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Venduta come una Puttana ai Rumeni ( prima dei cessi )


di pamyzi1
04.03.2020    |    34.544    |    20 9.3
"- Cazzo, amore! Che fai, gli lasci le mie mutandine? Dai, veloce, fattele rendere, dobbiamo scendere..."
- Ciao! - disse Marco, con un cenno amichevole, ai due stranieri.
- Ciao - Risposero all'unisono, con quell'inconfondibile accento dell'est.
Senza aggiungere altro, mise in mano al più giovane le mie mutandine, indicandogli il gesto di annusarle: quello, lo guardò con un'espressione interrogativa, incerto di aver ben compreso, ma venne rassicurato dall'assenso di lui. A quel punto, benché perplesso, ci cacciò dentro il naso e aspirò profondamente.
Il mio odore dovette piacergli: infatti, mostrando di apprezzarne ogni nota aromatica, inalò a occhi chiusi, letteralmente estasiato. Replicò il gesto per tre volte di seguito. Quando ebbe terminato l'indagine olfattiva, passò l'indumento al compare e la scena venne ripetuta con l'identica modalità.
Marco, prese a parlottare fitto e a bassa voce con loro. Era di spalle e non potevo sentire cosa si dicessero, sembrava aver socializzato alla grande: gesticolavano con le mani, per intendersi si facevano dei segni. I due sorridevano ammiccanti, dalle espressioni parevano apprezzare molto quanto stavano udendo. Guardavano verso me e con la testa facevano segni d'assenso.
Non potevo sapere cosa si fossero detti: a un certo punto, il più vecchio, estrandolo dalla tasca posteriore dei pantaloni, mostrò a Marco il contenuto di un portafoglio di plastica nera, anche il giovane fece per mostrare il suo, ma Marco lo fermò con un gesto, intendendo che non era necessario.
Alla fine ridevano cameratescamente, si scambiarono pacche sulle spalle e strizzate d'occhio, sembravano aver concluso felicemente un accordo, oltre che stretto una felice amicizia.
Intanto mi ero ricomposta, la prossima fermata era la nostra: dovevamo scendere. Attendevo quindi di riavere le mie mutandine. Marco fece ritorno, ma senza il mio capo intimo, lo aveva lasciato in mano a uno dei due individui.
- Cazzo, amore! Che fai, gli lasci le mie mutandine? Dai, veloce, fattele rendere, dobbiamo scendere. La prossima è Amendola / Fiera. - avevo una nota ansiosa nella voce.
Lui sedette al mio fianco e rassicurante, mi passò il braccio intorno alle spalle.
- Tranquilla micina, non ne hai bisogno, tanto non scendiamo ora. –
- Che significa non scendiamo ora? Per quale motivo? - chiesi stupita e confusa
- Di cosa hai parlato con loro? -
- Niente, gli ho chiesto da dove venissero e avevo ragione sai: sono rumeni. -
Ok, va bene: sono rumeni e a noi che ce ne viene? Perché gli lasci le mie mutandine e perché non scendiamo alla nostra fermata? -
- Gli ho anche chiesto se avevano in tasca trentamila lire a testa. –
- E che ti frega se le hanno o no? Perché cavolo glielo hai chiesto?-
- Perché prima gli avevo chiesto se gli andava di scoparti, tutti e due insieme. –
Restai basita, incredula d'aver udito bene.
- Bene! Appurato che gli vada di scoparmi, questo cosa significa? – replicai, iniziando a spazientirmi.
- Significai molto. – rispose serafico - Gli va di scoparti insieme e hanno i soldi necessari. Uno dice che hai delle belle tette, gli piacerebbe metterci il cazzo nel mezzo. Ti vuole venire sulle tette. L'altro invece, ha detto che hai una bocca da pompini e vuole venirti lì. -
- Cazzo amore, ma cosa è sta stronzata? Ti è andato in pappa il cervello? Non scherzare: mica vorrai davvero farmi scopare da questi due sventurati, qui sulla metro? -
Ero sconcertata, non comprendevo dove volesse arrivare e se si trattasse di uno scherzo.
