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Il prete di campagna - 6


di LuogoCaldo
15.12.2024    |    6.680    |    12 9.8
"Sulla parete di fondo c’erano ben due uscite..."
Quel giorno, dopo la messa, rimasi a lungo in ginocchio sotto al crocefisso pregando che il Signore mi indicasse come avrei dovuto comportarmi.
Quale era la priorità? Tenere lontani i ragazzi o separare il piccolo tentatore da Federico Giusto?
E poi, certo, c’era il mio dramma personale.
Mi sentivo in colpa per l’intensità del piacere che avevo provato quella notte e non riuscivo a dimenticare l’immagine dei grossi coglioni di Biagio che sbattevano sul culo bianco del fratello.
Il suo desiderio.
La ferocia con cui l’aveva posseduto.
L’estasi in preda alla quale gli aveva morso la schiena.
Per quale ragione a me non era mai stato consentito di lasciarmi andare in quel modo?
In quale momento e con quale coscienza avevo rinunciato a quel tipo di piacere?
Ripercorsi le tappe della mia vocazione ma non riuscii a individuare nel percorso una qualche forma di fuoco che avesse acceso i miei intendimenti e mi resi conto che non sapevo dire se quella scelta di vita mi fosse stata suggerita dalle suggestioni dello zio cardinale o avesse risposto alla mia vocazione più intima.
Dopo cena mi misi a letto carico di pensieri e decisi, l’indomani, di recarmi a casa della donna che avevo accolto in confessionale per consigliarle di usare maggior rigore con suo figlio, allontanandolo non solo da Biagio ma anche da Federico Giusto.

Il casolare si trovava in fondo all’arteria principale del paese, piuttosto distante dalla canonica.
Alle tre del pomeriggio ero certo che avrei trovato la sorella intenta a riordinare la cucina dopo il pranzo.
Il cancello era aperto e nell’aia i cani e le galline scorrazzavano liberi tra i cumuli di neve.
Spinsi l’uscio della porta.
“Ehilà! C’è nessuno?” Chiesi.
Avanzai attraverso l’ingresso e impegnai la sala da pranzo senza incontrare anima viva.
“Sarà in cucina e non mi sente” Pensai quando, proprio mentre ero sul punto di varcare la porta del salone, fui raggiunto dal suono di una voce maschile.
“Sei sicuro che non torna?” Chiedeva.
“Si. Mmmh. È andata a recitare il rosario dalla vicina. Mmmh. Prima delle cinque non torna”.
“È Flavio”. Pensai. “Meglio che ci sia anche lui così sentirà quello che ho da dire alla madre. Ma perché parla così?”
Stavo per palesarmi quando ancora una volta la voce mi frenò
“Che sucapesce che sei! Aaaaah”. Tuonò l’uomo che ormai avevo già riconosciuto come Federico Giusto.
“Sono arrivato tardi!” Mi dissi, e, appiattito dietro la porta, feci per tendere il collo oltre il cornicione per guardare cosa stesse succedendo.

