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Lui & Lei

i giorni dopo


di amichetta
30.06.2016    |    990    |    1 9.2
"Dopo pranzo, verso le ore quindici, ebbi la gradita sorpresa della mia amica Dxxx che, avendo avuto notizia della mia disavventura, accompagnata dalla..."
i giorni dopo 1- segue da “prime esperienze” -Se ho rimandato il seguito della mia storia è stato solo perché speravo segretamente che invece di invitarmi ad andare avanti mi avreste consigliato a non insistere in una confessione che inevitabilmente il mio amor proprio dovrà ancora subire considerevoli sofferenze. Anche perché vi avrei volentieri risparmiato l’inevitabile e sconveniente noia di espressioni e termini molto spesso somiglianti appiattendo così il loro sapore pungente e la sua energia a causa della frequenza in cui li userò, ma trattandosi di un racconto erotico sull’esercizio del piacere non potrò evitarlo: limitando, tuttavia, fin dove mi sarà possibile, espressioni volgari e rozze. Dovrò quindi fare appello alla vostra indulgenza interpellando la vostra fantasia perché integri le mie descrizioni laddove vi risulteranno scialbe e poco espressive.-
Riprendendo la storia dal mattino dopo il giorno della grande battaglia, in seguito alla caduta dalla bici, venni esonerata dalle solite incombenze casalinghe e nessuno mi importunò. Stavo bene; solo un po’ di fastidio alla gamba destra mi disturbava, ma, anche se afflitta, complessivamente mi considerai soddisfatta. Sola in casa, non resistetti alla curiosità di controllare le eventuali conseguenze di quel mio tenero e morbido
sistema dopo l’assalto di quell’ordigno bellico che sembrava essere stato generato solo per distruggere. Munita del solito specchietto, seduta sul wc, titubante, quasi non osavo decidermi a portare la mano la sotto per rendermi conto della situazione. La mia gioia fu grande quando compresi che né all’interno né all’esterno appariva alcuna traccia di quanto era successo.
I peli che crescevano a margine si erano ricomposti tornando soffici e ricciuti, le labbra sporgenti e carnose che avevano sostenuto l’impegno della battaglia si erano sgonfiate. La strettezza del pertugio /quella che era tanto piaciuta al dolce predone della mia innocenza / sembrava tornata alla sua normale conformazione formosa e dotata di una certa abbondanza.
Il tessuto elastico che si era dilatato, infiammato, le cui labbra si erano gonfiate oltre misura dopo quel duro incontro, avevano assunto la loro forma originaria, mentre le pieghe e la membrana avrebbero potuto abbracciare qualunque corpo estraneo che vi venisse introdotto: come in quel caso il mio dito. Essendo tornato tutto in perfetto ordine, risi delle mie paure rendendomi conto che ormai avrei potuto ricevere
qualunque misura di qualunque uomo mi fosse capitato di incontrare.