- No tesoro, non qui sul vagone. Per questo proseguiamo fino a Pero. Li è più comodo, ci sono i cessi nella stazione. Hanno pagato trenta euro per uno
Mi guardò divertito, gli occhi sfrontati di un giovane demonio: ero sconvolta.
- Ma che bella pensata, complimenti! E cosa ti fa credere che io sia d'accordo? Inoltre, a parte lo scoparmi, cosa significa la storia delle trenta euro ? –
- Alzò gli occhi al cielo, cercando pazientemente le parole.
- Perché gli ho spiegato che sei molto troia, che ti piace il cazzo, che non hai problemi a farti scopare da tutti e due, ma che non fai pompini o la dai "a gratis". –
- Merda! Ma sei matto? Mi hai venduta per trentamila lire? -
- Intanto non sono trenta ma sessanta, poi lo sappiamo tutti e due che ti piace il cazzo e l'occasione di prenderne due insieme, facendoti anche pagare, ti attizza troppo. -
- Sei uno stronzo bastardo! Io da quelli non mi faccio toccare, non sperarci. -
- Davvero non ti va che ti riempiano la fighetta insieme puttanella ? -
- Certo che non mi va, scordatelo! -
- Sicura che non ti stuzzica? Guarda che a occhio mi sembrano anche ben dotati, mica capita tutti i giorni un'occasione così. -
Esibiva una assoluta faccia di bronzo. Ero veramente tentata di schiaffeggiarlo in malo modo.
- Vabbè non ti va, però di questo cosa mi dici troietta ? -
Mi aveva infilato la mano tra le cosce, le dita insinuate fra le labbra della fica, le mosse appena e un fiotto caldo gliele intinse.
- Sbaglio o la tua fighetta la pensa in modo diverso? -
Aveva un sorriso beffardo, mostrava tutto il divertimento che quella situazione gli procurava. Però lo stronzo aveva ragione: dentro ero ancora in fiamme, ero stata troppo sollecitata, sarebbe bastato un nulla a farmi partire l'orgasmo.
Mi fissò negli occhi e vi lesse chiaramente l'incertezza di sottrarmi a quella sorta di mercimonio. Mi conosceva troppo a fondo: leggeva i miei pensieri.
- Troietta, non voglio chiederti nulla che tu non abbia voglia di fare. Questa cosa è un gioco tra di noi, loro sono balocchi da usare per il nostro piacere. Credimi è solo questo: stiamo giocando. -
Non risposi, avevo il broncio e l'aria offesa.
- Dai puutanella, proviamo! Se vedi che non ti va o si comportano male, li mandiamo a fare in culo e ce ne andiamo. Mica dobbiamo sposarli, giusto? -
In effetti, messa così la cosa aveva un suo senso. Era vero che se qualcosa non mi fosse andata a genio, si stoppata tutto e li mandavamo a stendere
Lui intuì che mi stavo ammorbidendo: mi baciò con uno dei suoi baci mozzafiato.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro: aveva vinto.
Il treno macinava le stazioni a velocità fulminante, ci eravamo già lasciate alle spalle quattro fermate dopo la nostra e riuscivo solo a pensare che quella per Pero era fra tre.
Ero in palla. Tutto stava accadendo troppo in fretta e io ero troppo fatta per ragionare in maniera sensata. Un marasma di pensieri frenetici mi martellava la mente, mi sentivo intrappolata in un gioco che lui aveva creato, dandomene conto solo alla conclusione e questo mi bruciava.
Lui appariva tranquillo, non mostrava emozione, sembrava quasi che la cosa non lo riguardasse: era impegnato a leggere una pubblicità di vacanze estive, su un pannello sopra le nostre teste.
Gli altri due si avvicinarono e presero posto in fronte a noi.
A loro, contrariamente, la cosa riguardava molto. Non perdevano un mio solo respiro, mi stavano divorando con gli occhi. Per quei due ero una vera botta di fortuna: il biglietto vincente della lotteria di capodanno, trovato per strada.
