosa andò avanti dei minuti ripetitivamente. In fondo a quella donna quel lavacro intimo piaceva. E ripetitivamente anche la mano di Aymone lo portò all’eiaculazione contro il muro di tufo e pietra. Aveva dei boccoli lunghi castani Bianca Morelli, una volta il suo era un bel corpo; ora c’era del miracoloso che quella donna facesse quanto in suo potere per render gradevole all’odore ed al sapore la propria non più giovane né troppo morbida vulva dal pelo castano. La donna smise, prese il catino, si alzò in piedi, ed andò con la boscosa vulva gocciolante tra le cosce , poterono vedere i due ragazzetti, a vuotare quel catino all‘ertu. Poi sempre nuda tornò con dell’acqua pulita più fredda, e vi aggiunse altri fiori, ed un altro po’ di petali di lavanda. L’esperto Alfredo, che aveva rifatto capolino, spiegò ad Aymone:
“Guardala adesso ! Mò vedi che fa! Oggi forse viene uno di riguardo!”
“Perché che deve fare ancora?!”- Aymone avendo goduto era ancora esaltato, ma già più scarico. Il suo sperma aveva macchiato il muro d’appoggio dei due ragazzetti. Alfredo proseguì come cicerone:
“Ora prende una piccola ampolla e la immerge nel decotto profumato… vuole profumarla e pulirla anche dentro! Lo fa solo con quelli che pagano bene! Con gli altri, quelli più tirchi, se la lava con un po‘ d‘acqua e basta! E non se la fa leccare! Ma quello che sta aspettando gliela leccherà ci vuoi scommettere?”
“No, ti credo.”
Aymone poté vedere quella donna abbastanza ben conservata curarsi del proprio sesso; di tal maniera non aveva mai osato spiare neppure sua madre che s’apprestava a farsi visitare dal cerusico…la donna aspettò qualche minuto che l’ampolla riempita di quell’acqua alla camomilla prendesse l’odore di quella mistura di fiori, poi prese l’ampolla per il lungo collo di essa, e si diresse sul letto tenendo in mano pronta la bacinella vuota. Stesasi sul letto allargò le cosce, sollevò le ginocchia poggiando le caviglie sulla ringhiera davanti al letto, e poggiato il collo dell’ampolla sull’entrata della vagina, si penetrò un poco, e lasciò scendere il decotto dentro di essa tra quelle sue rosee pareti di piacere; ne ebbe un piccolo affanno di quel decotto che le invadeva la vagina; sollevò ancora un po’ il bacino, staccò le caviglie, e fece per muovere un po’ le gambe per meglio favorire il risciacquo interno; infine riabbassò il bacino poggiando le caviglie alla ringhiera, e finalmente lasciò scendere nella bacinella davanti il suo culo quell’acqua che le aveva sciacquato e sperava lei profumato alla camomilla le pareti vaginali. Rantolò un pochino per il piacere che le dava quel massaggio liquido.
“Ahnnnnnn! Ohhhhhhh! Uhmmmmm!”
Aymone poté accorgersi quanto fosse semplice per quella donna far entrare quel vitreo quasi fallo ancora intriso di acqua profumata. Se lo rigirò dentro un paio di volte, poi lo estrasse, lo ribagnò nel decotto riempiendolo di nuovo, e se lo reintrodusse dentro di nuovo ricominciando il giochetto-lavacro. Ora era Alfredo a toccarsi, anche se il “particolar cliente” si stava attardando. Bianca, perché tale era il nome di quella motivata prostituta, smise di penetrarsi. Scese dal letto, aprì un secondo cassetto e tirò fuori un panno di cotone pulito. Ci si tamponò il pube più volte fino ad asciugarlo bene. Quindi prese una spazzola, e si pettinò i peli della vulva, che ora ch’era curata, aveva un altro aspetto. Sembrava nuova. I due ragazzi non potevano sentirla, ma immaginavano masturbandosi per conto loro le intime fragranze di quella femmina, e del suo sesso. All’improvviso i due ragazzi sentirono bussare da dietro in basso. Qualcuno era giunto all’ingresso. La donna si allontanò per andar ad aprire. Restò nuda perché tanto sapeva chi era quel giorno a quell’ora… il particolare cliente di Bianca era arrivato:
Il cliente era un uomo di mezza età dai capelli ingrigiti ondulati dietro, di buon umore, un tale di nome Boemondo Da Nereto. Boemondo era uno dei cerusici nuovi del comune sito in quella baronia. Un uomo molto curato e pulito, e vestiva elegantemente, quasi sempre di scuro con un bel collare bianco di seta. Come si addiceva ad un uomo. Boemondo non era sposato. Visto il suo rispettabile mestiere era strano; tuttavia preferiva gestire coi soli soldi i rapporti con l’altro sesso.
