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Relazioni pericolose (p.2)


di PaoloSC
21.04.2024    |    4.894    |    7 8.9
"1 e puntare ad essere il suo aiuto, e ora invece? Buttato due anni di carriera nel cesso!” fu il suo sfogo..."
Relazioni pericolose - Parte 2
(di Paolo Sforza Cesarani)

Una cena particolare

Daniela era davanti alla reception dell’ufficio e si era cambiata. La minigonna di jeans indossata con una camicetta aveva lasciato spazio ad un raffinato vestito corto, molto accollato davanti ma con una profonda scollatura dietro. Indossava calze fumé velatissime ed un paio di décolleté nere con tacco moderatamente alto, circa 8 cm.
Teneva in mano un cappottino color cammello di panno di cachemire con revers in colore più scuro.
Mi prese un colpo. Era meravigliosa. Così vestita non l’avrei riconosciuta al primo sguardo, talmente diversa era dalla sua immagine standard.
“Ti ho sorpreso così tanto da rimanere a bocca aperta, Paolo?” mi disse sorridendo.
“Beh, sinceramente stai benissimo. Non ti avevo riconosciuta” le dissi. “Come mai questo cambio d’abito?” le chiesi.
“Vado a cena con il mio capo temporaneo, è venerdì sera, sono da sola, il mio capo temporaneo è da solo. Perché no?” disse sorridendo.
Non sapeva che avevo appena saputo che la mia vita sarebbe cambiata radicalmente dal giorno successivo.
La presi sottobraccio e l’accompagnai fuori. Aveva smesso di piovere, per fortuna.
“Vogliamo andare a piedi o prendiamo la macchina?” le chiesi.
“Dovesse ripiovere, meglio prendere la macchina. Guida tu per favore” mi disse porgendomi le chiavi.
“Va bene. Ma dove parcheggiamo?” le chiesi aprendole lo sportello per farla entrare.
“Oh, semplice, lasciamo la macchina al ragazzo del ristorante che ci pensa lui. Hai prenotato con Tavolo12?” chiese.
“Il tavolo 12, si. Come mi hai detto tu!” le risposi chiudendo lo sportello della sua Y10 grigio metallizzato.
“No, non hai prenotato il tavolo 12. Hai prenotato con un codice, Tavolo12 per l’appunto, che prevede la fornitura di un certo numero di servizi tra i quali il valet per l’auto” spiegò.
“E quali sarebbero questi servizi, oltre al parcheggio della macchina?” chiesi.
“Lo scoprirai presto” mi rispose mentre con le mani cercava di far salire la calza sulla gamba sinistra scoprendo per un poco la balza dell’autoreggente, subito ricoperta con un rapido gesto di ricomposizione del bordo del vestito, così rapido e naturale come solo le donne cacciatrici sanno fare.
Dopo qualche svolta destra-sinistra-dritto-sinistra-dritto-destra-sinistra-dritto per seguire la serie di sensi unici delle stradine di Prati dietro piazza Cavour, arrivammo di fronte alla Svizzerotta. Ovviamente, non c’era un parcheggio nemmeno a pagarlo oro.
“Accosta qui, dai” mi disse Daniela indicando un pezzo di marciapiede libero ma presidiato da un ragazzetto con un berrettino da baseball con la croce svizzera ed una giacca a vento rossa con la croce bianca sulla spalla. Si avvicinò allo sportello, lo aprì e dette la mano a Daniela per aiutarla a scendere, poi venne di corsa da me e fece lo stesso.
“Lasci pure le chiavi al quadro. Ci penso io. Si accomodi, dottore!” mi disse con tono deferente.
Feci il giro della macchina e presi Daniela sottobraccio per accompagnarla dentro al ristorante. Un sussiegoso garçon ci aprì la porta del locale ove, proprio all’ingresso ci attendeva il maître de salle. Riconobbe immediatamente Daniela, si inchinò e la salutò. “Bonsoir madame, siamo felici di averla qui questa sera” le disse quasi sottovoce. “Dottore, la prego di seguirmi. Permettetemi di accompagnarvi al vostro tavolo”. Ci condusse attraverso un portoncino in un corridoio illuminato da applique che terminava allargandosi in un ingresso sul quale davano tre porte. Ci aprì la porta a destra, entrò e la tenne aperta pregandoci di entrare.
Credevo che avremmo mangiato in un salone assieme ad altri commensali ed invece ci fece accomodare in una sorta di salottino, arredato lussuosamente con un divano chaise longue, una bergère ed un tavolino apparecchiato per due.
“I signori gradiscono un po’ di prosecco?” chiese il maitre. Quindi schioccò le dita ed una porta dissimulata nella parete si aprì silenziosamente. Ne uscì un cameriere in smoking che recava un vassoio con due flutes ed un secchiello entro cui era una bottiglia di Cartizze millesimato, uno dei migliori prosecchi esistenti. Stappò con mano ferma la bottiglia e ne versò due dita in ciascun bicchiere. Poi prese il vassoio e ci servì.
Presi il bicchiere e lo porsi a Daniela, poi presi il mio e toccai con il bordo il suo.
“A che brindiamo?” mi chiese.
“Uh… diciamo che avrei tanti motivi per brindare…ma stasera non mi va di parlarne. Brindiamo a noi!” dissi tagliando corto.
La notizia della mia prossima paternità non mi aveva reso felice. Non era una novità che Francesca ed io fossimo in crisi già da qualche mese. Le gioie del matrimonio erano durate solo poco dopo il rientro dal viaggio di nozze. La presenza di Dede da divertente era divenuta immanente e quasi imbarazzante. Certe volte mi chiedevo se avevo sposato Francesca o Francesca & Dede. E altrettanto si chiedeva Adriano, suo marito.
Ed il fatto di sapere che Francesca aspettasse un figlio da me proprio nel momento del massimo scazzo tra noi, non era una cosa che mi riempisse di gioia o di felicità.
Avevo sinceramente pensato di separarmi per un po’, di tornare a casa dei miei per disintossicarmi da una vita che non mi apparteneva.