Sguardi lascivi, correvano voraci, da un punto all'altro del mio corpo.
Sorridevano e si godevano le linee morbide delle mie cosce tornite, soppesavano le labbra carnose della mia bocca, il volume del mio seno, con tette così prominenti ed esposte fino all'aura bruna dei capezzoli, dove il vestito era rimasto sbottonato
I due maiali mi fissavano, pregustando il mio sapore, tra poco avrebbero potuto saziarsi a piacimento: avevano pagato per farlo.
Portavano larghe camice a quadri, dai colori improbabili, malamente sgualcite della giornata di attività. Indumenti da bancarella, buoni per il lavoro di cantiere. Le tenevano sbottonate sul petto e annodate al bacino. Aloni scuri di sudore segnavano le ascelle, le maniche rimboccate mostravano avambracci robusti e nodosi.
Avevano fisici di statura superiore alla media. Muscoli asciutti su ossature massicce, mostravano consuetudine a lavoro duro e fatica. Le epidermidi sui volti e le braccia erano brunite, non certo abbronzature guadagnata in piscina, ma sudate sotto il sole ì, fra polveri di cemento e fumi di catrame bollente.
Mi sentivo una prostituta che avevano comprato: una puttana raccolta per strada, un oggetto di piacere a totale disposizione. Mi fissavano e ridevano tra loro, bisbigliandosi qualche grassa oscenità, in quella lingua aliena.
Se chiudevo gli occhi, potevo immaginare le loro mani ruvide e callose, percorrere rapaci il mio corpo, a cercare ingorde, penetrare e dilatare la morbidezza dei miei orifizi.
Vedevo le loro labbra ansiose sulla mia pelle, le lingue umide a leccare, le bocche a succhiare e mordere, i loro sessi, esasperati di voglia, cercare sfogo nel profondo delle mie intimità. Il mio corpo da possedere a piacimento e forse, umiliare con disprezzo.
Si levarono insieme dai sedili avvicinandosi. Scambiarono uno sguardo con Marco per accertarsi del suo permesso, lui approvò con uno cenno del capo.
Il giovane posò le mani sui seni, li strinse forte, scese a mordermi i capezzoli: la barba ispida mi graffiò la pelle, mentre lasciava tracce umide di saliva con la lingua. Emisi un gemito trattenuto.
L'altro, con una mano mi dischiuse senza delicatezza le labbra della fica: le dita scivolarono morbide fra le mucose fradice. Le spinse a fondo, poi le ritrasse zuppe di umori e le succhiò con un rumore sconcio.
Non pago, con una sberla su una natica mi fece intendere di voltarmi: mi poggiò una mano sulle reni per farmi reclinare in avanti, le stesse dita, ancora bagnate, me le introdusse nell'ano. Aveva dita nodose e dure come legno, le ruotò nel budello.
Questa volta al sospiro seguì un gemito: ero molto sensibile lì.
Avrei dovuto provare ribrezzo, disgusto per loro e per quella situazione mortificante in cui, quel mostro di Marco, mi aveva cacciata. Mi dicevo che sarebbe stato normale sentirmi salire in gola il vomito, lo attendevo: ma non accadeva nulla e provavo una strana vertigine per questo.
Ero furente con Marco, sentivo che avrei dovuto ribellarmi, alzarmi da quel sedile e scendere alla prossima fermata, lasciandolo con quei due disperati, fuggire via e non cercarlo più.
Cercai dentro di me l'energia per farlo, ma non c'era. Restavo invece inerte, svuotata di forze. Il treno proseguiva sua corsa cieca: filava rapido, verso l'inevitabile conclusione di quella storia dissoluta.
La mia rabbia di quel momento si legava a un rancore più antico, una situazione analoga vissuta anni addietro: quella del rapporto con mio cugino Filippo, più grande di me di due anni.
I fatti risalivano ai miei quattordici anni, quando spinta dai miei, ansiosi che praticassi uno sport da adolescente di classe agiata, calcai riluttante la terra rossadi un club di tennis. Non divenni mai una tennista decente, il mio rovescio era penoso, ma appresi presto altre specialità.