“Venite, dottor Da Nereto, vi attendevo con ansia… oh che bei fiori! Li avete colti per me?”
“Eccomi splendida Bianca. Son tutto perso di voi lo sapete!”
“Venite di là dottore che volete visitarmi immagino…”
Il cerusico Boemondo aveva portato alla donna dei fiori. La sua era stata una galanteria; quello di Bianca senso pratico dato che con quei petali freschi profumava il proprio sesso con i decotti artigianali. La donna con un gesto che aveva fatto innumerevoli volte tese una mano aperta verso il suo gentile avventore:
“Quella normale un ducato amico mio, il prezzo son sicura che lo sapete!”
“Eccovene tre di bei ducati, Bianca! Vi pago anche per un secondo sparo dopo il primo nell‘altro pertugio! Sempre che a voi non dispiaccia ! Se la seconda volta non riuscissi…”
“Allora continueremo a parlare, promesso! La clessidra è tutta per voi! Adesso la volto.”
Bianca, nuda, andò a voltare la clessidra che giaceva su una cassettiera.
“Ecco prendete, sono vostri!”
“Sono a vostra disposizione! Sempre così generoso siete dottore!”
“In questi momenti vi prego chiamatemi Boemondo e basta!”
La donna incassò i soldi andandoli a nascondere in qualche posto nell’altra stanza. L’uomo si spogliò nudo per raggiungere Bianca sul letto. I due adulti consumarono il sesso da adulti spiati da Aymone ed Alfredo che godettero per loro stessi di quel sesso da più in alto con la loro masturbazione. Aymone vide come un adulto prendeva una donna, vi entrava dentro, e la faceva sua. Vide come e dove di preferenza l’uomo metteva la lingua, le labbra ed il pisello. Poté vedere che ruolo insostituibile avevano i baci tra uomo e donna nel far diventare il pisello un cazzo. Boemondo era innamorato di Bianca. Cercava sempre di baciarla sulle labbra, anche se lei rifiutava, e non ottenendole, le baciava il collo prima di scendere a succhiarle i seni. Prendeva Bianca di schiena, le stringeva i seni tra le mani ed usava mentre le leccava il collo dietro, usare le dita a mo’ di chele sui suoi capezzoli. Aymone vide le smorfie di dolore di Bianca che un attimo dopo si trasformavano in godimento. Aymone vide uno dei primi sintomi del godimento di una donna: Bianca aveva tirato fuori la lingua da sola, mentre Boemondo le leccava la schiena scendendo fino alle scapole. Cambiava anche posto stringendole le natiche, carezzandole con forza l’inguine. Le metteva le mani addosso fin nelle sue intimità come fosse lui stesso il padrone di quel femminile balocco vivo. E se Bianca lasciava un istante disponibile la guancia Boemondo gliela baciava appassionato di corsa. Cercava di leccare quella donna il più possibile. Lei, con il famelico Boemondo dietro di sé, ricambiava l’abbraccio come poteva. Tutto ciò, poté vedere Aymone, fece ingrandire bene il pisello a Boemondo che adesso aveva un vero e proprio cazzo che Bianca prese in mano con delicatezza come piaceva a Boemondo. Strano il sesso, pensò forse Aymone imbambolato: più delicata la presa della mano di donna, più duro o grosso diventava il cazzo dell’uomo. Dopo un minutino di masturbazione manuale, e baci di lui su qualunque porzione a tiro di quel suo corpo femminile, Bianca decise di prendere in bocca il membro eretto di lui, e contemporaneamente lui da sotto iniziò a leccare la vulva di lei.