Non avendo nulla da fare, ritornai a letto abbandonandomi al ricordo di quella precedente meravigliosa giornata e alla possibilità di ripetere la peccaminosa esperienza. Magari aumentandone gli eccessi. Ma non potetti distendermi a lungo in quanto verso le dieci apparve mio fratello che entrò nella stanza con il pretesto di chiedermi se soffrivo ancora. Gli lessi negli occhi che della mia salute a lui interessava poco e avendo ancora tempo a disposizione prima che nostra madre rincasasse, intesi che si era messo in testa di mettere in pratica i proponimenti formulati la sera prima. (leggere: prime esperienze)
Improvvisamente mi sentii una farfalla ancora imprigionata nel bozzolo. Avrei voluto aprire le ali e volare via. Mi resi conto che la mia vita autonoma era cominciata e l’impalcatura che avevo costruito con lui stava scricchiolando. Ma ero conscia di non potermi defilare, non potevo interrompere l’intrigo che avevo escogitato con lui perché non avevo ancora raggiunto l’età per essere autonoma e la sua complicità mi era indispensabile per la realizzazione delle mie aspettative. In quel momento quasi ignoravo le
ragioni che mi avevano spinta a quella tresca. Mentre lui continuava a parlarmi con un tono stridulo, bleso, probabilmente abbandonato a fantasie e, senza convenevoli mi posò di fianco una scatola. Sbottai, sedutami sul letto gli chiesi - Cos’è? Che cos’è?- Sapevo benissimo cos’era, ma feci la finta tonta: era una scatola
di profilattici. Li aprii, tanto per dare un senso a quello scatto spontaneo che non avevo saputo reprimere. Svuotai la scatola; ne uscirono sei bustine. Svolsi il bugiardino e lo lessi con trepidazione fingendomi molto interessata e incuriosita. Quello che lessi non mi illuminò di cose che già non conoscessi e in quel momento di ritrosia non mi andava proprio di provarli. Mentre continuavo a leggere con uno sguardo fintamente incuriosito, meditavo come uscire da quella antipatica situazione in cui mi ero cacciata. Lo guardai in viso, aveva gli occhi che brillavano e più in basso sorgeva una montagnola che si muoveva per l’effetto di quell’oggetto impaziente e vivace che stava sotto.
Se fosse stato per lui mi avrebbe fatta fuori subito: o almeno ci si sarebbe gettato a capofitto. Difficile far finta di non vederlo o sentirlo. Pochi attimi prima la mia mente fantasticava trascinata come da un uragano mentre immaginavo di giacere alla mercé del mio orgoglioso conquistatore che era entrato in me facendo quel trionfale ingresso. Ormai non avevo altro nella testa che ritrovarmi segretamente con lui e avere una amichevole lotta, abbandonarmi a un lascivio incontro a -tu per tu- farmi penetrare dal suo bel giocattolo che la natura gli aveva regalato. A lui avrei aperto tutte le porte per raggiungere ancora tante volte la voluttà assoluta. Lasciarmi invadere, come da un torrente in piena le mie pareti vaginali dal suo ambrosia. Ma non potevo certo confidarlo a mio fratello ed ero anche conscia di non potermelo togliermelo di torno. La sua reazione sarebbe stata di risentimento e saremmo tornati agguerriti come eravamo prima del nostro occulto suggello. La mia quiete era appesa a un filo che io stessa stavo flirtando e sotto di me vedevo l’abisso nel quale se fossi precipitata non c’era nessuna rete che mi avesse protetto. Mia madre si sarebbe chiesta il perché di queste inesplicabili variazioni di umore e avrebbe indagato potendo afferrare il filo e farsi guidare attraverso il labirinto fino alla aberrante verità. Non vedendo altre alternative feci appello alla mia inventiva femminile, alla mia capacità di analisi, di temperanza, qualità che mi davano un vantaggio competitivo su di lui del quale ne usufruii. Attaccai col dirgli che non stavo bene, che ovunque mi avesse toccata avrei
dolore e mi sarei irrigidita rovinando tutto, gli feci notare quale scotto si può pagare abbandonandosi a una stupidaggine solo per provare pochi secondi di piacere.
Gli ricordai la nonna che per un esperimento analogo mi raccontò che gli si era gonfiato il ventre, e io per una prova non volevo che diventasse un vizio di famiglia né una malattia ereditaria. Continuai col rammentargli che non avevamo ancora la piena consapevolezza delle conseguenze che possano provocare detti esperimenti considerando che per entrambi sarebbe stata la nostra prima volta e l’inesperienza ci poteva rovinare. Gli promisi che avrei acconsentito, che l’avremmo fatto, ma: - rischiare andava bene - ma solo se fatto con giudizio, meditazione e intelligenza. Mi venne in mente di dirgli che avremmo aspettato i giorni sicuramente per me non fecondi, dove qualunque errore non avrebbe avuto conseguenze fatali. Aggiunsi che un po’ di suspense ci avrebbe solo alzato la soglia del desiderio oltre ad essere un esempio di moderazione. Ci saremmo divertiti senza rischi e senza che nessuno dei due si fosse fatto male e
soprattutto senza spiacevoli e irrimediabili complicazioni. Non seppi cosa altro dirgli.
