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Priapo e il sesso del diavolo


di LuogoCaldo
01.02.2022    |    12.116    |    9 8.9
"“Hai davvero un bel corpo … Ed io … Ho proprio bisogno di provarlo …!”..."
Avevo sempre pensato di avere un bel cazzo.
Un ariete duro, con una grossa cappella rosa e i testicoli proporzionati al mio fisico asciutto.
Certo ero consapevole che un uccello di quelle dimensioni non avrebbe mai faticato a penetrare una vagina e che non l’avrebbe mai slabbrata come un elastico, ma ne andavo fiero perché, grazie a lui, avevo soddisfatto molte donne.
Allo studio legale, ad esempio, la segretaria si fermava volentieri oltre l’orario di lavoro e, quasi tutti i giorni, sopra alla scrivania, dinanzi alla poltrona del potere, apriva le gambe e m’implorava di sfondarla.
La pompavo con decisione e, spremendole i seni, le titillavo il clitoride fino a quando non mi svuotavo la nerchia.
La mia virilità, insomma, era appagata e non avevo mai pensato che, un giorno, qualcuna avrebbe potuto metterla in discussione.
Le prime ferite vennero quando Potnia, la collega etiope con la quale stavo uscendo, si decise ad offrirmi la sua conchiglia.
Fremevo all’idea di scivolare in fondo a quella vulva africana ed ero emozionato come un adolescente all’idea di maneggiare, per la prima volta, il corpo di una femmina nera.
Tuttavia, mi fu subito chiaro che la ragazza era avvezza a ben altri calibri.
Quando m’insinuai nel suo fodero di velluto, infatti, lei si mostrò impassibile e rimase in silenzio per tutto il tempo che continuai a trombarla.
Infine, evidentemente annoiata, sbuffò rumorosamente, mi montò in groppa e, cavalcandomi con vigore, mi portò all’orgasmo in pochi secondi.
Ero profondamente deluso.
“Ti è … piaciuto?” Le domandai imbarazzato.
Ma non ottenni alcuna risposta.

I successivi amplessi non andarono meglio.
Potnia si mostrava sempre più infastidita dalla mia perseveranza e cercava di evitare ogni occasione d’intimità, mentre io più fallivo l’obiettivo di procurarle piacere e più m’invaghivo di lei.
Una notte, dopo che per settimane aveva dato segni d’insofferenza, la donna si staccò dal mio abbraccio e, senza neppure pensare a farmi sborrare, si accese una sigaretta e si mise a sedere sopra al letto.
“Non sento nulla Priapo”. Mi confessò con un filo di voce. “So che non è colpa tua ma … è veramente troppo piccolo per me … non riesco a farmelo bastare …”
La guardai atterrito mentre lei, sadica, mi offriva lo spettacolo della sua orchidea spalancata.
Mi aveva colpito nella mia identità di maschio.
“Ma Potnia …” Provai ad obiettare. “Io … ti amo”.
“Oh, anche io … moltissimo!”. Rispose. “Però così non riesco proprio ad andare avanti …”. Mi disse. “Cioè … non potrei sposare un uomo che non sa procurarmi l’orgasmo!”
La guardai basito.
“Allora mi stai lasciando?” Protestai ferito. “Perché non c’è altro da fare!” Osservai concreto. “Stai parlando di qualcosa che non potrà mai cambiare!”
Lei piantò i suoi occhi dentro ai miei, liberò nell’aria una nuvola di fumo e, muovendo le labbra in un sussurro appena percettibile, mi interruppe.
“In realtà qualcosa da fare c’è”. Bisbigliò.
La guardai interrogativo.
“È una cosa un po' … strana”. Proseguì. “Devi avere la mente molto aperta ed essere davvero disposto a tutto …”.
Annuii e, accendendomi a mia volta una sigaretta, mi misi seduto di fronte a lei per ascoltare quello che aveva da proporre.

“Devi sapere che in Africa, poco oltre il villaggio dal quale provengo e appena prima del deserto, si erge il monte Malʿūnun, sulla sommità del quale, in fondo ad un sentiero impervio e lastricato di pericoli, il demone Kmul dimora con i suoi sette figli.