Francesca in un primo tempo mi trascinò tutte le sere fuori. Una volta era un vernissage, un’altra il concerto di pianoforte e quartetto d’archi delle sue amiche di scuola, un’altra volta la conferenza sulla filosofia orientale tenuta dal suo santone, oppure uno dei mille mila eventi della cerchia di amicizie di Dede, una corte di gay efebici, lesbiche con bicipiti da camionista, improbabili esperti di moda che giravano con un maltese toy sotto braccio ed il rossetto sulle labbra. Poi fortunatamente un giorno Donato mi chiamò, mi fece sedere sulla poltrona davanti alla scrivania, si mise a sedere sull’altra e mi disse: “Paolo, la vacanza è finita. Io ho bisogno del vecchio Paolo. Quello di prima del matrimonio, cazzuto, il genio. Di questo, non so che farmene. Anzi, te lo dico con sincerità. L’azienda non sa che farsene. Ma poiché l’Azienda, cioè noi, sa che tu sei una persona eccezionale, vuole che tu torni ad essere quello che eri prima. E ti dà un’altra opportunità. Ma è l’ultima. Poi è finita. Non ti licenzierà, perché non hai fatto nulla di male. Ma un conto è essere nella shortlist di quelli da chiamare a decidere sul futuro, ed un conto è essere nella lista di coloro che il futuro lo subiscono. Tu in che lista vuoi stare?”. Mi dette una pacca sulla coscia, si alzò, tornò dietro la scrivania, si sedette sulla poltrona buttandosi indietro con la schiena, accese una sigaretta con il suo Dupont d’oro, mi guardò ancora una volta e: “Salutami Francesca. Dille che le auguriamo una bella carriera come chirurgo estetico”.
Ricordo che tornai a casa distrutto, il morale sotto terra. Affrontai la sera stessa la cosa con mia moglie.
Le raccontai la spiacevole discussione a cui avevo partecipato. Le dissi dei miei timori, la pregai di cambiare modo di vivere.
“Ma cosa sto facendo di male, scusa?” mi chiese.
Mi resi conto che non aveva capito nulla di quello che le avevo raccontato. Era come se avessi parlato al muro.
Promisi allora a me stesso che avrei recuperato al massimo le posizioni perdute. Non lo facevo solo per me. Lo avrei fatto anche per i miei eventuali, futuri figli. Mi rigettai a capo basso nel lavoro. Entravo in ufficio alle 7:30, 7:45, quasi sempre il primo, ed ero sempre l’ultimo ad andare via. Il venerdì sera, per quanto presto facessi, tornavo a casa alle 10 di sera. Negli altri giorni, difficilmente prima delle 23. I risultati non tardarono a tornare. Vincemmo un mucchio di trattative, la mia documentazione tecnica era ineccepibile, i miei progetti brillanti, le invenzioni geniali.
Certo, dal lato opposto avevo in parte perso Francesca che si era ancor di più legata a Dede.
Ne parlai ad Adriano.
“Ma Dede che problema ha?” gli chiesi un giorno a brutto muso.
“Giuro, Pa’, non la capisco manco io” mi rispose alzando le braccia. “Non lo so. So solo che spende un sacco di soldi e sta tutto il giorno fuori di casa. Io mi spacco il culo da mane a sera, lei la sera vuole uscire, divertirsi, non le basta quello che fa durante il giorno. Io sono distrutto dalla stanchezza e lei vuole uscire!”
“Dobbiamo fare qualcosa per calmarle, altrimenti queste ci mandano ai matti!” aggiunse.
“Si, mettiamole incinte!” dissi scherzando. Peccato che avessi appena vaticinato il mio futuro.

“Allora brindiamo a noi!” disse Daniela, levando il calice.
“Paolo? Ci sei?” mi richiamò Daniela.
“Come? Si, scusa. Si, a noi e… prima che me lo dimentichi, grazie mille Daniela per quel che hai fatto e che stai facendo”.
Per un attimo mi sembrò di vedere un senso di delusione stagliarsi nettamente sul viso di Daniela, come se avessi detto qualcosa, o omesso di dire qualcosa, che l’aveva disillusa. Ma fu questione di un attimo perché subito sorridendo si avvicinò ancor di più e: “Ti piace come mi sono vestita?” mi chiese muovendosi come una gatta.
“Se mi piace? Sei fantastica. Bellissimo il vestito, mi piace da morire. E poi, hai una schiena talmente bella che questa scollatura la esalta” le dissi guardandola negli occhi mentre però indicavo con la mano che reggeva il bicchiere la sua schiena.
“Ti piace davvero?” rispose mentre si girava verso di me, girando la testa cercando di osservare da sopra la sua spalla la profondissima scollatura posteriore.
“Sai che ho dovuto per forza mettere le autoreggenti perché tutti i collant che ho provato uscivano dalla scollatura, e pure gli slip mi hanno dato un sacco di problemi. Però il vestito mi piace così tanto!” aggiunse guardando un punto nel vuoto, buttando questo argomento con la massima nonchalance.
Ebbi per un attimo un blocco della respirazione e sentii nel contempo una fitta all’inguine. Non mi aspettavo un attacco così rapido ed immediato, almeno, non prima di aver mangiato e bevuto abbastanza da avere la scusa di aver perso la ragione.
Mi chiese se potevo prenderle le sigarette dentro la borsa che stava poggiata sul divano.
Per prenderle ero obbligato a passarle di dietro, non potevo fare altrimenti. Mi ritrovai ad osservarle la schiena e notai che la sua scollatura era talmente profonda che, da seduta, il vestito si era un po’ scostato dal corpo ed aveva evidenziato il fatto che Daniela non portava slip, mostrando due buone dita del solco dei glutei.
Inutile dire che mi ritrovai immediatamente con un’erezione che non ricordavo di aver avuto da lungo tempo. Comunque, le aprii il pacchetto, le offrii una delle sue sigarette, presi il mio Dupont e gliel’accesi. “Permettimi di darti fuoco!” le dissi ridendo. Era una battuta buttata lì per cercare di smorzare la palpabile tensione che si avvertiva tra noi.
“Oh, se è per questo, sono già tutta un fuoco!” disse sorridendo mentre sbuffava il fumo e si mordicchiava le labbra, le gambe accavallate e due buone dita di balza di pizzo delle calze in mostra.
Altra scarica di adrenalina e di ormoni. I nostri recettori erano ormai saturi dei feromoni che entrambi emettevamo e mandavano fuori scala i dosatori della dopamina: detto in parole povere, l’eccitazione sessuale era a mille. Sentivo l’afrore uscire dalle mie ascelle ed un umido calore emergere dal mio inguine. Parimenti, vedevo la pelle sopra il labbro superiore, sotto il naso, quella degli zigomi e della fronte di Daniela lucida di trasudo, l’odore del sesso mescolato all’essenza delicatamente speziata di ylang ylang e gelsomino di Calèche.
Ovviamente, questo si traduceva in me in una vistosa e quasi dolorosa erezione.