Sapevo che le mie argomentazioni non l’avrebbero distolto, ma almeno servirono a non fare insorgere in lui discordia e conflitti e, allo stesso tempo avevo guadagnato tempo per organizzarmi. La sua delusione glie la lessi negli occhi. Compresi che era più ansioso di soddisfarsi coi fatti che rassegnarsi alle mie parole. Allungai le mani e lui si avvicinò. Gli slacciai la cinghia e aprii la cerniera dei jeans. Abbassai gli slip, comparve d’un tratto il suo sesso talmente in armi che, anche se in quel momento non lo desideravo mi sentii
crudele a costringere il mio “caro” fratellino a scoppiare dalla tensione quando il balsamo era a portata di bocca. Mi diedi da fare con le mie labbra fresche per estinguere il fuoco che lo divorava. Aveva il vento in poppa ed era carico di derrate, per cui si apprestò ad adempiere il suo viaggio gettando l’ancora nel ormai ben conosciuto porto. continua 2
Appena ricevetti tra le labbra la testa del suo arnese con la lingua ne preclusi l’ingresso. Pensavo ne avrebbe avuto a sufficienza per liberarsi dalla tensione che lo aizzava, invece non feci altro che eccitarlo ancora di più. Diede una brusca spinta e io me la sentii vellicare l’ugola.
Proseguì senza variazioni sul tema. Seguì una pausa, un attimo di tregua prima di un lungo spasmo. Mi venne in gola. Il primo sbruffo di materia mi andò di traverso. Mi liberai rapidamente della carne palpitante che avevo in bocca per non soffocare . I restanti guizzi me li spruzzò sul viso. Lasciai che le gocce calde colassero giù fino alla labbra. Se fossero state del mio ignaro e segreto stupratore avrebbero potuto essere un delicato balsamo agrodolce. Ha! Quanto lo desideravo! Com’era stato possibile tanto mutamento? Fino a poco tempo prima prestarmi come oggetto incestuoso mi lasciava indifferente: trascorse solo poche ore provavo repulsione. Compresi che non ero una multi-uomo”, eppure dovevano starci. Anche se il primo era puramente platonico la sua influenza in me era preponderante. Il secondo che era concreto in carne e ossa era divenuto una fastidiosa presenza. Eppure avrei dovuto necessariamente adattarmi, adeguarmi a quella situazione che pareva al momento irreversibile.
Rxxx, il cugino di Dxxx era fidanzato e io ero ancora una ragazzotta per poter competere e avere speranze su un possibile futuro, una utopia, una chimera: follia pura! Eppure sentivo che per me era un assillo, l’ultimo pensiero che mi avrebbe accompagnata prima di addormentarmi, che l’avrei sognato di notte e il mio risveglio sarebbe stato solo un sogno più profondo. A quei pensieri sentivo nascere la gelosia e il dolore dentro di me. Mentre ero assorta in quelle valutazioni “lui”il mio tato si era ormai scaricato delle sue ultime gocce, ma non dava ancora segni di mitigazione. Eppure per quel giorno avrebbe dovuto accontentarsi, io, non sarei stata ulteriormente disponibile. Ne avevo avuto più che a sufficienza, anche troppo, ora avrei dovuto mobilitare tutte le mie forze e vincere un profondo turbamento e una resistenza profonda. Come in altre occasioni l’analisi della situazione mi avrebbe aiutata ad escogitare soluzioni. Anche in quella occasione avrei dovuto destreggiarmi per trovare nuovi stratagemma. Ero in una situazione pericolosa e dovevo uscirne indenne, se non con dei vantaggi. Doveva pur esserci un modo per risolvere quel disordine.