Gli uomini bianchi, alle prime luci del sole, sfidano la sorte e, completamente nudi, abbandonano i loro possedimenti terreni e risalgono la china fino al tempio del diavolo.
Coloro che riescono a raggiungere la cima ricevono udienza ai piedi di una quercia secolare e lì, dove la terra è più calda perché più vicina all’inferno, offrono al mostro quello che hanno di più caro, purché lui gli consenta di unirsi ad uno qualsiasi dei suoi figli.
I retti di quelle creature infatti sono fornaci magiche.
Risucchiano i membri pallidi e li modellano come fossero d’argilla, restituendo falli enormi ed incredibilmente fertili.
I saggi del mio villaggio narrano continuamente di questi prodigi e tramandano le storie di molti uomini che, grazie a quella magia, sono finalmente riusciti a soddisfare le loro compagne!”
Fissai Potnia con gli occhi colmi di meraviglia. “Ma tesoro …” Replicai. “Stai parlando di un racconto di folclore …!”
Lei mi fulminò con lo sguardo.
“E comunque”. Aggiunsi per non indispettirla. “Mettiamo che ci sia un fondo di verità … sarebbe un patto col diavolo …! Tu ti fideresti?” Domandai divertito.
La donna non mosse un muscolo.
“Va bene”. Proseguii assecondandola. “Allora dimmi … cosa potrei offrire io a quella creatura …? Ho un lavoro banale, una casa modesta …”.
“Oh, Priapo …”. M’interruppe lei. “Non è questo il punto …! Non sarai tu a decidere … Kmul ti leggerà dentro al cuore e prenderà quello che vuole …”. Mi spiegò sbrigativa.
“Tu dovrai solo mostrarti … devoto”. Concluse dopo una breve esitazione.
Nella camera da letto calò un silenzio tombale.
Potnia mi spinse supino sopra al cuscino e, piegando il busto verso di me, mi fissò interrogativa.
Mi aveva messo a disposizione la soluzione e ora pretendeva che io sciogliessi la riserva.
“Se mi ami devi farlo!”. Mi stava dicendo con gli occhi.
Guardai i grossi seni che cadevano sul mio viso come grappoli d’uva e fissai i capezzoli duri, fermi a un colpo di lingua dalle mie labbra.
“È solo una sciocca”. Mi dissi. “Ma è bellissima …”.
“Va bene”. Dichiarai. “Se è questo che vuoi lo farò …”.
Lei mi baciò e, per dimostrarmi la sua gratitudine, montò su di me e risucchiò il mio membro dentro alla sua caverna buia.
Mi scopò con forza e si strofinò vigorosamente, cospargendomi di umori fino a quando il mio orgasmo non esplose in fondo alle sue labbra aperte.
“Ti amo”. Sussurrai mentre contraevo persino le dita dei piedi, inebriato dal profumo intenso della sua vagina. “Farei qualunque cosa per te …”.
E mi addormentai appagato, sognando il demone Kmul e la sua promessa di cambiamento.

L’indomani partimmo alla volta dell’Africa.
Impiegammo tutta la giornata per raggiungere il villaggio di Potnia.
Nella piccola capanna i suoi genitori ci accolsero con una grande festa e il fratello più piccolo, un adolescente con le gambe smunte e le natiche strette, ci cedette il suo giaciglio per la notte.
Il mattino seguente, quando abbandonammo quel nugolo di case, albeggiava da poco. Ci incamminammo lungo le pendici del monte e, giunti nel punto in cui aveva inizio il sentiero maledetto, Potnia mi avvisò che dovevamo separarci.
“Da qui proseguirai da solo”. Mi disse. “Avanti, togli i vestiti”.
Restai nudo, come prevedeva l’assurdo rituale e, prima di partire, presi le mani della mia donna e, fissandola intensamente negli occhi, le aprii il mio cuore: “Amore, sto facendo tutto questo solo per te … perché ti amo e perché ciò che più desidero è che tu diventi mia moglie”.