Un ding di un campanello richiamò la nostra attenzione. Si aprì la porticina dissimulata ed entrarono due camerieri con un carrello portavivande. Aprirono uno ad uno i coperchi rotanti e mostrarono le pietanze destinate alla nostra cena: ostriche di Cancale, farfalle alla puttanesca, filetto al pepe verde, mousse di cioccolato al peperoncino, accompagnati da varie bottiglie. Prosecco per le ostriche, Sagrantino per il pasto, Zibibbo per il dessert.
Ci accomodammo al tavolo e iniziammo a mangiare le ostriche. Daniela ne prese una, la bagnò con il limone e la leccò con voluttà, poi la succhiò e la prese in bocca facendola scivolare tra le labbra, la lingua a guidarla dentro. Ne prese quindi un’altra e me la mostrò. Era la rappresentazione fedele di una vulva, le grandi labbra aperte, le piccole labbra dischiuse, il peduncolo a simulare il clitoride. Spruzzò un po’ di limone e poi mi imboccò, facendomi succhiare il mollusco e le sue dita che lo sorreggevano. Quindi prese il guscio, lo leccò a sua volta, quindi prese le dita che mi aveva infilato in bocca e le succhiò una ad una. La testa mi pulsava, sentivo il battito del cuore accelerato ad almeno 130 colpi, un tump in testa, un tump in gola, un tump nelle orecchie. Ero certo di non aver mai provato un’eccitazione così forte.
“Paolo, mi è caduto il tovagliolo, puoi cortesemente raccogliermelo?” mi chiese tenendo le dita della mano sinistra sollevate mentre con la destra stringeva ancora una valva vuota.
“Certamente, dove ti è caduto?” le chiesi mentre mi alzavo.
“Proprio qui sotto le mie gambe!” rispose con voce innocente.
Mi chinai sotto al tavolo per essere accolto dalle sue gambe completamente spalancate, il vestito tirato su fin quasi ai fianchi, il suo sesso del tutto simile all’ostrica che mi aveva appena mostrato. Una corta peluria le incoronava il clitoride mentre il resto sembrava liscio come la pelle di un neonato. Si allargò quindi con una mano le labbra per mostrare la vagina stillante umori luccicanti e filamentosi.
“Ti prego, leccami!” mi chiese quasi implorandomi.
Mi chinai ulteriormente, mi avvicinai e le infilai la lingua tra le gambe, suggendo quella sorta di mollusco come avevo fatto in precedenza con l’ostrica. Mi dedicai quindi al suo clitoride, massaggiandolo, picchiettandolo, titillandolo con la lingua fino a che non sbocciò tra le piccole labbra assumendo le dimensioni di un pisello, un pisellino rosa su un’ostrica rosa. Mi aiutai con due dita che le infilai nella vagina scavando la sua intimità accogliente. Rovesciai quindi le dita verso l’alto cercando il bottone spugnoso del suo punto G, lo trovai ed iniziai a massaggiarlo con foga mentre la lingua continuava a torturare il suo bocciolo.
Daniela inarcò la schiena e divaricò ancor di più le gambe, emettendo un sordo grugnito di piacere.
“Ti prego, continua! Sto per venire!” sussurrò.
Continuai ad entrare ed uscire con le dita, ogni volta cercando di andare più a fondo. Ora aumentavo il ritmo, ora frenavo; mi fermai per dedicarmi al clitoride che ora si ergeva rosso, quasi pulsante. Dense strisce di umore stillante dalla sua vagina le stavano colando lungo le cosce. Poi, una serie di violente contrazioni accompagnate da un’abbondante secrezione quasi bianca, gelatinosa come lo sperma.
Si fermò, chiedendomi di interrompere la masturbazione, stringendomi la mano tra le sue cosce. Le sue guance erano diventare rosse, i capezzoli spingevano il leggero tessuto disegnando le ciliegine su due cupcakes. Si abbandonò con la schiena sulla sedia, ancora con il fiatone per l’orgasmo che l’aveva svuotata.
“Era…una…vita…che…non…venivo…così” mi disse tra un respiro affannato e l’altro.
Mi alzai e mi rimisi seduto, cercando di pulirmi la mano e la bocca dalle sue secrezioni.
“Vieni qui da me, per favore!” mi chiese.
Mi rialzai e mi riavvicinai a lei, poggiando una mano sulla spalliera della sua sedia e l’altra sul tavolo. Lei mi prese per la cravatta, mi tirò a se e mi leccò il viso attorno alla bocca pulendomi dal suo nettare. “Mmmm, buonissimo!” disse, prima di infilarmi la lingua in bocca sempre trattenendomi. A quel punto mi lasciai un po’ andare e partecipai attivamente al suo bacio prendendole la testa per la nuca mentre con la mano destra le accarezzavo il seno attraverso il vestito.
Daniela si alzò in piedi e si diresse verso il divano dicendomi “Non ho fame, adesso. O meglio, ho fame, ma di altro” e mi tirò a sé.
Fece scivolare il vestito dalle spalle rimanendo nuda con le sole autoreggenti. Aveva un seno fantastico, piccolo, sodo, con due capezzoli reattivi piantati al centro di due areole appena più grandi del capezzolo, rosa tenuemente più scuro della pelle. La vita era sottilissima, il ventre piatto con l’ombelico perfettamente incastonato al suo centro. Un palmo più in basso, il pube curatissimo, solo una striscia ad evidenziare la sua magrezza e ad indicare la sua fonte del piacere.
Aprì le braccia ad accogliermi. Mi fermai accanto al divano, indeciso sul da farsi. Cazzo, avevo appena saputo che mia moglie era incinta del nostro primo figlio, ed io stavo lì pronto a sbattermi la segretaria più fica dell’ufficio, molto probabilmente terreno privato di caccia dell’amministratore delegato. Mentre pensavo sfogliando mentalmente la margherita “Scopo o non scopo?”, Daniela mi prese e mi sbottonò i pantaloni e calò i miei boxer tirando fuori il mio pisello che era già da tempo in piena, potente erezione.
“Ah, ma qui siamo messi benissimo! Bello grosso, lungo e duro, come piace a me!” e si avventò con la bocca sulla cappella mentre con una mano mi masturbava e con l’altra mi massaggiava le palle. Fece per un po’ su e giù con la bocca sull’asta, leccandomi ogni centimetro.
“Che bello, sei depilato! La tua pelle è liscissima! Sembra seta!” mi disse mentre mi accarezzava tra una slinguata e l’altra.
Poi mi tirò a sé, mi fece stendere su di lei, prese con la mano il mio membro e lo portò verso la sua fica.
“Ti prego, spingi ed entra dentro di me!” chiese implorando.
Non riuscii a trattenermi. Entrai ed iniziai a scoparla violentemente, sbattendo il mio pube contro il suo.