Quello che sapevo sul sesso ero tanto, seppur troppo poco e soprattutto incompleto: avevo ancora tanto da imparare. Continuando le sperimentazioni con il tato avrei potuto perfezionare le mie conoscenze per poi mostrarmi all’altezza del ruolo che in qualsivoglia situazione mi fossi trovata avrei dovuto e potuto espletare. Questa motivazione, in se, poteva essere una prima e valida legittimazione anche se, in cuor mio, sapevo di definirla -discolpa.- Nel frattempo; con la pistola ancora fumante e senza ricomporsi “lui”se n’era andato, e io, dopo essermi lustrata dalla sua essenza, giacqui supina sul letto e mi abbandonai a lussuriose fantasie alle quali scoprii che il mio corpo collaborava producendo abbondanti secrezioni. Avevo lo stato mentale in tumulto, presa da una vera e propria ebbrezza mi sentivo diversa, avevo desideri diversi. Una, seppur fluttuante ma incessante fissazione non mi abbandonava mai un secondo. Col il pensiero rivolto al mio dolce sovrano, --a colui che mi aveva fatto raccogliere il primo miele in mezzo alle spine- stavo bene, ad ogni minuto che passava stavo sempre meglio. I capezzoli si inturgidivano e mi bagnavo laggiù, in basso, tra le cosce, con il desiderio che si faceva sempre più impellente spingendo la mia immaginazione a superare ogni pudore. Stravolta, rivivevo quell’irripetibile momento in cui con grande sforzo mi sconquassò tutta infilandomi nel mio morbido condotto del piacere la punta del suo piolo dalle dimensioni eccezionali e, stimolata dalla frenesia resistetti a tutto il resto. Riprovai l’emozione di quando con una serie di violenti affondi mi procurò quella voluttà così tanto intensa da lenire la straziante e sanguinaria devastazione che cagionò alle mie oscure e deliziose profondità Avrei voluto essere allagata in quelle parti da un diluvio di pioggia salutare con cui la natura inonda quei felici paesi e annegare il mio rabbioso desiderio.
Felice com’ero nel cuore e nei sensi, rinchiusa con lui in una gabbia dorata che mi ero costruita solo per me, non potevo concepire né auspicare un benessere più grande di quello che stavo vivendo in quel momento.
Simultaneamente mi resi conto di aver avuto la risposta ai miei dilemma connaturalmente e molto prima di quanto potessi immaginare. Nella situazione in cui io vigevo avrei dato alloggio a qualsiasi spunzone avesse bussato alla mia porta infuocata.
Mi sarebbe bastato trascorrere mentalmente momenti idilliaci, -nella gabbia-, assieme al mio stallone per accendere il vecchio pagliaio e poco sarebbe importato quale pompiere l’avesse estinto senza mai arrivare a scoprire il mio intrallazzo cerebrale. Del resto per -”lui”, di casa- sarei stata la sua sguattera, un groviera caldo e vivo su cui impratichirsi, incurante delle mie sensazioni, senza tanti salamelecchi, mi avrebbe usata come sfogatoio provocandomi indigestioni del prodotto dei suoi testicoli che alla sua età ne producevano in quantità industriale. Rumori al pianterreno mi distrassero. Mia madre era rientrata.
Lentamente discesi le scale e la raggiunsi. Zoppicavo,non tanto perché soffrissi, ma per darmi una parvenza di sofferenza per giustificare il mio dolce ozio.