“Quello è il 69. Un numero diabolico! Il nostro prete dice che non dobbiamo pronunciarlo senza ragione! É il numero del peccato…”
“Sì! Sì… cazzo come lecca!”
“Chi? Lui o lei?!”
“Tutti e due! Uhmmmmmm! Meeeeeeee! Tutta la fica in bocca gli ha messo…”
I due ragazzi naturalmente parlavano a bassa voce e quei due più sotto, Bianca e Boemondo avevano di meglio da fare, che badare a loro che li spiavano. Andarono avanti diversi minuti. Poi il diabolico numero si sciolse. Bianca si scostò ed interruppe la fellatio reciproca. Si distese sulla propria schiena ed allargò le cosce invitandolo ad entrare. Ora, dato che anche Bianca era infoiata, era arrivato per Boemondo il momento di penetrare; la faccia di Boemondo era, vide Aymone, esaltata per la leccata di quelle rosee carni di quella donna. Lui avrebbe leccato ancora, ed infatti ci provò; Bianca però dopo tre colpetti di lingua gli scostò la testa e gli fece cenno allargando le gambe che doveva penetrarla. Boemondo raccolse il suo cazzo e cercando la vulva di lei esitò qualche istante sopra di essa tenendo la cappella sopra il clito; la sfiorò facendo godere Bianca, quindi le entrò dentro. La vagina di Bianca cedette scivolosa nel darsi al gradito ospite di carne turgida, calda, e pulsante. Il membro virile di Boemondo era piuttosto grande, e Bianca non poté fare a meno di mandare un rantolo quasi urlato:
“Uhhhhuuuuu! Ahnnnnnn ! Ce l’avete grosso Boemondo! Ahnnnnn ! Uhhhhhh! Sì che bel colpo! Ahnnn! Dai, sì!”
“Vi piace Bianca? Vi piace? Uhmmm! Ah! Ah!…”
“Sono vostra! Ahnnnnn! Scopatemi Boemondo! Ahnnnn! Con voi sì che godo!…Fatemi venire tutta Boemondo!”
Aymone fu fortunato quel giorno. Il suo amico aveva scelto un turno particolarmente interessante. In quella scopata Bianca partecipava, mica aspettava supina che il maschio finisse e via. Voleva godere anche Bianca. Da come si abbracciava Boemondo sembrava che non fosse amata da un vero uomo da tanto tempo. Aymone ed Alfredo videro anche le movenze della donna che subiva quel grosso cazzo e godeva, godeva, godeva. Poté accorgersi anche di come fosse importante per un uomo esser chiamato per nome mentre scopava. Apprezzati si rendeva di più. Il proprio nome alternato ai complimenti per le dimensioni del sesso maschile, accompagnati dai rantoli veri o falsi di lei, erano un moltiplicatore di erezione, di potenza, di felicità…
“Sìiiiiii Boemondo ancora!”
“Ecco! Bianca ecco! Ahnn! Ah! Ah!”
“Oh! Come ce l’avete grosso Boemondo! Ahnnnn! Uhuuuu! Ahn! Come spingete bene Boemondo! Dentro! Più dentro Boemondo! Ahnn! Lì ! Sì! Proprio lì! Ahnnnn!”
“Ahn! Ahn! Ahn!”