Frequentavamo lo stesso club con Filippo, il quale era amico di tre coetanei, iscritti come noi.
Uno di loro mi faceva il filo di continuo, era un bel tipo e ne ero fortemente attratta: così un giorno che ci eravamo appartati a pomiciare negli spogliatoi, Filippo ci sorprese mentre gli facevo un pompino.
Quel bastardo iniziò a ricattarmi, minacciò di sputtanarmi raccontando la cosa ai miei. Giunse al punto di costringermi, per un certo periodo, a fare pompini ai suoi amici, in cambio di una nuova marmitta cromata per la sua moto da enduro. Anche allora non trovai la forza di ribellarmi e subì quella sorta di violenza in uno stato di sudditanza mentale.
Ciò che poi mi turbò per molto tempo, fu d'aver vissuto quell'esperienza in uno stato interiore profondamente ambiguo: facendomi scoprire la vocazione a ricavare piacere nell'essere dominata. Avevo scoperto, mio malgrado, che quel vile ricatto, invece di affliggermi, mi lasciava le mutandine umide di succhi.
Immersa in quei ricordi, mentre ci avvicinavamo alla destinazione, avvertivo uno strano languore caldo, un misto di paura e curiosità malata. Cresceva in me il desiderio perverso di provare, di andare in fondo, abbandonarmi affinché tutto accadesse.
L'insana voglia di essere offerta a sconosciuti, pagata come una puttana da marciapiede.
- Sei uno stronzo! - mormorai rabbiosa all'orecchio di Marco.
- Si, lo so. – rispose senza scomporsi.
- Sei anche un gran porco! – Aggiunsi a denti stretti.
- Vero! E questo ti piace un sacco. - gli avrei cavato gli occhi.
- Sei una merda! – rincarai - Poi, io, in tre non l'ho mai fatto. –
- Tranquilla sono solo due. Io non partecipo. –
- Ma sei pazzo? Vuoi lasciarmi sola nelle mani di..di questi maiali? –
- Beh! Sai, qualcuno deve pur fare da palo lì nei cessi. Vabbè che è l'ultima corsa del metrò, ma non si sa mai che arrivi qualcuno che gli scappa di pisciare. Poi loro hanno pagato, non sarebbe corretto. –
- Cazzo! Sei un pappone schifoso. Dovevi avvertirmi di questa cosa. –
- Dai, lo sai, non c'era tempo. Ho avuto un lampo di genio e ho agito d'istinto. –
Rise, allegro e soddisfatto come se avesse compiuto un'impresa di cui essere fiero.
- Poi, ragiona: se te lo avessi detto, non ci sarebbe stata sorpresa. –
Che figlio di puttana! Lo detestavo con tutta me stessa.
- Sei un fottuto rotto in culo. Ti odio. –
Mi prese il mento tra le dita con una carezza gentile e mi guardò negli occhi con tenerezza.
- Dai micetta, fai la brava. Ho tanta voglia di vederti fare la porca con due così rustici. Mi arrapa da matti. –
Mi bacio le labbra con tenerezza soave.
- Dai ti prego, fai la maialina, fallo per me, lo sai che ti amo. –
- Scese a baciarmi languidamente il collo: un succhiotto che avrei dovuto nascondere con un foulard l'indomani, per non fammi sgamare dai miei.
- Depravato! Questa ma la paghi! Giuro! –
- Si troietta, però adesso, visto che pagano loro, tu gli ciucci un po' il cazzo e ti fai riempire la fica da brava. - Rise di gusto.
- Vaffanculo! Sei un pervertito. –
- Non c'è dubbio amore. Ma so che farai del tuo meglio, perché sei tanto troia dentro e lo sai meglio di me. –
Il convoglio decelerò, la fila continua di luci lungo la galleria presero a distinguersi, con intervalli sempre più lunghi.
Il fischio prolungato della frenata annunciò la nostra fermata: eravamo a Pero.........solo nomi di fantasia ma reale ........per commenti [email protected].....
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