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L'uomo che guarda


di PaoloSC
14.04.2024    |    6.857    |    7 7.6
"Poi allargò le cosce verso di lui, sollevò una gamba appoggiandola sul bracciolo della poltroncina e gli mostrò il suo sesso, il Lush inserito nella sua..."
Laura è una runner semiprofessionista, esperta d’arte e consulente di molti mercanti internazionali.
Eccelle nelle arti marziali, nel tiro con la pistola e nella seduzione.
Ha una storia con Karl Stephan, un oscuro personaggio che l’ospita nella sua villa e con il quale condivide spesso il letto.
Ma Laura non è di nessuno.
Laura è solo di Laura.


L’uomo che guarda.
di Paolo Sforza Cesarani

Chiamatemi Ismaele.
O Karl Stephan. È lo stesso.
La voce narrante di questi episodi, di questi scorci di interni ginevrini, lì dove il Lemano ridiventa Rodano.
Accompagnai Laura, la mia compagna, da Herr Wolfe, il curatore degli investimenti d’arte di un gruppo di istituti di credito elvetici. Era stata convocata in un giorno di novembre a Ginevra, presso lo studio al 29 di Quai des Bergues, sulla sponda destra del fiume.
La zona era dalla parte opposta della zona commerciale delle grandi firme, dove avevo accompagnato Laura in mattinata per una passeggiata in attesa dell’orario dell’appuntamento. Un`area relativamente tranquilla, fuori dal caos ordinato delle zone centrali, quasi fronte lago, dove un signore di mezz’età, intabarrato in un paltò grigio di cachemire con i revers di velluto scuro, borsa portadocumenti in pelle nera, lobbia grigia e vestito grigio fumo si sarebbe mescolato assieme a centinaia di suoi simili, con corporatura simile, stessa postura, stesso abbigliamento, stesso comportamento né schivo né guardingo: semplicemente, riservato.
Come riservati erano i locali del suo ufficio.
Un palazzo anonimo, senza targhe se non quelle di qualche studio legale di secondo piano e di un paio di altrettanto anonime rappresentanze commerciali. Rappresentanze di abbigliamento, o di libri, o di armi, per quel che era dato sapere. O rappresentanze d’arte.
Si, perché al primo piano dell’edificio c’era lo studio di Herr Wolfe.
In un primo momento Laura mi aveva proposto di rimanere ad attenderla in albergo, poi decise di farsi accompagnare.
Non che avesse paura, figuriamoci. Abituata a duri allenamenti di arti marziali, ad affrontare pericoli di ogni genere rappresentati da porci travestiti da uomini potenti, non era certo Herr Wolfe a spaventarla.
“È che vorrei che fossi presente, questa volta” mi disse stringendomi il braccio ed appoggiandovi la testa, una buona spanna sotto la mia.
Suonammo al citofono. L’etichetta riportava solo E.W., le iniziali di Einrich Wolfe. Nessuna targa sul portone, nessuna indicazione.
“Primo piano di fronte alla scala” rispose una voce femminile con pesante accento misto tra tedesco e francese, probabilmente alsaziano, ed aprì il contatto elettrico del portone.
Entrammo nell’androne, salimmo i tre scalini coperti da una pesante guida stesa sul pavimento di marmo e fissata da lucidissime bacchette di ottone, per arrivare all’ammezzato. Una sorta di corridoio definito da passamanerie invitava a prendere l’ascensore al centro del classico scalone contornato da una balaustra in ferro battuto con dettagli in ottone. La cabina si trovava già al piano, aprimmo ed entrammo in quel ambiente odoroso di legno, cera e pelle color cuoio di cui erano rivestiti i battenti delle porte ed il sedile. La pulsantiera di ottone riportava un’etichetta in un sobrio carattere nero.
“E.W.”, il primo pulsante in basso.
Lo premetti e con un piccolo sussulto l’ascensore silenziosamente iniziò la salita verso il piano nobile. Altro piccolo sussulto all’arrivo al piano, aprii le porte della cabina e subito una figura femminile, vestita di grigio e con i capelli grigi ci aprì la porta esterna.
“Madame Laura, era attesa da sola” disse rivolgendosi a Laura mentre chiudeva alle sue spalle la porta dell’ascensore.
Ci fece accomodare in un ampio ingresso, appena illuminato, nel quale erano presenti tre porte. Solo una delle tre era leggermente aperta e dava su un salottino d’attesa arredato con un paio di poltrone in cuoio grigio ed un divanetto per due in tessuto scuro; al centro, un tavolo basso con piano in marmo grigio simile al pavimento, a sua volta ricoperto da uno spesso tappeto di pregevole fattura. Sul tavolo, riviste ordinatamente impilate in due colonne, da una parte cataloghi d’arte, dall’altra le classiche pubblicazioni edite da banche e assicurazioni.