“Hai sentito?”. Sussurrò il professore allarmato. In lontananza si udì il suono concitato degli animali.
“Cosa?”. Rispose il piccolo demonio. “Sono le galline”. Pausa. “Stai tranquillo, dai. Fanno sempre. Così”.
“Forse mi conviene andare via”. Pensai.
Ma la curiosità era troppo forte.
Mi accovacciai in terra e, preso coraggio, finalmente guardai.
La scena che mi si parò dinanzi agli occhi era surreale.
Il tavolo del salone era cosparso di libri e materiale di cancelleria e, di fianco ad esso, la poltrona, anziché rivolta verso il bordo, era stata girata di lato.
Federico Giusto sedeva completamente nudo con la nuca rovesciata all’ indietro per il piacere. La bocca era socchiusa e il pomo d’Adamo rotolava lungo il collo taurino.
Le cosce, spesse come tronchi, erano completamente spalancate e il cazzo di dimensioni ciclopiche svettava fino a sopra all’ombelico.
“Succhiamele così, troia, così!”
Il piccolo demonio, anch’egli senza vesti, era rannicchiato sul tappeto e, proteso in avanti verso l’inguine del professore, esibiva le natiche rosse per gli schiaffi ricevuti.
La schiena era flessa fino alla curva cervicale e, al fondo di quell’arco, la punta della lingua accarezzava i coglioni cadenti del toro.
“Apri quelle cazzo di labbra”. Gli ordinò l’uomo. “Voglio che te li ficchi in gola”. E, in preda ad un impeto improvviso balzò in piedi, tirò i capelli del ragazzo verso di sé e, raccoltisi i testicoli nel palmo della mano, glie li sistemò in bocca.
Flavio riusciva a stento a contenere l’ingombro delle palle e due rivoli di saliva gli colavano sui lati delle guance. Succhiava lo scroto del professore come se fosse stata la mammella di una giumenta e mugolava per il piacere di accogliere quella parte dell’amante dentro di sé.
Le galline presero a starnazzare più rumorosamente.
“È rischioso rimanere qui”. Mi dissi, ma ero così preso dalla scena e consumato dal desiderio di possedere il piccolo demonio che non riuscii ad abbandonare la stanza e iniziai anzi ad accarezzarmi il sesso.

Federico Giusto si staccò il ragazzo dai coglioni, lo sollevò in braccio e lo dispose sul tavolo con le cosce larghe e il culo sporgente oltre il bordo.
Tirai fuori l’uccello e presi a segarmi.
“Quanto vorrei stare in mezzo a quelle gambe”. Pensai.
“Scopami”. Mugolava il demonio. “Usami per svuotarti”.
Il professore era così alto che dovette flettere le ginocchia per riuscire a puntare l’asta contro la rosetta e, quando ebbe appoggiata la sua erezione, assestò una sberla alla troia in pieno viso.
“Non devi chiedere”. Tuonò e, afferratolo per le caviglie, gli spinse la minchia in fondo al retto.
Il piccolo divaricò le gambe per accogliere il toro in profondità e si coprì la bocca con entrambe le mani soffocandovi le urla.
Desideravo quella cagna come non avevo desiderato nessuno in vita mia.
“Ha la pelle di seta”. Pensai.
Lo spettacolo della schiena muscolosa del professore che ondeggiava ad ogni colpo di reni mi stava facendo perdere il senno.
“Sei una puttana”. Mugolava l’uomo e, dopo aver indirizzato uno sputo copioso sul volto del ragazzo, prese a stantuffarlo con decisione.
Flavio aveva gli occhi sbarrati e, per la potenza delle spinte, faticava a mantenere la posizione.
Il maschio si calò su di lui sovrastandolo con tutta la sua mole, si aggrappò al bordo opposto del tavolo e lo montò con furia, mentre il piccolo gli cinse le mani intorno alle spalle, le fece scivolare lungo la curva dorsale e raggiunse i glutei enormi del suo aguzzino.
“Ti prego sfondami”. Gridò tirandoselo verso di sé. “Ti amo, ho bisogno di averti dentro tutti i giorni”.

Dalla posizione in cui mi trovavo riuscivo a vedere chiaramente i coglioni di Federico Giusto che sobbalzavano contro il buco del ragazzo.
Avrei voluto unirmi a loro e, insieme al professore, possedere quel demonio.
“Anche io ti amo”. Gli avrei risposto. “Ed è possibile che tu m’ abbia incantato perché dal momento in cui t‘ho visto per la prima volta ho capito che mi eri mancato per tutta la vita”.
Feci cadere la saliva nel palmo della mano e aumentai il ritmo della masturbazione.
Sentivo il calore diffondersi tra le gambe e lo sperma risalire lungo l’asta. Cercai di trattenerlo per coordinare l’orgasmo con quello degli amanti.
Il tavolo da pranzo tremava per la foga del professore.
“Cagna di merda”. Mugolava. “Guarda come m’hai ridotto”.
Ad ogni affondo le grosse natiche s’inarcavano come per caricare e poi s’abbattevano nuovamente contro l’inguine del ragazzo. Il dorso si muoveva sinuoso e il petto pesava completamente contro l’esile torace.
“Così lo rovina”. Pensai.
“Sto per sborrare, maledetto”. Urlò Federico.
E a quel punto mi fu chiaro che anch’io non sarei riuscito a trattenermi ancora per molto.
Strinsi forte la cappella nel palmo della mano.
“Ti prego ingravidami”. Biascicò il piccolo e, per un istante, chiusi le palpebre e finsi che lo stesse chiedendo a me.