“Apritemi tutta Boemondo…”
Bianca Morelli era una donna abilissima a mettere il suo momentaneo amante a proprio agio. Boemondo non aveva a lagnarsi quanto a dotazione di natura. Niente di paragonabile ai loro pisellucci di spioni da strapazzo ormai rossi e sfiniti dallo sforzo di sparar lo sperma già la seconda se non la terza volta. Anche Boemondo aveva goduto lasciando lo sperma in gran copia sopra il pelo pulito di lei quasi tutto guarnito di quel bianco seme. Forse quella donna tutto quel divino nettare lo avrebbe voluto dentro di sé: si mise a spalmarselo sopra la pancia a mano a mano che Boemondo lo faceva uscire fino all’ultima goccia. Poi si accasciò di fianco a lei. Adesso doveva recuperare un po’ se voleva eiaculare nel retto della prostituta Bianca per il secondo giro. Ai due ragazzi le pallette facevano decisamente male per cui si stancarono di guardare quella che, vedevano ora da scarichi, non era stata una loro scopata, ma quella di un altro ben più felice di loro; quindi emotivamente esauriti decisero di andar via passando per lo stesso passaggio dell’andata; piano, piano ed in silenzio. Aymone però ebbe un ripensamento improvviso. Fino a quel momento aveva pedissequamente seguito l’amico.
“Perché non siamo rimasti ? Magari vedevamo se glielo metteva al culo…”
“Io la terza manovella non ce la facevo a farmela Aymone! Mi dispiace! Tu quante te ne sei fatte?”
“Tre! E allora?!”
“A me fanno male le palle. Poi mi stanco, e devo andare a dottrina!”
“Anche a me fanno male! Ma perché non torniamo su? Magari la sta inculando ora…”
“Aymone! Io sono veramente stanco, e tu mi hai detto che dovevi tornare prima di un’ora…ho visto che il sole si è spostato! Se vuoi và tu! Io vado via ora.”
“Alfredo con quello che ti ho pagato!”
“Stasera me li devi dare, ora se vuoi torna su da solo! La strada la sai!”
“Sì ho capito, però mi aspettavo che rimanevamo per vedere se glielo metteva dietro!”
“Senti Aymone! Quello è arrivato in ritardo, ora finché gli alza di nuovo ci vuole un’altra mezzora. Non ti credere che gli si drizza solo perché vuole. Tu mi hai detto che dovevi tornare prima di un’ora! Io devo mangiare amico mio, le due manovelle mi hanno fatto venire fame! Mangio qualcosa a casa, che poi devo andare a dottrina t‘ho detto. Sennò mio papà mi porta a lavorare in campagna! Oggi almeno c‘è dottrina.”
Aymone ci pensò un attimo poi disse:
“Aspetta, vengo con te! Andiamo!”
Aymone aveva speso tutta la sua paghetta di una settimana e si era impegnato per un’altra metà con l’amico che però da parte sua non lo aveva certo deluso del tutto. Dopo aver saltato nuovamente dal muretto presero a camminare per i vicoli. Parlarono ed Aymone insistette:
“Senti Alfredo, ma tu l’hai mai vista farselo mettere nel culo?”
“Sì, e non ti perdi niente! A meno che il cazzo non è il tuo!”
“Io lo volevo vedere.”
“La prossima volta! Stasera prima del tramonto vorrei i miei soldi!”
“Che te ne fai dei miei soldi?”
“Li metto da parte. Quando metto insieme due o tre ducati mi faccio una scopata con la Morelli anch’io…tu portameli, mi raccomando. Lo so che sei mio amico!”
Alfredo mise una mano sulla spallla ad Aymone, il cui candore era disarmante:
“Li chiederò a papà. Oggi però ho a pranzo gli zii, e non so se posso chiederglieli…”
“Gli zii?”
“Sì il fratello di mamma, zio Toraldo, si è sposato ed è venuto dal suo paese a trovarci con sua moglie. Ha detto mamma invece che quest’estate andremo a trovarli noi; non appena potrà lasciare la locanda tre o quattro giorni. Poi tornerà qui, mentre a me ha detto che mi farà passare quindici giorni con zio Toraldo! Magari ci accompagnerà anche Filomena! Ora però non si può.”