Non ero mai stato così sincero.
Temevo che la sua ossessione ci avrebbe allontanati.
“Però ho bisogno che tu mi faccia una promessa”. Le dissi. “Giurami che, in ogni caso, anche se questa storia del demone dovesse rivelarsi una favola, tu resterai insieme a me …”.
La mia voce tradiva una forte emozione.
Sapevo che, al ritorno, quella sciocca sarebbe rimasta delusa e bramavo una sua rassicurazione.
Lei, però, non indovinò il mio fremito interiore e mi liquidò molto sbrigativamente.
“Non preoccuparti Priapo”. Asserì convinta. “Tutto andrà come ti ho detto e, quando farai ritorno dal monte, riuscirai a soddisfarmi!”.

Il sentiero si snodava erto e difficile tra lande desolate e spianate rocciose e attraversava boschi talmente fitti che i raggi del sole non riuscivano a passare.
Camminavo ormai da ore quando, dietro una siepe, vidi una figura maschile accasciata sopra al fogliame.
L’uomo era ripiegato in posizione fetale, mi dava le spalle e, roteando il polso dinanzi a sé, ansimava rumorosamente.
“Ehi straniero tutto bene?”. Esordii.
Lui si voltò e puntò i suoi occhi dentro ai miei.
Aveva il viso sfigurato dal piacere e, tra le cosce, esibiva l’erezione più poderosa che avessi mai visto.
“Ha funzionato”. Mugolò. “Ha funzionato davvero … Guardami …”. Mi disse mostrandomi un uccello enorme e straordinariamente gonfio.
“Non posso crederci”. Esclamai. “È gigantesco … Ma … prima, quindi, non era così?” Domandai meravigliato.
“No.” Rispose lui senza smettere di toccarsi. “Nient’affatto! Anzi, era microscopico … finalmente potrò avere tutte le donne che voglio …”
Non riuscivo a crederci.
“E … cosa ti ha chiesto in cambio …?” Chiesi fremendo d’impazienza.
“Nulla”. Rispose lui. “Assolutamente nulla … mi ha solo detto: non devi farlo se ciò che desideri non è il fallo! Assurdo no? Io ero lì proprio per quello!”.
“E le creature?” Insistetti. “Come sono queste creature?”
“Oh … sono magnifiche … sono esseri angelici … E le loro natiche! Cazzo ancora ci penso”. Sospirò mentre si masturbava vigorosamente. “Te ne accorgerai … quei culi sono stregati … Non hai idea di quello che possono fare!”
Aveva gli occhi fuori dalle orbite e mi fissava con un’attenzione che nessun altro uomo mi aveva mai riservato.
Si mise a quattro zampe e gattonando si avvicinò ai miei piedi.
“Ascolta”. Mi disse passando la lingua sopra ai miei alluci e risalendo lungo le cosce. “Hai davvero un bel corpo … Ed io … ho proprio bisogno di provarlo …!”.
Era quasi arrivato a sfiorarmi l’uccello con la bocca quando, con prontezza, feci un balzo all’indietro.
“Dai”. Insistette lui lascivo. “Vieni accanto a me”. Mi disse, battendo il palmo sulla terra. “Guarda che minchia che ho …”.
Aggrottai le sopracciglia e, contrariato, mi ritrassi ulteriormente.
“Ehi amico …”. Risposi imbarazzato. “Niente in contrario, eh, ma … onestamente ho altri gusti”.
E, dandogli le spalle, ripresi la marcia mentre i suoi gemiti divennero sempre più lontani.

Giunsi sul monte che il giorno calava.
L’orizzonte si schiudeva in fondo al pianoro roccioso e sfumava in un tramonto infuocato che faceva da sfondo alla quercia di Kmul.
I rami spogli sembravano impigliati nel disco solare.
“Ci siamo”. Pensai. “Questa deve essere la dimora del demone”.
Mi avvicinai lentamente al tronco e, ai suoi piedi, l’essere mi accolse con una voce sepolcrale.