Sentivo che stavo arrivando con la punta fino alla sua cervice e ciò le provocava fastidi, evidenziato da smorfie di dolore inframezzate da gridolini. “È che sei troppo lungo per me! Io non sono abituata a certi calibri. E poi sei pure bello grosso! Fortunata chi ti scopa!” mi disse ansimando.
La girai a pecorina e la infilai di nuovo con decisione.
Lei iniziò ad ansimare e a mugolare di piacere. Ogni colpo che le infliggevo era un ansimo, un gridolino di piacere misto a dolore, forse perché arrivavo ben dentro la sua intimità.
Ad un certo momento iniziai a stantuffare forte, talmente forte che talvolta uscivo dalla sua vagina, ormai un lago di secrezioni dense e scivolose. Poi lo rimettevo dentro al volo e seguitavo ad entrare ed uscire con intensità quasi al limite del violento.
Daniela venne un’altra volta. Il suo orgasmo la squassò, le ginocchia le cedettero, i muscoli della vagina si strinsero più volte attorno alla mia asta piantata dentro di lei. Uscii, ancora lontano dal mio culmine, lasciando la sua fica aperta e gocciolante. Si mise con le spalle appoggiate al bracciolo del divano, prese con le mani i glutei e li divaricò. “Ora, ti prego, mettimelo nel culo!” mi chiese, quasi supplicandomi.
Infilai le dita dentro la sua vagina ancora fradicia e me le bagnai di quell’umore trasparente, filamentoso, che spalmai abbondantemente sullo sfintere prima di infilarvi prima uno e poi due dita. Non ci fu resistenza, entrarono come un dito nel budino.
Appoggiai allora la cappella al suo forellino e premetti aspettandomi un minimo di resistenza, vista la differenza di dimensioni, ma la ragazza mi accettò come se nulla fosse. Mi ritrovai tutto dentro, il retto disteso come una guaina, lo sfintere a massaggiare la base del membro come un anello fallico.
Iniziai ad andare su e giù, su e giù sempre più velocemente. Daniela sembrava soffrisse, per cui mi fermai.
“Tutto bene? Ti sto facendo male?” le chiesi.
“Ma quale male e male! Dai, spingi, fammi sentire quanto sei grosso. Un cazzo come il tuo non l’ho mai preso e, giuro, mi stai facendo godere come mai! SPINGI!” rispose affannata.
Continuai a scoparle il culo con veemenza, tirando fuori il pisello ogni tanto per fargli prendere aria e raffreddarlo un po’, per poi rimetterlo dentro in quella cavità che rimaneva sfacciatamente aperta al centro del culo come la bocca de “L’urlo di Munch”, le sue mani come le mani del protagonista, le fossette al posto degli occhi. Anche quel culo era effettivamente un capolavoro.
Alla fine stavo per venire e glielo comunicai. “Sto per venire, Daniela!”.
Lei si sfilò, sorprendendomi, si girò, prese il cazzo in mano e mi masturbò portandoselo all’altezza del viso. Venni copiosamente, grossi schizzi le colpirono il naso, la bocca, gli occhi, i capelli. Poi me lo prese in bocca e lo succhiò ingoiando le ultime stille; si ripulì il viso con le dita che rimise in bocca, succhiandole e nettandole.
“Uhm, buono, dolce come mi piace!” disse gustando quel che per lei era un nettare.
Inutile dire che quella sera mangiammo veramente poco. Passammo gran parte del tempo a fare sesso in tutte le posizioni, le penetrai tutti gli orifizi, bevvi il suo nettare, lei mi succhiò come un cannolicchio e letteralmente mi prosciugò.
Per fortuna nostra, verso l’una di notte decidemmo che era abbastanza. Daniela ed io ci rassettammo, ci ricomponemmo alla meglio e suonammo il campanello per avvisare che eravamo pronti.
Venne un cameriere che, evitando di guardarci negli occhi, ci porse i nostri soprabiti. Aiutai Daniela ad infilare il suo, misi il mio e poi, ringraziando, allungai 10.000 lire di mancia al ragazzo.
Ci scortò di nuovo lungo il corridoio e ci accompagnò alla porta ove il maître ci attendeva compìto.
“Spero che sia andato tutto bene, signori. La cena era di vostro gradimento?” chiese.
“Ottima cena, piacevole compagnia, servizio ineccepibile ed accuratissimo” dissi celiando, riferendomi al servizio ricevuto da Daniela.
Portai la mano al portafoglio per prendere la carta di credito ma il maître mi bloccò alzando la mano “Il conto è stato già pagato, dottore” mi disse.
Guardai Daniela con sguardo interrogativo ma lei mi fece cenno di tacere e soprassedere.
Uscimmo e mentre aspettavamo che il valet portasse la macchina di Daniela, pensai che non me la sentivo di portarla a casa mia, ma non mi andava nemmeno di lasciarla lì, arrivederci e grazie.
Le chiesi pertanto se avesse piacere di essere accompagnata a casa, al che mi rispose: “E poi come fai a tornare indietro?”
“Io pensavo di dormire da te e di tornare in ufficio con te, domattina” le risposi con malcelata speranza.
“Paolo, non è possibile. A parte che domani è sabato… e poi, non sono da sola a casa. Se avessi potuto, ti avrei invitato a cena da me e allora saremmo stati assieme tutta la notte!” rispose.
Giusto. L’indomani era sabato e Francesca sarebbe di certo rientrata, soprattutto vista la notizia che mi aveva dato al telefono.
Stavo per dirlo a Daniela quando realizzai che avrei fatto un errore a parlarne. Preferii tacere, mi avvicinai, le presi il viso tra le mani e la baciai delicatamente sulle labbra.
“Grazie Daniela. Non hai idea quanto mi abbia fatto bene questa sera” le dissi con sincerità.
“Non hai idea tu quanto abbia fatto bene a me!” mi rispose invece ammiccando ed alludendo al piacere che ci eravamo vicendevolmente regalato.
Ci salutammo, io mi incamminai verso l’ufficio a riprendere il motorino ma, arrivato a piazza Cavour, decisi che sarebbe stato meglio prendere un tassì.
Scesi dopo poco sotto casa, salii, entrai, mi spogliai al volo e mi buttai sotto la doccia. Volevo cancellare gli odori che ancora mi permeavano le narici ed assieme a loro, i sensi di colpa.
Poi, cercando di annullare ogni minima traccia di Daniela, versai del vino rosso sulla camicia e la misi in ammollo in acqua saponata. Presi i boxer ed calzettoni e li chiusi in una busta che nascosi in balcone nell’armadietto degli attrezzi assieme agli stracci da lavoro. Non contento, versai altro vino sui pantaloni, un po’ all’altezza della patta e del cavallo ed un po’ sulla coscia destra; li misi quindi tra la roba da lavare, pronto a giustificare il tutto con la mia distrazione.