“Che fa tuo zio Toraldo?”
“Intendente contabile delle gabelle che impone… aspetta che impone per diritto divino il barone suo illustrissimo. Sa far di conto, ed il barone suo si fida di lui come di un figlio! Pensa, lavora proprio dentro il castello; è un grande castello; solo il lato davanti al ponte levatoio saranno, ha detto zio Toraldo, più di duecento passi. E ha pure un amico armigero. Zio Toraldo ha detto che il castello è grandissimo e pieno di armigeri. Lo zio Toraldo me lo disegnò per me. Domani ti porto il disegno. Lo vuoi vedere?”
Alfredo fece un piccolo sorriso al vuoto per mascherare la sua invidia per il pranzo con gli zii del suo amico ricco. Ad Alfredo delle cariche dello zio gliene importava poco; viceversa di quel grosso cappone che aveva visto acquistare alla lavorante di Olivina un mondo! A quel pranzo non era stato certo invitato. Alfredo già sapeva di suo che non era simpatico a Olivina. Alla giovane e bella madre di Aymone le distanze dal popolino piaceva prenderle ogni giorno un pochino di più, anche se non si chiudeva dietro alcuna porta. Salutava comunque tutti. Locandiera, proprietaria di casa, e moglie di notaio. La madre di Alfredo, la signora Rosina, era una donna casalinga. Il padre un contadino senza altri redditi. In due parole erano poveri. Le occasioni di fare qualche viaggio Alfredo, povero ma svelto, doveva coglierle quando stavano per presentarsi…
“Quando mamma tua ti manderà a fare visita a tuo zio Toraldo mi porterai con te Aymone?”
“Perché?”
“Volevo vedere le donne del castello dove lavora tuo zio!”
“Glielo posso chiedere. Ma invero non so se mamma è d‘accordo…”
“Se mi porterai non ti farò mai più pagare niente per vedere la Morelli.”
Aymone in quel momento crebbe abbastanza da capire che non avrebbe più pagato Alfredo, che in fondo rifletté improvvisamente, non aveva una mamma bella, stimata, ed invidiata come la sua Olivina. Aveva un padre contadino dai modi rudi e severi quando contrariato; non un padre mite e formalmente istruito, nonché notaio (anche se accidioso). Alfredo era un invidioso; per questo tendeva a spillar moneta all’amico pur rispettandolo, e non alzando mai le mani contro di lui. Alfredo, in cuor suo lo sapeva: sarebbe rimasto un contadino, a meno che non avesse deciso d’intraprendere un’arte di sua scelta; gli sarebbe toccato iniziare come un umile garzone in cambio di soli vitto e alloggio; dopo qualche tempo sarebbe stato promosso lavorante e ciò voleva dire percepire finalmente un proprio salario ed iniziare a metter da parte soldi. Quindi dopo un altro po’ di anni, secondo l’arte scelta, finalmente avrebbe potuto chiedere di diventare mastro, il che voleva dire mettersi in proprio. Questo sicuro e faticoso percorso di vita ad Aymone sarebbe stato risparmiato. In quanto figlio di notaio sarebbe diventato notaio al pari del padre: lavoratore intellettuale anziché manuale. Naturalmente Alfredo nemmeno sospettava la mediocrità passata del padre di Aymone, il notaio Ranuccio Tresoldini fu Giuseppe Maria. Tuttavia quando Alfredo, il più dominante tra i due, si accorse che Aymone aveva avuto a prezzo che lui giudicava modico quella bella occasione decise che per quel giorno avevano visto abbastanza sesso... il suo amico Aymone non se l’era sentita di rischiare da solo, e seguì l’amico popolano in quella ritirata improvvisa. Lo stesso amico che un giorno, in una precedente occasione, ebbe a dirgli, sempre per invidia, che aveva