“Attendez içì, s’il vous plait” ci disse indicandoci il salottino. Poi, come fummo dentro, chiuse la porta alle nostre spalle.
“Che ne pensi?” chiesi a Laura.
“Non se l’aspettava” rispose.
“Ma secondo te, come faceva a sapere che eravamo in due?”
“Ci ha visto dal sistema di videosorveglianza. Guarda sopra la porta, senza fare cenni, e scommetto che ce n'é una dietro la lampada, dietro di me” aggiunse.
Per un attimo ebbi timore di essermi infilato in una situazione poco gestibile, ma Laura mi tranquillizzò subito.
“Non ti preoccupare, è solo un mercante d’arte. Almeno così dice di essere” e mi sorrise con un ghigno di sfida.
“Non ha il coraggio di fare nulla senza essere autorizzato. Alla fine, crede di potersi muovere liberamente ma è solo un burattino i cui fili sono mossi da altri” mi sussurrò all’orecchio mettendo la mano di fronte alla bocca per non far interpretare il labiale.
“Vedrai che tra qualche secondo si apre la porta. Cinque, quattro, tre, due…”
“Herr Wolfe vous attend, Madame et Monsieur” la segretaria disse subito dopo aver aperto la porta. Si fermò sulla soglia ed attese che ci alzassimo in piedi, poi ci precedette verso la porta opposta, la aprì e ci immise in un largo corridoio al cui termine c’era un’altra porta di legno a tutta altezza. Lungo il corridoio, una teoria di foto in bianco e nero di mani di donne. Mani candide, mani ruvide, mani fresche di manicure o mal curate. Tutte mani, tranne una foto: quella di un pugno. Il mio pugno. Incorniciato con una cornice semplice della stessa essenza e foggia delle altre, ma contornato dalle altre, lui, il mio pugno, al centro dell’attenzione delle altre mani.
La segretaria bussò alla porta con due tocchi, attese due secondi e aprì entrambe le ante facendoci entrare in un sontuoso studio al cui centro troneggiava una scrivania di legno fin de siecle.
Due poltroncine in velluto broccato erano posizionate di fronte, a circa un metro di distanza dal tavolo e a due metri l’una dall’altra.
“Prego, accomodatevi!”. Herr Wolfe si alzò in piedi e ci accolse per salutarci. Baciò la mano di Laura e strinse la mia “Monsieur Karl Stephan, immagino!” guardandomi di sottecchi dal basso in alto. Ero almeno quindici centimetri più alto di lui, e sicuramente molto, molto più prestante. Avrei potuto affermare di sovrastarlo fisicamente, eppure quell’uomo non mi piacque, mi infastidiva.
“Si, sono io” risposi stringendogli con forza la sua mano, quasi a fargli male. Fu un gesto pressoché istintivo, non riuscii a frenarmi. Herr Wolfe fece finta di nulla e continuò a scuotere lentamente la mano stretta nella morsa della mia, continuando a scrutarmi negli occhi. Fortunatamente Laura si accorse di tutto e si mise a sedere scoprendo la gamba inguainata da una calza di seta dalla balza ricamata ed indossata, come era evidente, con il reggicalze.
Mi accomodai anch’io, liberando la mano del nostro ospite.
“Madame, sono molto contento di rivederla. Ovviamente, sono felice che anche lei sia qui, Messieur. Era molto tempo che desideravo conoscerla. Sono certo che sarà una gradevole esperienza” disse rivolto a me.
“Einrich, ci davamo del tu, mi pare!” intervenne Laura.
“Oh mais oui, ma chère amie!” rispose soddisfatto il ginevrino.
Era un ometto quasi insignificante, grigio come il suo vestito, i suoi capelli, gli occhi. Grigio cenere, grigio spento. Solo lo sguardo era acceso, di una luce bestiale, ferina, da grande predatore. Ebbi quasi paura a sostenere quello sguardo.
Mi girai a dare uno sguardo allo studio.
Le pareti erano coperte da una boiserie intercalata agli scaffali fino al soffitto pieni di libri, per lo più d’arte, molti antichi o almeno, di duecento anni fa. Al centro dei pannelli, alcune cornici di quadri illuminati da lampade specificatamente puntate a valorizzarli. Riconobbi un Tempesta, un martirio di san Sebastiano di scuola fiamminga. Al centro di una delle pareti, un arazzo Aubusson, uno dei più belli mai visti, di certo anch’esso di scuola fiamminga.
Alla parete opposta, solitario al centro, illuminato da un faretto nascosto chissà dove sul soffitto, un piccolo quadro. Era abbastanza vicino a me per riconoscere la mano di Rubens. Quasi di fronte, messa ad angolo, una bergère dello stesso tessuto broccato delle poltroncine. Accanto, un tavolinetto d’appoggio e subito dietro, una lampada da lettura. A fianco, un pouf reggi piedi anch’esso ricoperto in broccato di velluto.