Mi buttai quindi a letto, cercando di addormentarmi.


Discussioni

Il mattino successivo mi svegliai tardi, al suono del telefono sul comodino.
“Pronto” risposi con la voce impastata dal sonno.
“Paolo?” dall’altro capo del telefono. Era Francesca.
“Ciao Fra. Buongiorno.”
“Ma stai ancora a letto? Ma ti sei svegliato adesso?” mi chiese.
“Si, sono ancora a letto. Mi hai svegliato tu” risposi. “Ma che ore sono?” chiesi.
“Sono le undici e tre quarti. Noi abbiamo quasi finito qui. Aspetto l’intervento di chiusura del Professore e poi partiamo. Le valigie sono già in macchina” mi rispose.
“Okay, vieni piano. Non correre, come tuo solito” le dissi.
“Guarda che se c’è qualcuno che corre, in macchina, sei tu, non io di certo!” rispose piccata.
“Già, ma ora sei incinta, porti una creatura in grembo. Pensa anche a lei” replicai.
“Di questo parleremo quando torno” mi disse con un gelo inspiegabile.
“Beh, non mi pare di certo un argomento da trattare al telefono. Ma mi pare di capire che non sei felice!” insinuai.
“Felice io? Come una pasqua!” rispose ironicamente. “Soprattutto nelle mie attuali condizioni” aggiunse.
“Intendi le nausee?”
“Le nausee, il fatto che sfascerò il mio corpo, il fatto che tra un po’ dovrò smettere di lavorare e tutte le altre squinzie del Prof. approfitteranno della mia impossibilità ad essere presente per farmi le scarpe!” si lamentò.
“Non ti credere: mi hai fatto un bel regalo, mettendomi incinta. Proprio un bel regalo. Ero riuscita ad entrare nelle grazie del Prof. e a dimostrargli che ero la migliore, che potevo diventare la sua assistente n.1 e puntare ad essere il suo aiuto, e ora invece? Buttato due anni di carriera nel cesso!” fu il suo sfogo.
“Non dire cazzate, Fra’. Stai parlando di un figlio, cazzo, non di una cena o di una bevuta. UN FIGLIO!!!” mi lamentai urlando al telefono. Niente, mi aveva fatto incazzare. Sbattei giù il microfono senza salutare. Ero troppo incazzato, e non ero in condizione di essere lucido ed obbiettivo.
Risquillò il telefono. Presi il microfono e lo portai all’orecchio senza fiatare.
“NON TI PERMETTERE MAI PIÙ DI ATTACCARMI IL TELEFONO IN FACCIA. ALLA PROSSIMA LO PRENDO E TE LO FICCO NEL CULO!” mi urlò contro, talmente forte che dovetti allontanare il microfono dall’orecchio.
“tu tu tu tu..” il segnale di comunicazione chiusa dall’altra parte.
Non potevo richiamarla, non avevo il numero e l’organizzazione del convegno non mi era parsa molto all’altezza, almeno nella gestione delle chiamate. Rimandai pertanto al ritorno di Francesca il chiarimento.
Decisi di chiamare Daniela.
“Ciao!” mi rispose.
“Pensavo avessi dimenticato che esisto!” aggiunse.
“Oh, Daniè, non ti ci mettere pure te, eh?” le risposi piccato. “Oggi non è giornata!” dissi.
“Allora, se oggi non è giornata, lasciamo stare. Ci sentiamo più tardi, domani, oppure ci vediamo lunedi in ufficio, capo…” ed attaccò.
E due.
Beh, oggi con le donne era un successone.
Chiamai mia mamma, sperando in un invito a pranzo.
“Mamma, come stai? Che mi prepari di buono?” le chiesi dopo aver fatto il numero ed atteso che rispondesse.
“Oggi? Nulla, figlio mio. Stiamo uscendo con papà e stiamo andando a Pescasseroli, dagli amici. Mi spiace!” mi disse.
Augurai loro buon viaggio e ci salutammo. E tre!
Mi alzai, preparai il caffè e mi misi sul divano a leggere una rivista che avevo portato dall’ufficio e che non avevo ancora guardato. Mentre sorseggiavo la mia tazzina, mi venne in mente di chiamare Adriano per chiedergli se aveva parlato con Dede.
“Adriano, ciao! Disturbo?” fu il mio saluto.
Gli raccontai brevemente la burrascosa chiamata con Francesca e gli chiesi se per caso Dede gli avesse accennato qualcosa.
“In realtà mi ha raccontato solo che Francesca ha scoperto di essere incinta. Per inciso, potevi chiamarmi e dirmelo tu. Sei uno stronzo!” mi rispose.
“Scusa Adriano, è che ieri ho fatto tardi in ufficio e non avevo proprio voglia di parlare con nessuno”.
“Non dire cazzate! Ti ho cercato sia in stanza che in laboratorio software dove di solito ti rinchiudi e mi ha risposto uno dicendomi che ti aveva visto uscire con la segretaria!”.
Azz… sputtanato!
“Adriano, si, è vero. Sono andato a cena fuori. Sono stato invitato dalla mia segretaria temporanea. Beh, avrei dovuto farlo io, ma lei mi ha anticipato ed ha organizzato tutto…” dissi con il tono più naturale e contrito possibile.
“E?”
“E cosa?”
“E che cosa hai fatto? Come si è conclusa la serata?” mi chiese.
“Ognuno a casa sua!” risposi. Era la verità, in fin dei conti.
Non mi andava di sputtanarmi con il mio amico. Volevo averlo dalla mia parte in un eventuale contesa tra Francesca e me. Evitai pertanto di raccontargli della mia follia e della situazione incredibile che si era creata. Dubitavo che mi avrebbe creduto, se gli avessi raccontato della Svizzerotta e del Tavolo 12. Era troppo da film di spionaggio!”.
“Vuoi dirmi che sei uscito con un tocco di fica imperiale come Daniela, che si vede che c’ha fame di cazzo da un chilometro di distanza e mi dici che non te la sei scopata?” mi stuzzicò.
“Ma perché, la conosci, scusa?” gli chiesi.
“Ma sei cretino o che? Certo che la conosco. Era la mia ex, prima di Dede! E so di certo che è una che se ti piglia ti spolpa. Ti prende come un ossobuco, ti succhia tutto e lascia solo l’osso vuoto. Ci siamo lasciati perché ambiva ad altri …calibri, la stronza!” mi disse.
“Ma dai, non è stronza. Non con me, almeno!” ribattei.