visto le zinne di Filomena che aveva la camicetta troppo aperta mentre traeva l’acqua dal pozzo e che gliene piacevano i capelli nerissimi. Aymone non sapeva se era vero, e tutto quello che Alfredo ottenne fu di dare l’impulso al suo meno umile amico circa le fattezze sessuali di Filomena, che stava diventando invero una donna da matrimonio; era naturale che venisse notata. Già, anche Aymone da qualche tempo aveva preso a guardare Filomena, la lavorante di sua madre; ora, stimolato dall’amico invidioso, finalmente, si stava accorgendo che l’aveva guardata con ben altri occhi…
Un’ora dopo la mezza eravamo di nuovo in piedi e scendemmo dabbasso. Si stava pranzando, ma noi eravamo a invitati da mia sorella Olivina e dal di lei marito il notaio Ranuccio. Non abitavano distanti. La situazione economica di mia sorella Olivina si era stabilizzata al meglio, ed anche mio cognato Ranuccio sembrava aver messo la testa a posto: tuttavia non era un notaio brillante. Aveva sprecato i suoi anni migliori, e adesso doveva accontentarsi di rogare piccoli atti, utili a chi li chiedeva certo, ma di poco significato circa il valore. Olivina mandava avanti la sua locanda in quella che fu la magione del notaio Tresoldini. Io e Francesca camminammo braccio a braccio per il corso, come si conveniva a due coniugi. Passando vicino a quelle case mi ricordai della passeggiata nella quale mia sorella Olivina mi diede un’affettuosa stretta al mio cazzo promettendomi il sesso pieno con lei stessa per due giorni dopo. Ora da quando feci cornuto quell’alcoolizzato di mio cognato Ranuccio tornavo di nuovo a render visita ad Olivina. Giunti alla locanda vidi un’anziana signora seduta fuori dal cortile e chiesi se per caso fosse una parente od una vicina della signora Lucia, la vedova Tresoldini. Mi presentai con mia moglie…No, mi disse soltanto di chiamarsi Donata o meglio Nana, e che abitava accanto alla locanda. La signora Lucia era morta di vecchiaia due anni prima, e adesso Olivina e Ranuccio erano soli. L’anziana signora, la Nana, si alzò ed entrò nella corte andando di filato a chiamare Olivina:
“Olivinaaaa! Hannu rriati! Annanti la curte, stà spettanu, tutti toi! Ieni! Ci à scire…”
L’anziana Nana disse a mia sorella Olivina che eravamo appena arrivati e aspettavamo tutti e due davanti alla corte. Olivina la ringraziò e ci venne incontro, eretta e sorridente. Purtroppo non era più così giovane. Quel giorno però si era fatta trovare al meglio di sé. Vestiva pulito potei vedere. I giorni delle prime difficoltà sembravano un ricordo lontano. Dal suo viso promanava serenità e padronanza. I suoi capelli castani li portava a ripiegati ed intrecciati; indossava una camicetta bianca di ricami e la teneva elegantemente scollata; un bel corpetto rosso ocra sopra l’ampia gonna completava il suo sembiante; al contrario la sua aiutante, sorella del garzone della locanda, si trovava all’interno di essa lavorando (e sudando ampiamente) in una piccola lavanderia ricavata sacrificando una stanza. Ormai quella ragazza, orfana come il fratello, si era fatta donna e lavorava di lena con la sua padrona mia sorella. Questa giovane donna si chiamava Filomena. I due fratelli erano stati collocati alla locanda dal vicino convento. Mia sorella ci si fece incontro. Vedendo mia moglie le fece una piccola riverenza accompagnata da un bacio sulle guance e da un abbraccio. Mia moglie non ostacolò ed accolse quei convenevoli con il sorriso.