Ma poi, vedendola al lavoro provai un profondo senso di colpa, tanto che non resistetti e anche se, con una certa frugalità, l’aiutai. Dopo pranzo, verso le ore quindici, ebbi la gradita sorpresa della mia amica Dxxx
che, avendo avuto notizia della mia disavventura, accompagnata dalla mamma, pensò di appurare doverosamente e personalmente l’accaduto facendomi visita a domicilio. Sua mamma, che lavorava come infermiera mi diede un’ occhiata e mi rimproverò per non essermi recata da un medico. Le ferite erano estese, ma solo graffi superficiali, tuttavia una disinfettata sarebbe stata doverosa, almeno per
evitare infezioni. Mi consigliò frequenti lavaggi con acqua ossigenata, che oltre a pulire mi avrebbe protetta, e in seguito, --se si fossero formate croste,- di non grattarmele via perché mi avrebbero potuto lasciare deturpazioni permanenti. No! Quello no! Sulle mie belle e vellutate cosce sarebbe stato un vero sberleffo. In campagna la vita era aspra, si era a contatto quotidianamente con la vita e la morte. Si ricorreva più al veterinario che al medico il quale si disturbava solo per cose gravi.
La mia amica mi si avvicinò e a me sopraggiunse un tuffo al cuore pensando al mio adone, -suo cugino-, ma per quello non era certo il momento propizio per menzionarlo. Mi comunicò che una nostra comune compagna di scuola compiva gli anni e avevano organizzato una festa.
Sxxxx, era in nome della nostra compagna che abitando in un condominio chiese a Dxxx se si prestasse a farla in casa sua isolata e ben più spaziosa, con taverna e ambienti adeguati. Figuriamoci! L’entusiasmo di Dxxx era già salito alle stelle e si era proiettata a capofitto per allestirla. Io la guardai, e lei senza che
io aprissi bocca aveva inteso: la scelta degli invitati sarebbe stata privilegio della nostra comune amica in quanto, giustamente, era lei la festeggiata. Dopo poco tempo se ne andarono, sua mamma doveva recarsi al lavoro. Mia madre raggiunse mio padre nei campi, mio fratello partì per accaparrarmi il farmaco e io restai nuovamente sola: ma le sorprese per quel giorno non erano ancora terminate. CONTINUA3
All’incirca un’ora dopo il “fattorino” torno con il disinfettante. Si offrì per aiutarmi nella medicazione. Mi stupii di tanta gentilezza nei miei confronti. Gli risposi che era molto carino, ma essendo io in ozio per me sarebbe stato un passatempo: anche perché se mi avesse solo toccata sapevo come sarebbe finita, e sottolineai che l’orario era pericoloso, nostra madre poteva rientrare. Messo davanti a questa eventualità si persuase e dopo essersi accertato che non avevo bisogno di nulla senza altro aggiungere se ne andò: forse in paese. La prospettiva di farmi sua l’aveva ingentilito, anche troppo: si era fatto ruffiano. Mi stavo erudendo, stavo incrementando il possesso di quel poco che già avevo sulle cognizioni necessarie per comprendere la psicologia degli uomini su quanto riguardava la sfera del sesso. Si fece sera, il sole era all’imbrunire e nella solita monotonia la famiglia si stava ricongiungendo per la cena: mancava come al solito, “lui,” il viandante.
Mio padre non era il tipo da perdere tempo, per cui ci sedemmo a tavola ma dopo alcuni minuti “lui, il tato” si affacciò. Appena entrato mi avvicinò e posò sulla tavola, proprio davanti ai miei occhi, due fotografie. Il mio cuore si fermò. La forchetta che tenevo in mano fece un -ting- sul piatto: mi sentii evaporare. Non trovai cosa dire. Ingoiai un dolo di aghi e di saliva, il mio stomaco ancora vuoto si accartoccio nel terrore. Mi rammentai d’impeto dell’idraulico quando, sul furgone, mi disse di avermi fotografata nella scena dell’incidente. Una foto mi immortalava, visibilmente frastornata, seduta sull’asfalto mettendo bene in evidenza le escoriazioni sulla gamba destra e nell’altra foto, a tutto campo, evidenziava l’auto con la portiera ancora aperta e rispettive targa e autista. In casa, tutti si resero conto del mio turbamento improvviso che non riuscii a controllare, ma lo attribuirono alla rievocazione di quel brutto momento. Anche mio fratello si stupì, da cui dedussi che “del seguito” non era trapelato alcunché. Anche il tubista, arguii, che avesse avvicinato -con il pretesto delle foto- mio fratello per tranquillizzarsi su quanto fossi stata brava a mantenere la bocca ben serrata e quanto fossi affidabile. Ripresi fiato e mio fratello mi descrisse nei dettagli l’accaduto.