“Vabbè. Te la sei scopata o no?” chiese.
“No. Assolutamente no. Con quelle dell’ufficio MAI!” affermai con un tono che non lasciava fraintendimenti.
“Se se… come se non si fosse passata tutti i dirigenti del tuo ufficio… Dai, Paolo, apri gli occhi! Quella fa carriera perché sa gestire bene ciò che ha in mezzo alle gambe e grazie alla sua agenda. Si è scopata mezza Roma che conta, e l’altra metà è in lista d’attesa. E si fa pure le mogli, soprattutto se sono bone. Strano che non ti abbia chiesto di uscire assieme a Francesca!” mi disse.
Avevo sentito alcune chiacchiere in ufficio sull’atteggiamento libertino di Daniela e alcuni mi avevano giurato che era stata vista fare un pompino all’Amministratore Delegato attraverso la finestra della sua stanza, ma avevo derubricato la cosa ad una mera diceria figlia dell’invidia.
La discussione con Adriano mi aveva aperto gli occhi da un lato e messo in allarme dall’altro.
Dovevo pensare ad una linea di comportamento che non provocasse eventuali ripicche. E se era vero che il mio boss se l’era trombata, se ne fosse venuto a conoscenza sarebbero stati augelli senza zucchero.
Ma per il momento, dovevo concentrarmi sulla notizia che mi avrebbe cambiato la vita da lì a breve: la mia prossima paternità.
A metà pomeriggio arrivò Francesca. Suonò al citofono pregandomi di scendere giù ad aiutarla con la valigia, aveva la nausea e non riusciva a fare sforzi.
Andai immediatamente in suo soccorso e presi le due sacche pesantissime e le misi vicino all’ascensore. Poi dissi a Francesca di salire e di lasciare tutto com’era, che avrei pensato io a mettere la macchina nel box e a portare su le sacche.
Feci manovra con la macchina protestando tra me e me per il fatto che Francesca aveva spostato il sedile praticamente attaccato al volante, poi richiamai l’ascensore e infilai con un certo sforzo quei due macigni da trenta chili l’uno nella cabina, cercando di metterli in modo che si potessero chiudere le porte.
Trascinai quindi quelle due salme in camera e le misi sul letto ove si era distesa mia moglie, bianca come un cencio.
“Fra, ma ti senti male?” le chiesi.
“Nooo, sto benissimo. Ho solo vomitato l’anima, mi sento lo stomaco in gola e come penso a qualsiasi cosa che sia edibile ho un conato. Non mi reggo dritta e sono incazzata nera con te. A parte queste sciocchezze, sto benissimo. Una MERDAVIGLIA!” mi rispose con un tono incazzato, sarcastico e cattivo.
“Incazzata con me? E per quale motivo, scusa?” le chiesi.
“Lo sai perché” rispose.
“No, non lo so. Non ne ho idea. Se pensi di addossarmi la colpa di essere incinta, bella, ti sbagli. I figli si fanno in due. Mi sembra che a te piaccia scopare almeno quanto piace a me. E non ti sei mai tirata indietro, da quando …” e mi tacitai.
“Da quando?” chiese.
“Da quando… da quando siamo stati in Grecia.”
“Lo vedi? Colpa tua. Chi è che voleva fare le cose strane, fare l’esibizionista, farmi prendere il sole nuda, farmi girare senza intimo?”
“Si, certo, io. Ma se non ti fosse andato a genio, non lo avresti fatto. Così come non ti saresti fatta scopare da me e da Adriano assieme, se non lo avessi voluto tu!”
“Eh già. Lui si, poteva scoparsi tutte, io no. Solo quello che dice lui!”
“Ma guarda che io non ho scopato nessuna prima!”
“Prima no, ma dopo? Non ti ricordi nulla di quell’ultimo giorno? Ti sei scopato Dede, da solo e con Adriano, ti sei scopato Federica, ti sei scopato Patrizia, ti sei fatto spompinare da tutte. Tra un po’ ti scopavi anche quella del locale! E io dovevo stare lì a fare la cornuta e abbozzare? No, caro!”
“Avevamo detto però che avremmo sepolto questa storia e non ci saremmo torniti più sopra. Era successo, era finita. Basta. Invece questo tuo lamento mi fa capire che per te la storia non è finita ed hai ancora un conto aperto con me!”
“Conto aperto? E ti pare normale che sei mesi prima di sposarci abbiamo fatto un’orgia? E non una volta, ma tutta una settimana! E ora pretendi che io dimentichi tutto con uno schiocco di dita, così!” e schioccò pollice e medio producendo un rumore secco.
“Vabbè, scusa, ma che c’entra questo con il fatto che sei incinta? E poi, non prendevi la pillola? Non avevamo detto che avremmo aspettato un po’ prima di fare dei figli? Cara mia, tu lo sai che io lo so, che la pillola è sicura al 100% ma se ne salti una sola, sono cazzi. Non è che ne hai saltata una?” le chiesi, accusandola di poca attenzione.
“IO NON HO MAI SALTATO UN GIORNO!” mi rispose urlando.
Mi calmai. Non era il caso di esagerare.
Mi sedetti accanto a lei sul letto e con tono il più calmo possibile le dissi: “Fra, magari hai vomitato, oppure avevi forte acidità e non ha fatto effetto. Cerca di ricordare!”
Francesca stette per qualche secondo in silenzio, concentrata sui ricordi recenti.
“In effetti, venti giorni fa sono stata molto male, ricordi? Abbiamo mangiato quella cosa che ci ha fatto male al ristorante assieme a Dede e Adriano.”
“Quale Frà? Non ricordo”
“Ma sì, la peperonata, in quel ristorante a viale Parioli, la Stufetta, ricordi? Che quando sono tornata a casa avevo preso un bicchiere di citrosodina per cercare di digerire.”
“Embè? La pillola l’avevi presa la mattina, mica la sera.”
“Si, ma la mattina dopo avevo ancora tanta acidità. E poi, avevo preso il caffè perché dovevo andare in clinica ad assistere il Prof. in quella mammoplastica a quella (riferendosi ad una nota attrice italiana). Ricordo che ho avuto un rigurgito e ho sputato della saliva mista a acido. Ma non c’era la pillola. L’avevo presa appena sveglia”
“Sta di fatto che, guarda caso, abbiamo fatto l’amore la sera, ti ricordi? Avevamo iniziato a scherzare sulle tue tette, che il prof voleva sistemartele, e poi siamo arrivati alla plastica alle piccole labbra, che io ti ho osservato da molto, molto vicino… ricordi?” le dissi.
Francesca annuì sorridendo. Ma subito un’ombra le attraversò lo sguardo e il malumore si rimpossessò di lei.