Nulla da dire, a Herr Wolfe piaceva il fiammingo. In realtà, gli piaceva tutto ciò che era bello.
Infatti, gli piaceva Laura.
“Allora, Madame, anche quest’anno è stato foriero di grandi opportunità, per me e per lei, bien sûr” iniziò lo svizzero dopo essersi seduto alla sua poltrona, dietro la sua scrivania.
Aprì un cassetto e ne trasse una busta in carta paglierina. Assieme alla busta, un telecomando.
Si sporse tendendo la busta a Laura avendo cura di mostrarle bene il piccolo comando.
Laura si sporse a sua volta e trasalì un attimo. Poi prese la busta e si riaccomodò sulla poltroncina, appoggiando il dorso allo schienale.
Accavallò le gambe scoprendo l’altra coscia e mostrando anche buona parte del reggicalze.
Con fare rilassato, quasi disinteressato aprì la busta e ne trasse fuori metà del contenuto, un assegno; giusto il necessario per leggere l’importo. Nonostante non volesse mostrare sorpresa, anche questa volta ne fu colpita. Era molto di più di quanto avesse immaginato, pur avendo avuto la medesima esperienza, in precedenza. Sollevò brevemente il sopracciglio, giusto un istante, per poi richiudere la busta con la stessa studiata nonchalance, più interessata al telecomando che all’assegno.
Herr Wolfe ebbe un ghigno demoniaco, lo sguardo divenne color rubino, le mani parvero divenire adunchi artigli mentre premette in sequenza due o tre tasti sul piccolo telecomando.
Laura ebbe una contrazione, si mise la mano tra le gambe che poi le serrò violentemente, scossa da piacere misto a fastidio.
“Vedo che madame ha seguito pedissequamente le mie istruzioni” esclamò beffardamente il ginevrino. Poi si volse verso di me e, con sguardo e tono falsamente gentile, quasi imperioso: “Sicuramente M’sieur vuol sedersi in poltrona per godersi la situazione, n’est ce pas?” indicandomi la bergère ad un paio di metri dalla scrivania. Solo allora notai come fosse stata posizionata per permettere a chi vi si sedeva di assistere ad uno spettacolo in primissima fila.
Muto, guardai interrogativamente Laura negli occhi, che mi rispose con un cenno di assenso. Il suo sguardo non era assolutamente remissivo. C’era una luce, nei suoi occhi, che avevo visto solo quando avemmo un paio di esperienze di dominazione e di bondage alla quale mi sottomisi volontariamente per amor suo. Lo stesso sguardo che aveva quando mi raccontava di come avesse distrutto fisicamente e psicologicamente con il sesso due bull che pensavano di dominarla a suon di schiaffi sul culo e pizzichi sulle tette.
Mi alzai pertanto dalla mia poltroncina, feci tre passi e mi accomodai nella poltrona, decisamente più comoda e rilassante.
Herr Wolfe girò attorno alla scrivania dalla parte opposta alla mia, prese il telecomando in mano e si sedette sulla poltroncina di fronte alla mia. Poi si rialzò, la sollevò e la girò in modo da poter osservare Laura quasi di fronte. Si sistemò sul bordo del cuscino e puntò con entrambe le mani il telecomando verso Laura, quasi a volerla infilzare con una lancia.
La mia donna ebbe un sussulto, strinse ancora le cosce e si portò una mano alla bocca quasi per silenziare uno strillo che non uscì.
Poi allargò le cosce verso di lui, sollevò una gamba appoggiandola sul bracciolo della poltroncina e gli mostrò il suo sesso, il Lush inserito nella sua vagina perfettamente depilata e già turgida.
“Bravò, madame. Sono molto felice. Ora cortesemente, levati la gonna, girati e mettiti in ginocchio sulla poltroncina, s’il vous plait”
Laura eseguì. Si alzò in piedi e si slacciò la gonna che cadde a terra. Sollevò prima uno e poi l’altro piede per uscirne fuori, si chinò la raccolse e la piegò con diligenza poggiandola sulla scrivania all’angolo. Poi si mise in ginocchio sulla poltroncina, che nel frattempo Herr Wolfe aveva girato a suo e a mio vantaggio.
Dalla sua vulva usciva il pennacchio del vibratore, con il led che lampeggiava discretamente indicando di essere acceso ed in attesa di ordini.
Einrich si voltò e prese dalla scrivania una scatolina discreta, lunga una quindicina di centimetri e larga sei o sette. La aprì sfilando il coperchio dall’altro e ne tirò fuori un plug anale di color nero in materiale che sembrava silicone.