Esplicarmi su questo argomento sarebbe impresa non meno noiosa che lunga, tuttavia sono costretta a descriverne il seguito in quanto quell’avvenimento cambiò il corso della mia vita. In sintesi: si trattò di un incidente causato da un’auto su di una strada per cui ci poteva essere un risarcimento. La bici non era assicurata ma il danno c’era stato e qualcuno doveva pagare.
Il - tubaro - consigliò mio fratello, ancora inesperto in quella materia, - con le foto come prova - di rivolgersi a un assicuratore il quale avrebbe provveduto con perizia a termini di legge. Strano a dirsi, ma nessuno in casa mia ci aveva pensato. Chiedere danni per qualche graffio non era nella cultura contadina: il seguito è prassi comune e facile da intuire. La denuncia era già stata fatta con sollecitudine da mio fratello quel pomeriggio stesso e da quel momento restammo tutti in attesa degli eventi successivi. (che non tardarono e furono per me sconvolgenti) Ho tentato di essere il più breve possibile.
Quella sera andai a letto e mi addormentai irrequieta svegliandomi all’alba. Sonnecchiai fino a mattina inoltrata e mi alzai per andare in bagno. Stranamente avevo le mutandine bagnate, sembrava mi avessi fatto la pipì addosso. Me le tolsi. essendo ancora troppo presto per il canto del gallo tornai a letto e mi appisolai. A tarda mattinata, con il pretesto della colazione “lui” mi fece visita con un vassoio ben fornito. Si accostò al letto dolente, sembrava considerarmi una moribonda che stava per rendere l’anima. Quanta ruffiana gentilezza nei suoi modi! Mi scoprii dalle lenzuola, stesi e aprii le gambe, presi il
vassoio e me lo appoggiai sul corpo, avevo fame e mi diedi da fare. Mi ero scordata delle mie nudità, non era la prima volta che mi vedeva come mamma m’aveva fatta, ma mai così a gambe aperte, spudoratamente e provocantemente gli mostravo il ricettacolo dei suoi desideri, anche quelli che non mi confessava. Mi girò attorno estatico, il suo trasporto mi indusse a dividere con lui la sensazione che provava.
Mentre nervosamente divoravo la cibaria scorgevo il prodigioso effetto flogoristico che manifestavano i suoi jeans. Le ultime premure, le attenzioni che aveva dimostrato nei miei riguardi mi indussero ad essere perlomeno riconoscente. Per qualche tempo avrei dovuto annegare l’immagine del mio guru il quale sicuramente non si sarebbe trattenuto dalla la sua gentil donzella quando lei, apertogli le gambe, l’avrebbe ricevuto come un imperatore che a cavallo di un purosangue si dirigeva diritto e deciso con le redini tesecome
corde di chitarra sprofondando nell’abisso del piacere.
Non si sarebbe certo trattenuto per una rozza contadinella le cui uniche attitudini erano di riconoscere il grano dall’avena e i fiori di mandorlo da quelli del pesco.
O, se proprio avrebbe anche potuto farlo, ma solo per il diletto di cambiare ogni tanto dieta. In quel momento ho dovuto concentrarmi sulla la crisi del momento la quale richiedeva una soluzione. Ero ormai conscia che le sue irritazioni portavano sempre a reiterate, ostinate e pericolose recidive.