“Tu con la tua mania di venirmi dentro!”
“E tu con il tuo rifiuto a ingoiare!”
“Fra, così non andiamo da nessuna parte. Non è accusandoci a vicenda che risolviamo il problema” dissi dopo qualche istante di silenzio.
“Dobbiamo decidere se vuoi portare avanti la gravidanza o vuoi interromperla.”
“VUOI? E che è una decisione mia?”
“In un certo senso, si. È una tua decisione. Io ho il diritto di esprimere la mia opinione, ma l’ultima parola la avrai tu. Sei tu che porti la creatura in grembo. Sei tu che soffrirai per mesi, che avrai i problemi di digestione, le gambe gonfie, il caldo, il peso, la schiena, e poi i dolori del travaglio, il parto, e poi l’allattamento, lo svezzamento… insomma, la madre sei tu e nessuno può sostituirti. Io posso solo darti una mano, ma sai che alla fine, è tutto in capo a te!” le dissi con la massima franchezza.
“Per cui, te lo richiedo: cosa vuoi fare?” le dissi.
“Dimmi cosa ne pensi tu” mi rispose a voce bassa.
“Io penso…” e feci una pausa, cercando di essere sicuro del pensiero che nel frattempo avevo formulato. “Io penso che dobbiamo tenerlo. Anzi. TenerlA, perché è femmina.”
“E che ne sai tu se è maschio o femmina? Non lo sapremo fino a che non faremo l’ecografia alla quindicesima settimana. Prima è praticamente impossibile. E non è detto che si riesca, perché se il cordone ombelicale è in mezzo alle gambe ed il feto non è in posizione, con la sonda rischi di vedere poco o di confonderti. Dovrei fare una villocentesi ma è un accertamento sperimentale e troppo pericoloso. Io non ho malattie ereditarie né storie familiari tali da consigliarmelo. Domani lo chiedo a mamma. E tu, invece?” mi chiese.
“Io? Non credo di avere storie familiari di problemi genetici di alcun tipo. Almeno che io sappia. Chiederò anch’io. Comunque, sono certo che è femmina, me lo sento” dissi con tono sicuro.
“Tu cosa vorresti?” le chiesi.
“Innanzitutto non so ancora se lo voglio, un figlio. Secondo poi, per me basta che sia sano. Se ha preso i geni miei, sarà bellissimo o bellissima. Se ha preso i tuoi, sarà una egoista, egocentrica rompipalle. Con dei begl’occhi, però. Ed una bella bocca” si sollevò e mi baciò.
“Scusa, Paolo. Cerca di capirmi. Sono confusa. Non so, non ero pronta, non sono pronta.”
“E tu pensi che io lo sia?”
“No. Anche tu non lo sei, lo so. E scusa per ieri, lo so che se lavori tanto è per noi, per il nostro futuro. Ho parlato con Adriano, sai, e mi ha detto tutto quello che ti ha detto Michele. Per inciso, bell’amico! Io uno che mi ricatta e mi minaccia non lo considero un amico, ma un figlio di puttana!” mi disse, rivangando la storia delle minacce di demansionamento e di messa in panchina in caso non avessi ripreso a lavorare con i ritmi ed i risultati consoni a cui avevo abituato i miei manager.
“Allora capirai perché sono costretto a fare questa vita.”
“Cambia lavoro, allora. Se sei tanto bravo, manda il curriculum in giro!”
“Come se fosse facile. E giacché nel nostro mondo tutti sanno che io faccio parte di una certa cordata, di certo non mi assumono sapendo di fare uno sgarbo ad un pericoloso competitor. No, non è possibile. Non ancora, almeno. A meno che non decida di cambiare lavoro, attività, mercati” risposi alla provocazione di mia moglie. “Allora, visto che ci siamo, perché non cambi anche tu ambiente? Non mi piace che tu sia così disponibile con quel …professore” le dissi mimando le virgolette attorno alla parola “professore” con le dita. “Mi sta sul cazzo, lo trovo viscido e secondo me ti sfrutta. Sfrutta la tua bellezza naturale e ti tratta come se fossi una sua creatura per far credere che sia stato lui a farti così” le dissi.
“Ma chi cazzo ti mette in mente queste stronzate, scusa?” rispose.
“Nessuno. Sono miei pensieri” insistetti.
“Pensieri del cazzo. Allora, ripeto, pensa a cambiare lavoro che a me quel tuo caro Michele mi sta sul cazzo e non mi piace. Per me si sta facendo bello con il tuo lavoro” scimmiottò il mio discorso di poco prima.
“Sai che c’è, Fra? Non ho proprio voglia di parlare con te. Mi hai fatto incazzare. Vado a fare un giro a piedi. Anzi, vado a recuperare il motorino che ho lasciato in ufficio” dissi.
“E perché avresti lasciato il motorino in ufficio, di grazia?” mi chiese con aria polemica.
“Perché mentre tu stavi beatamente leccando il culo al tuo professore, io stavo chiuso in ufficio a lavorare e quando sono uscito diluviava, per cui sono venuto in tassi” risposi seccato. Stavo cercando rogna.
“NON TI HO DETTO COTICA! RISPONDI PER BENE PERCHÉ NON TI HO DETTO NULLA DI OFFENSIVO E NON C’È BISOGNO CHE TU MI OFFENDA!” rispose ad alta voce Francesca.
Non so perché lo feci, ma mi alzai di scatto, presi la giacca, le chiavi di casa ed uscii senza salutare, sbattei la porta e me ne andai.
Scesi le scale di corsa e mi avviai a passo svelto verso Prati. Certo, non erano due passi, da Vigna Stelluti erano almeno un’ora a piedi. Arrivato a Corso Francia, attesi il passaggio del primo autobus che mi portasse a Piazzale Flaminio. Dopo qualche minuto passò il primo. Lo presi, vidimai il biglietto che portavo sempre appresso e mi misi a sedere. Roma di sabato ha un’atmosfera particolare, e all’inizio della primavera è sempre stupenda e quel giorno non era differente; aria tersa e un tiepido sole la rendevano se possibile ancora più bella.
Arrivai relativamente presto al capolinea, scesi dall’autobus e mi diressi di buon passo verso lungotevere e piazza della Libertà, meta finale via Cassiodoro.
Entrai in ufficio per prendere le chiavi del motorino che avevo lasciato sulla scrivania. Prima di prendere le scale per salire in stanza buttai un occhio verso la direzione per vedere se c’era qualcuno. La porta dell’ufficio dell’AD era stranamente chiusa e la luce in segreteria era accesa. Volevo entrare ma preferii salire in stanza.