“Benvenuto straniero”. Sibilò.
Sedeva sopra alle radici e, curvo su sé stesso, brandiva un lungo bastone nodoso.
Il suo busto era quello di un uomo anziano, completamente glabro ad eccezione della nuca. I radi capelli sembravano spilli conficcati nella pelle.
Le cosce, invece, erano zampe di caprone.
Il mostro le teneva larghe e il suo membro ciclopico strisciava fino a terra, si intrecciava con i basamenti della quercia e riprendeva quota dentro alla mano avvizzita.
“Non è un bastone …!” Sussurrai e, terrorizzato, mi inginocchiai ai piedi del demonio.
Kmul dovette fiutare la mia paura.
Si levò sulle zampe e, guardandomi fisso, parlò.
“Non temere, uomo”. Esordì. “Non ti farò del male. Smetti di tremare e dimmi: perché hai risalito il sentiero? Cosa vuoi da me?”
Era altissimo e i suoi occhi lacrimavano una sostanza bianca più densa del latte.
“Cristo”. Pensai. “Ma quello è … sperma”.
Mi feci coraggio, deglutii rumorosamente e mi rivolsi a lui, per formulare la richiesta che Potnia mi aveva suggerito.
“Chiedo di unirmi con uno dei tuoi figli, Kmul”. Dichiarai con un filo di voce. “So che le creature sono stregate e io ho davvero bisogno del loro incantesimo”.
L’essere sorrise.
“Sai che in cambio dovrai darmi quello a cui tieni di più?”. Domandò.
Pensai al lavoro, alla casa e, infine, alla vulva della mia principessa africana.
Annuii. “Si, lo so … la mia compagna mi ha avvisato … ma … sono disposto a qualunque sacrificio!”.
Lui sembrò soddisfatto.
“Bene”. Gongolò. “Se è così la mia magia sarà a tua disposizione …”.
Si voltò nella direzione del tronco.
“I miei figli sono nella cavità di questa quercia”. Disse indicando un foro nella corteccia. “Puoi dedicarti a tutti loro o anche ad uno solo … se gli altri te lo consentiranno!” Aggiunse divertito.
“Stai attento però”. Mi ammonì. “Non farlo se ciò che desideri non è il fallo”.
“Oh è quello voglio … È proprio quello …”. Risposi sommessamente e, camminando all’indietro, senza distogliere lo sguardo, mi avvicinai all’apertura e scivolai dentro l’albero.

Il ventre della quercia era caldo ed umido e la luce filtrava debole dalla sommità del tronco.
Mi guardai intorno e studiai la superficie sulla quale ero atterrato.
Era una pietra dura e liscia, il cui perimetro seguiva la circonferenza del legno.
Un rivolo di latte scorreva ai bordi del masso.
Mi chinai e, con la punta delle dita, toccai il liquido.
La sua consistenza mi sorprese.
“Sono le lacrime di Kmul …!” Pensai. “Dio mio … ma dove sono finito …?”
Ritrassi la mano e balzai in piedi.
“Ehi …” Sibilò una voce. “Ehi, uomo, parlo con te …”
Mi voltai e, più volte, ruotai su me stesso alla ricerca della sorgente del suono.
Non c’era nessuno.
“Qui ...”. Insistette. “Quassù …”.
Alzai gli occhi e lo sguardo si riempì di stupore.
Disposti in ciclo per la larghezza del tronco i figli di Kmul mi fissavano inchiodati alla parete lignea.
Erano completamente nudi e avevano le sembianze di giovani adolescenti.
I corpi esili tralucevano dentro alla gola dell’albero e il loro inguine era piatto, come privo di sesso.
Le creature si dimenavano in un movimento serpentesco e sbattevano le natiche contro la corteccia, impalando i retti su travi d’avorio.
“Scegli me …”. Diceva uno.
“No me … me!” Faceva eco l’altro.
Ansimavano selvaggiamente e, facendo sussultare il ventre, protendevano le braccia nella mia direzione.
Mi sembravano tutti identici.