“Ora Laura se vuoi cortesemente inserire questo nel tuo ano…” le disse porgendogli il plug. Non era il più grosso che avesse usato, ma di certo era sufficiente a provocare un’ampia dilatazione.
Laura lo prese e se lo mise in bocca, lo leccò, lo bagnò accuratamente poi, divaricando i glutei con una mano, con l’altra lo introdusse nel suo sfintere lentamente ma con decisione, non senza una serie di sospiri e gemiti.
Terminata l’inserzione, un piccolo led si accese alla base e lampeggiò brevemente. Poi, subito dopo, una serie di lampeggii con frequenza ed intensità variabile concentrati in poco tempo. Laura si scosse, si agitò ed iniziò a mugolare.
“NON …TO…CCARTI!” scandì seccamente Herr Wolfe.
Trasalii anch’io. Non era la prima volta che vedevo Laura oggetto della lussuria altrui, avevo già visto alcuni filmati girati dai suoi allenatori/master, ma era la prima volta che vi assistevo dal vivo. E la cosa mi faceva male. Avrei voluto alzarmi, strappare il telecomando dalle mani di quel bastardo, ficcargli in culo ed in bocca quei cazzo di giochi e farlo svenire a suon di calci e schiaffoni. Strinsi con forza le mani sui braccioli della poltrona, mi sollevai con il busto ma subito una voce metallica mi avvisò.
“M’sieur, si rilassi e stia tranquillo. Si goda lo spettacolo. Lei non vuole che sua moglie subisca dei danni, no?”
No, certo che no. Non era la voce di una segretaria. Era la voce di un uomo, con pronuncia vagamente slava. Avrei detto bulgaro, o russo, ma più probabilmente serbo. La stessa influenza che avevo sentito più volte a Belgrado, diversa dal croato che avevo nell’orecchio o dal russo che sentivo spesso in Riviera.
Era una voce che tradiva cattiveria, malvagità. Immaginai un uomo vestito di nero, una giacca di pelle nera, occhiali da sole, una Tokarev 7.62 di produzione serba appoggiata sul tavolo, un bicchiere di whiskey ed un pacchetto di sigarette accanto al portacenere già pieno di cicche, attento ad osservare la scena dai monitor di sorveglianza.
Mi girai attorno con lo sguardo alla ricerca delle videocamere, ma non riuscii ad individuarne nemmeno una. Dovevano averle nascoste bene. Peraltro i servizi serbi – BIA – lavoravano a stretto contatto con il SVR e con il FSB russi, ed i russi erano i maghi della maskirovka in tutti i modi, sia in grande che in piccolo.
Mi riscossi, mi stavo facendo un film su un qualcosa che era già successo altre volte.
Era una parte di Laura che, alla fine, chiedeva di provare quelle sensazioni forti, una continua verifica della sua forza fisica e della sua tempra morale, messe alla prova da tante situazioni avverse e da tante gare sportive condotte fino allo sfinimento. Oggi Laura era molto più forte psicologicamente di tantissimi uomini. Sarebbe stata un’agente segreta perfetta, un misto tra Dominika Egorova di Red Sparrow e Evelyn Salt, con i tratti di freddezza e decisione di Natasha Romanoff la Vedova Nera.
Mi concentrai su quanto stava accadendo di fronte a me.
Einrich Wolfe era quasi in ginocchio dietro Laura, mentre giocava con il telecomando. Poi lo poggiò con un gesto di stizza e prese un cellulare, scorse nervosamente le app fino a che trovò quella che stava cercando.
Si concentrò e dopo qualche secondo Laura proruppe in una serie di ansimi e di gemiti che lentamente lasciarono il posto a grida di godimento e di piacere.
Iniziò a contrarre il bacino, cercava di mantenere all’interno dello sfintere il plug che parte di lei voleva fuori, parte dentro.
Poi, uno strillo intenso ed un getto di liquido uscì dalla sua vulva bagnando la costosissima poltrona.
Herr Wolfe aggrottò il sopracciglio, incerto se punire Laura per questo gesto o continuare a farla godere.
Decise di farla girare, facendole appoggiare le gambe divaricate sulla sua scrivania.
Ancora ansimi, gemiti, Laura si dibatte, vorrebbe toccarsi ma non può. Conosce le regole del gioco, forse ha ricevuto istruzioni stringenti. Sta di fatto che gode, ma vorrebbe godere differentemente.
Per un momento mi guarda, i nostri sguardi si incrociano. Sono pronto a guadagnare la porta a suon di spallate, posso schiantare in tre secondi il crucchetto, se solo lei me lo chiedesse.
Un lieve cenno di diniego con la testa, ha capito, ho capito.
Mi rimetto seduto comodamente, riappoggiandomi con la schiena alla poltrona, la gamba accavallata, le braccia piegate ed appoggiate ai braccioli a sostenere la mia testa.
Sono l’uomo che guarda.

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