Mi misi a sedere alla scrivania e con un gesto meccanico accesi il computer. Mi ricordai che avevo lasciato a metà un lavoro sulla presentazione e pensai che, visto che a casa era meglio non rientrare subito, avrei potuto impiegare meglio il tempo terminandolo.
Mi misi pertanto al lavoro ed in effetti, privo di distrazioni mi concentrai e portai a termine in un paio d‘ore quanto avevo lasciato in sospeso.
Lo squillo del telefono mi sorprese e mi riscosse dall’isolamento in cui mi ero calato.
“Paolo? MA DOVE CAZZO STAI? SEI ANCORA IN UFFICIO? PERCHÉ STAI IN UFFICIO? CHI C’È LÌ CON TE?”. Era Francesca, inviperita per essere stata lasciata da sola e per il fatto che me ne ero andato via di casa senza dirle nulla.
“Sono in ufficio, dove mi hai chiamato. Come vedi, ti ho risposto. Sono alla mia scrivania. Sto lavorando e gradirei non essere disturbato. Sono da solo, è sabato e la gente di solito il sabato non lavora, quindi si, sono da solo. E sto benissimo. Cosa vuoi?” risposi con tono secco ed incazzato.
“Non è vero che sei da solo. Mi ha risposto Daniela e mi ha detto che non sapeva che ci fossi e che avrebbe provato a passarmi l’interno!”
“E come vedi sto al mio interno e non sapevo che ci fosse Daniela. Immagino sia qui con l’amministratore delegato. In fin dei conti è la sua segretaria!” dissi, più a me stesso che a lei. Ma sapevo già che cosa era successo in quella stanza con la porta chiusa. “Quindi per favore, falla finita e dimmi che cosa vuoi” prosegui, sempre con un tono seccato.
“Vorrei che rientrassi a casa. Ti prego!” e scoppiò a piangere. Non era decisamente la Francesca a cui ero abituato. Sinceramente, provai una stretta al cuore.
“Non mi lasciare da sola! Per favore” singhiozzò.
Chiusi il computer, presi le chiavi del motorino e scesi al piano terra.
La porta dell’ufficio dell’AD era aperta, bussai alla porta e mi annunciai.
“Volevo salutarti, non mi aspettavo di trovarti in ufficio di sabato” gli dissi.
“Vedo che anche tu sei di sabato in ufficio. Come mai?” mi chiese.
“Bah, avevo lasciato ieri sera una cosa incompiuta e ho preferito tornare e chiuderla” risposi, senza fornire ulteriori giustificazioni o dover raccontare i fatti miei.
In quel momento entrò Daniela che mi salutò affettuosamente, baci e abbracci.
“Paolo, qual buon vento? Ha chiamato tua moglie poco fa, ma non sapevo che fossi in ufficio. Ho provato a passarle l’interno, c’hai parlato?” mi disse con un tono che indicava un interesse diverso.
“Si si, tutto a posto, Mi chiedeva di comprarle un po’ di antinevralgico, ha un po’ di emicrania” dissi evasivo. Non volevo dare al capo l’impressione che ci fosse stato qualcosa tra me e Daniela.
“Sai Boss, ieri Paolo mi ha portato a cena fuori per ringraziarmi!” squittì provocando in me un improvviso blocco del battito cardiaco ed un istantaneo, fulminante attacco di panico.
“Beh, si…insomma, io …” balbettai non sapendo cosa rispondere.
“Hai fatto bene, Paolo. So che Daniela ti sta aiutando in quel progetto. Guarda che ci tengo molto, per questo ho accettato di privarmene per un po’ ed accontentarmi di Marina!” mi disse l’AD facendomi l’occhiolino. “Anzi, mi raccomando, metti in nota spese, eh? Voglio che queste cene di lavoro siano pagate dall’azienda, soprattutto quando sono tra i miei migliori e più fedeli collaboratori!” aggiunse.
Il sudore mi scendeva a rivoli lungo la schiena: possibile che Daniela gli avesse parlato? O magari era una sua mossa per farmi sbottonare e capire come stava andando con mia moglie, secondo lui causa del peggioramento della mia performance lavorativa?
“Senz’altro, lo farò senz’altro, grazie. Chiederò a Michele di avvisare Marina che controlla le mie note spese che ho la tua autorizzazione! Grazie ancora!” e rinculai verso la porta.
“Io dovrei andare. Per stasera ho finito. Buon fine settimana a tutti e due!” dissi al capo e a Daniela.
“Aspetta Paolo, devo dirti una cosa. Dai, ti accompagno al motorino!” mi bloccò la segretaria.
“Dai Daniela, che vado di fretta!” le dissi ad alta voce.
Appena girato l’angolo, mi prese per il bavero e mi disse a brutto muso: “Non ti permettere di trattarmi come una pezza da piedi o te la faccio pagare. Tu hai capito esattamente chi comanda qui, giusto? E sai in che rapporti sono con chi comanda. Ora ne hai la prova. Il Capo sa perfettamente che significa Tavolo12 alla Svizzerotta, e tu sei troppo intelligente per non aver capito che tipo di rapporti ho con lui. Quindi, se domani dovessi chiamarti e chiederti di fare qualcosa, tu prendi la macchina e mi raggiungi dove ti dico di venire, senza se o senza ma. Spero che sia chiaro. Giusto?” mi disse, sorridendo beffarda.
“Ora torna dalla tua mogliettina e fai quello che ti chiede, anzi, scopala per bene pensando che ci sia io al posto suo, sono certo che riuscirai a farla godere come hai fatto godere me. E chissà che la prossima volta non andiamo a cena assieme tutti e tre, magari con un bel Tavolo12!” aggiunse, accarezzandomi con un dito le labbra. Quindi, mi prese il viso tra le sue mani e mi baciò sulla bocca, infilandomi la lingua fino in gola o quasi, poi staccò una delle mani e scese a stringere il pacco che nel frattempo si era ingrossato per l’eccitazione. Si staccò da me, mi dette ancora una pacca sul sedere e se ne andò sculettando, girandosi prima di rientrare nel portone e puntandomi contro un dito intendendo uno “stai in campana”.
Montai sul motorino che avevo appena acceso e partii in direzione di casa.
La situazione si stava decisamente ingarbugliando e rischiava di sfuggire al mio controllo. Al momento, però, dovevo concentrarmi su Francesca e sulla sua gravidanza. Non avevo ancora capito cosa volesse fare, sapevo solamente che era molto, molto preoccupata.
Mi fermai veramente in farmacia, ma per prendere delle gocce di Lexotan perché ero certo che Francesca avrebbe avuto un attacco di panico.
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