Ebbi timore della loro foga e, per un momento, pensai di varcare il foro e abbandonare quel luogo.
Poi pensai alla promessa che mi aveva portato lì e, preso il coraggio a quattro mani, mi rivolsi al demone più distante.
“Tu”. Dissi, puntando il dito indice nella sua direzione.
Il giovane si staccò dalla trave e si librò in aria per atterrare sulla piattaforma.
Mi guardò fisso negli occhi e, muovendosi con un equilibrio precario, si avvicinò al bordo del masso.
“Cosa devo fare?”. Gli domandai.
“Quello per cui sei venuto”. Rispose lui. “Devi solo scoparmi”.
E, mentre parlava, si dispose a quattro zampe e mi offrì lo spettacolo delle sue natiche spalancate.
“Ma … non so se sono in grado … non l’ho mai fatto”.
“Oh ci riuscirai!” Mi disse. “Ci riuscirai di sicuro. Io sono esattamente quello che desideri … Avvicinati!”

Obbedii e, tirando un sospiro profondo, raggiunsi la creatura.
Il suo culo muscoloso era indubbiamente sensuale, ma su di me non sortiva alcun effetto.
“Non sono mai stato con un … uomo”. Confessai.
“Metti le dita nel ruscello”. Mi ordinò lui. “Prendi il seme di Kmul”.
Esitai.
“Dai …”. Incalzò.
Feci come mi aveva chiesto.
“Lubrificami adesso”. Disse. “Spalmami lo sperma di mio padre sul sedere”.
Guardai il liquido opalescente nel palmo della mano e avvicinai le dita allo sfintere.
Le natiche della creatura erano mele perfette e la rosetta, a contatto con i miei polpastrelli, sembrava sciogliersi come il burro.
Un calore improvviso si irradiò lungo il braccio.
Serrai gli occhi per godermi quella sensazione e, quando li riaprii, vidi la fica bruna di Potnia dischiusa innanzi a me.
“Cazzo …!” Esclamai.
Sentii che l’uccello si induriva mentre accarezzavo le labbra scure.
“Te l’avevo detto … Sono esattamente quello che vuoi! Penetrami ti prego … ho bisogno della tua virilità …”. Mi disse.
I suoi occhi brillavano famelici.
Avvicinai il glande alla vulva e, finalmente, la scopai, donandole tutto il piacere che meritava.
“Ah … chiavami … bravo … bravo”. Mugolava per la prima volta la mia donna.
La creatura risucchiava il membro come se avesse una ventosa tra le gambe e, ad ogni affondo, sentivo che il cazzo diventava più rigido e più grosso.
“Sta crescendo”. Mi disse. “Vedi come sta diventando gonfio … Continua, sarà enorme … Ah … Ah …”.
“Chiava anche me”. Sibilò uno dei suoi fratelli. “Sarò tutto quello che vuoi”.
“Anche io …”. Faceva eco un altro. “Io pure …”.
Ad uno ad uno li invocai tutti.
Scopai la vicina di casa, la professoressa delle elementari, la migliore amica di Potnia e persino la madre della mia ex ragazza.
Godevo come un maiale e affondavo l’uccello dentro ai culi incantati di quelle piccole troie.
“Come sei maschio”. Mi dicevano. “La tua virilità … dammi la tua virilità”.
Chiamai l’ultima creatura, la feci accomodare ai bordi del masso e le spalmai una grossa quantità di sperma sul culo.
“Finalmente sei mia!” Dissi e, con gli occhi fuori dalle orbite, trombai la suora che, da piccolo, mi dava lezioni di catechismo.
Il mio cazzo era così grosso che a stento riusciva a violare la piccola fica intonsa.
“Che porco …” Urlava la sorella. “Sei proprio un porco … Sverginami!”.
E quando vidi il sangue dell’imene colarle tra le gambe e la vagina pulsare come una pianta carnivora non riuscii a trattenermi e scaricai nelle viscere della creatura tutto il contenuto dei miei coglioni.
“Ah…” Disse lui. “Si … si … Guarda il fiume, vedi quanto è più pieno … quanta virilità … quanta virilità”.