Fu mia sorella ad esordire dato che io, incuriosito dal loro primo incontro, rimasi in silenzio:
“Quale cafone mio fratello! Non ci ha nemmeno presentate, permettete?! Io sono Olivina, e vi do il benvenuto qui da noi cara Francesca! Siete mia cognata, ma per me è come se foste mia sorella! Non vedevo l‘ora di conoscervi.”
“Oh, vi ringrazio Olivina, Toraldo mi ha parlato di voi! Avremmo gradito vedervi al nostro matrimonio, ma Toraldo volle fare tutto così di fretta…ho potuto conoscere solo i genitori vostri che nostro malgrado non vollero viaggiare. Lo fecero per lasciarci in intimità, credo.”
“Li andrò a trovare non appena potrò! Certe volte devo confessare che anche scrivere una lettera non mi riesce facile! Poi solo nostro padre sa veramente leggere!”
“Sì ma gliele leggerei io sorella!”- M’intromisi per ricordare a mia sorella che non mi aveva ancora salutato.
“Sinceramente Olivina, vi avrei gradita moltissimo ai miei sponsali!”
“Oh, grazie Francesca, ma vi assicuro che qui non potevo lasciare il travaglio neanche per un giorno! Volevo che venisse Aymone, ma nemmen potevo lasciare che viaggiasse da solo! Se solo non si fosse ammalato Roberto…”
“Roberto, dite?”
“Il fratello della mia aiutante, Filomena. Avrebbe dovuto accompagnare lui Aymone ai vostri sponsali in nostra rappresentanza, dato che né io né Ranuccio potevamo lasciare le nostre incombenze…la banca cara Francesca, ci da fiducia, ma vuole i ducati! E per far ducati noi si deve restare qui! ”
Poi Olivina salutò anche il sottoscritto abbracciandomi. Quindi ci disse di entrare dentro:
“Bando alle tristezze! Anzi venite che vi presento a Filomena! Filomenaaaa!”
La giovane donna, alta, magrolina, con poco seno, notai, venne innanzi a noi. Era vestita umilmente, in abito da travaglio, ma aveva due magnifici occhi neri, occhi fieri, direi che fosse di buon sembiante se non avesse avuto i capelli sporchi avvolti in un fazzoletto e la veste sudata. In mano aveva una cucchiara di legno che usava per rimestare i capi di cotone nei mastelli. Profumava di sapone e di cenere che usavano per lavare i capi. Olivina fece le presentazioni:
“Mio fratello già lo conosci Filomena! Questa invece è mia cognata Francesca, di lui la moglie!”
Filomena un po’ a disagio accennò un inchino:
“Onorata, signora! Mi spiace accogliervi con quest’aspetto…ma son addetta anche alla lavanderia e alla stireria oggi!”
Mia moglie la tranquillizzò congedandola amichevolmente:
“Grazie, ma andate pure alle vostre mansioni se dovete Filomena! Non badate troppo a noi!”
“Scherzate Francesca?!”- Olivina s’intromise:
“Lascia stare qui! Per oggi niente più stireria, tanto siamo già abbastanza avanti! Senti, va a spegnere il fuoco sotto il cappone Filomena! Ormai sarà ben cotto. Non bruciamolo. E poi vai a cambiarti onde apparecchiare per il pranzo. Toraldo e la moglie pranzano con noi oggi, e c’è da servire a tavola forse già tra mezz‘ora-tre quarti.”
“Sta bene padrona!”
“Hai visto Aymone?”
“É andato di sopra a consolarsi coi balocchi ! Non vuole scendere!”
“Perché?!”
“Abbiamo litigato! Padrona mi dispiace assai, ma ella mi deve perdonare. Gli ho dovuto tirare un bel ceffone! Mi ha toccata troppo in basso, e davanti ai clienti! Io non uso farmi pagare per giacere coi clienti padrona! Se vostro figlio mi tocca davanti a tutti, poi tutti credono che…”
“Va bene Filomena, gli parlerò io, non preoccuparti! Ora vai da quel cappone, e poi a cambiarti per il pranzo, ti ho messo gli abiti puliti sul tavolo della tua stanza, e vedi se tuo fratello se la sente di stare a tavola con noi oggi! Insomma Filomena c’è mio fratello con sua moglie, ed è un giorno di festa! Capisci?!”