In quel momento il guaire dei cani si fece assordante.
“Come facevo a immaginare che sarebbe accaduto questo?”
Tuonò una voce maschile.
“Cazzo!” Pensai. “Cazzo!”.
Mi sollevai l’elastico dei calzoni in preda al panico.

“È tornato qualcuno!”. Sussurrò il professore. “Che diciamo adesso? Dovrei già essere andato via”.
“Porca puttana”. Rispose il ragazzo. “Rivestiti. Cristo santo! Fa presto, ti prego. Papà mi ammazza”.
“Te l’avevo detto”. Federico Giusto parlava in preda al panico. “ Sei completamente matto e io più matto di te. Sono rovinato, cazzo!”.
“Vieni di qua”. Gli fece strada Flavio. “Sbrigati! Ti faccio uscire dall’orto”.

La voce sconosciuta era sempre più vicina.
“Devi smetterla di comandare”. Urlava senza freno. “Eravamo d’accordo su questo. Ti ricordo che non è colpa mia. Sei stata tu …”.
“Non mi interessa di chi è la colpa”. Rispose la donna. “Il problema ora va risolto. Lo saprà tutto il paese se questa cosa va avanti. Ma ci pensi a tuo figlio o ti interessa solo di te stesso?”

Imboccai la stanza accanto all’ingresso e mi ritrovai in cucina.
Sulla parete di fondo c’erano ben due uscite.
“E ora?”
Mi avvicinai alla porta battente. “Questa darà sull’orto”. Pensai. Non riuscivo a vedere nulla oltre gli infissi.
Abbassai la maniglia d’ottone e, dischiuso quell’uscio mi trovai difronte al ripostiglio.
Uno spazio angusto con una piccola lavatrice sul di un lato e una marea di cianfrusaglie ammassate ovunque.
Sbiancai.

“Flaviooo!” La madre del ragazzo chiamò in lontananza. “Ci sei?”
“Sbrigati, vieni!”. Disse il piccolo al professore mentre varcavano la soglia della cucina.
Mi nascosi nel vano e chiusi il più possibile gli infissi sperando che fuori non si riuscisse a vedere quanto riuscivo a vedere io.
“Esci di qua”. Proseguì il maledetto mentre spalancava la porta accanto a quella dietro alla quale mi trovavo. “Attraversa l’orto e raggiungi il garage. Di solito è aperto. Corri!”.
E tirando un sospiro di sollievo si richiuse l’uscio alle spalle.
“Dev’essere andato in paese”. La voce della madre proveniva ormai dall’interno dell’abitazione. “Flavio-o-o-o!”
Lui, ancora stravolto dalla concitazione dei minuti passati, cercò di ricomporsi ed era sul punto di raggiungere la coppia nell’ingresso quando la donna, convinta che il figlio non fosse in casa, parlò.
“Adesso, Ettore, ci mettiamo seduti in cucina e troviamo una soluzione”. Disse al marito. “Flavio non dovrà mai sapere niente altrimenti giuro che ti rovino davanti a tutto il paese!”
Il ragazzo si fermò, aggrottò le sopracciglia e tornò indietro.
Si guardò intorno allarmato e, repentinamente, aprì il ripostiglio.

“Ma che cazzo?” Sbottò atterrito proprio mentre i genitori varcavano la soglia della stanza.
Tirai la maniglia, serrai il palmo della mano sulla bocca del demonio e, cingendogli la schiena, avvicinai le labbra all’orecchio di lui.
“Per carità, non fiatare!” Sussurrai col terrore che fuori da quel ricovero di tenebra qualcuno avrebbe potuto accorgersi del battito accelerato dei nostri cuori.
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