E, mentre ancora mugolava, si staccò da me, si librò in aria e raggiunse i suoi fratelli contro la parete lignea, riprendendo la sua danza scomposta sulla trave d’avorio.

Ancora scosso dall’orgasmo mi guardai tra le gambe.
Il mio uccello era gigantesco, lungo e spesso come un ariete e i coglioni gonfi penzolavano pesanti tra le cosce sottili.
“Dio mio … Che prodigio … Potnia impazzirà”
Imboccai il foro nella corteccia e, fatto ritorno sul pianoro, mi allontanai verso il sentiero maledetto, camminando all’indietro senza distogliere lo sguardo dal demone.
Per tutta la discesa contemplai il nuovo membro e, più volte, provai l’impulso di masturbarmi.
Alla fine del percorso recuperai gli abiti e, rivestitomi, corsi verso il villaggio.
Era notte fonda.
Scivolai dentro alla capanna e raggiunsi la mia donna nel letto di suo fratello.
“Amore”. Sussurrai scuotendola. “Svegliati … svegliati … Sono tornato”.
“Priapo …?”. La sua voce era ancora assonnata. “Dio mio, Priapo! Ti ho aspettata per due giorni! Credevo che ti fosse accaduto qualcosa … Quanto sono stata in pensiero! Mi sono sentita così in colpa …”.
“Due giorni?”. Esclamai incredulo. “Credevo di essere rimasto lassù solo per qualche ora …”.
“Oh, Priapo”. Disse lei scoppiando in lacrime.
“Potnia”. Proseguii cercando di confortarla. “Non piangere … Devi essere felice. Avevi ragione tu … Il demone Kmul e i suoi sette figli esistono e le storie su di loro sono tutte vere …”.
“Vuoi dire che …”.
“Si”. Risposi anticipandola. “È completamente cambiato … Guarda tu stessa … Toccalo …”.
“Cristo … è un miracolo! È … enorme … Fammelo provare …”.
E leccandosi le labbra mi diede le spalle e mi offrì la sua grossa vulva bagnata.
Avvicinai il cazzo alla vagina e la riempii completamente.
“Ah … Che bestia … sfondami, ti prego, sfondami!”.
Potnia gemeva come una troia ma il mio membro non era affatto eccitato.
Ripensai alle parole delle creature: "La tua virilità … dammi la tua virilità …".
Non capivo cosa stesse accadendo.
“Che c’è tesoro?” Mi chiese.
“Niente”. Replicai vago. “Forse sono solo stanco …"
Mi staccai amareggiato.
"Ti spiace se provo a farmi una doccia? Mi riprendo un po' e dopo, magari, possiamo ricominciare ...” Dissi sorridendo per nascondere la delusione.
Lei annuì comprensiva.
Non sembrava contrariata e anzi, mentre lasciavo la stanza, continuava a fissare il mio pene.
"La tua virilità … dammi la tua virilità …".
Aprii la porta del bagno.
“Oh …!” Esclamai sorpreso.
Il fratello di Potnia era in piedi davanti alla tazza. Aveva le mutande calate e, urinando, reggeva un membro lungo e nodoso.
“Priapo!”. Disse. “Sei tornato …”.
Annuii intontito e, sopraffatto da una sensazione di calore, cominciai a salivare.
“Stai bene?” Insistette lui.
Avvertii un moto di slancio verso quel palo bruno e una poderosa erezione si risvegliò nelle mutande.
Mi ricordai dell’ammonimento del demone: "Non devi farlo se ciò che desideri non è il fallo".
“Cazzo …!”. Pensai e, nello stesso istante, mi misi a quattro zampe e mi gettai ai piedi del ragazzo.
Lui mi fissò allibito.
“Ascolta”. Gli dissi in preda a una fortissima eccitazione. “Hai davvero un bel corpo … Ed io … Ho proprio bisogno di provarlo …!”.
E, approfittando del suo stupore, passai la lingua sopra agli alluci, risalii lungo le cosce e ingoiai la sua grossa mazza africana.
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