“Glielo dirò padrona! Vado subito. Grazie padrona.”
Poi Olivina si rivolse a noi:
“Sapete, mi sono sottoposti e anche sottomessi; devono darmi del voi anche se io do loro del tu! Però Filomena è una brava ragazza, oltre che una valida aiutante; prima serve a tavola, poi mangia con noi tutti la domenica! Gli altri giorni in camera sua. La domenica ha il permesso di desinare con noi! Voi avreste niente in contrario?!”
“No, Olivina! Per noi va bene!”
“Purtroppo Aymone sta avendo le prime pulsioni per l’altro sesso… ed io il tempo per educarlo non ce l’ho tutti i giorni! Che ne dite di aspettare mio marito in giardino? Sapete, fratello Toraldo, questa stagione l’albero di limoni che fece piantare vecchio notaio ha dato una certa abbondanza. Abbiamo fatto pure il limoncello! Vi piace il limoncello Francesca ?”
La conversazione si svolse banalmente in attesa che tornasse mio cognato. Olivina e mia moglie si scambiavano ampi sorrisi da buone amiche. Mi guardavo intorno: al muro vi erano i ritratti del vecchio notaio e della signora Lucia sua vedova. Poco più di due profili grandi un braccio di lato suppergiù. Vissero non del tutto negli agi ultimamente, tuttavia riuscirono ad evitare la povertà. Morirono vecchi, e a quanto ricordo, abbastanza sereni. Nemmeno noi eravamo più giovani. Eravamo invecchiati tutti; Ranuccio un po’ prima di noi per via del vizio dell’alcool, che adesso a quanto era noto, si era tolto. A guardarlo era cambiato poco, certo era un pochino calvo, ma la calvizie non lo faceva sembrare che più dotto di quel che veramente era. Vestiva anche lui abbastanza bene per la media grazie al polso di mia sorella sua moglie che aveva avviato un discreto servizio di lavanderia all’interno della locanda: un investimento particolarmente azzeccato che diede a suo marito un nuovo aspetto, anche tra la gente. Del resto Olivina tirava fuori una certa intelligenza quando era il momento. Olivina a pranzo aveva fatto acquistare al mercato un grande cappone e lo aveva cucinato lei stessa con molta cura. Agli ospiti della locanda quel giorno con loro grande rincrescimento non lo aveva fatto servire tenendolo per noi. I suoi clienti quel giorno ebbero un brodo di gallina, piccola cacciagione volatile, e del formaggio. Anche Aymone si era degnato di raggiungerci accompagnato da Roberto che si reggeva ad una stampella poiché aveva la gamba destra rotta. Mia sorella Olivina lo rimproverò:
“Certo che potresti pure aiutarlo, invece di limitarti a farti accompagnare e basta!”- Poi rivolta a Roberto con la gamba ingessata disse:
“Accomodati Roberto, che fra poco si mangia tutti.”
“Grazie padrona!”
Feci accomodare il giovane Roberto vicino a me. Lo conoscevo poco, per lo più di vista, ma scambiai conversazione anche con lui. Il signorino nipote mio ormai era un ometto, come lo ero stato io quando feci assaggio del seno di mia sorella Olivina. Quei momenti erano distanti un’eternità! Sapevo che non sarebbero mai ritornati. Intanto mi guardavo intorno ed ammiravo quel nuovo intonaco chiaro che aveva fatto stendere Olivina. Anche la tovaglia era nuova; quel giorno si sarebbe sporcata; l’indomani Olivina e la sua lavorante Filomena l’avrebbero lavata, stirata e rimessa via per una futura successiva domenica tra i parenti.
- continua -
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