La situazione richiedeva un saggio consiglio, di quelli che uscivano dal gargarozzo di mia nonna, ma lei mi avrebbe risposto che da improvvida com’ero avrei dovuto sapere che correre per le strada durante la festa di Pamplona non avrei dovuto lamentarmi più di tanto se qualche toro avesse finito per incornarmi. Perché era proprio quello che “lui” intendeva farmi. Sarebbe stato un reiterato classico. Mi trovavo nella posizione appropriata, già umida e scorrevole. Bastava si fosse messo sopra di me, avesse instradato il suo veicolo sulla carreggiata e avrebbe trovato la strada dritta con tutte le barriere spalancate,
sarebbero mancati anche i casellanti per cui non avrebbe neppure pagato il pedaggio. Troppo banale! Troppo spedito! Troppo agevole! Non doveva, non poteva andare così! E, in modo particolare non in quei giorni. Non avevo più paura delpalo della cuccagna, -oltretutto il suo sarebbe entrato e uscito senza lasciarmi segni-, ma perché temevo di restare pregna.
Quei giorni potevano essere fecondi e data la sua inesperienza non potevo rischiare, con o senza protezione.Una serie di eventi avevano innescato un dedalo di conseguenze e dovetti concentrarmi per
escogitare un piano per uscire da quell’empasse. Mi serviva un’idea ingegnosa che risolvesse d’un sol colpo tutte quelle difficoltà.
Esordii, -E se fossi ancora vergine? - Non lo ero di sicuro, e in un modo che non poteva nemmeno immaginarselo, ma lui non poteva saperlo. Mi guardò stranito. Continuai col dire, --dopo la disastrosa “spaccata” ho perso qualche goccia di sangue la sotto, ma dentro potrei essere rimasta intatta.- Lo vidi vacillare tra perplessità e rassegnazione. Lo tranquillizzai.- -Non temere, ormai abbiamo saltato il fosso e dobbiamo andarci in fondo, ma lo faremo a tempo debito, fra alcuni giorni dopo aver dato il mio
contributo alla natura, in tutta sicurezza abbatteremo l’ultima roccaforte. E sia quel che sia! Useremo il tempo mancante per prepararci con prove: un addestramento. Lo Capisci?-- Dire che, ancora una volta lo vidi indispettito è un eufemismo. Com’era possibile che non si preoccupasse delle conseguenze che ne potevano derivare? Mi tornò in mente una delle tante battute di mio nonno nella quale sosteneva che gli uomini non ragionano finché hanno i testicula pieni. E lo pronunciava in latino, non tanto perché fosse un letterato ma semplicemente perché frequentava la canonica e si sa che i preti suono buoni docenti. -- Lo faremo, ripetei, ma non oggi. Ho Paura! Ho Tanta, Troppa Paura! Non parliamone più.-- Quello fu il mio ultimatum. Un corollario di idee completò mentalmente il mio progetto determinato e
tremendamente ambizioso. (CONTINUA4)
Il mio surreale progetto consisteva nel tentativo di usufruire della mia naturale propensione alla virtù, al pudore, che lasciavo trasparire spontaneamente nel farmi credere vergine. Se avessi raggiunto il fine avrei potuto, o almeno arrischiato di potermi spacciare per una illibata in un tempo in cui mi sarei concessa ad altri uomini, quando, in un futuro non lontanissimo mi avrebbero abbordata e, considerando la mia giovane età, il mio innocente portamento, loro si sarebbero attesi una certa difficoltà nel penetrarmi. Un piano arduo, ma valeva la pena di provarci. Il successo sarebbe stato aleatorio, ma essendo il primo esperimento e eseguito ai danni del mio adorato fratellino, né gli errori né i giudizi avrebbero avuto conseguenze
inquisitorie, ma, sarebbero stati per me un illuminante esame. Una simulazione che mi avrebbe acconsentito di arricchirmi di espedienti da tenutaria. Avrei giocato come il gatto con il topo, “lui” era talmente gasato, invaghito che probabilmente ci sarebbe cascato: comunque fosse andata non mi avrebbe di certo nuociuto,
anzi, ne sarebbe comunque valsa la pena tentare anche solo per rendere più piccante la fulgida esperienza.
E in seguito incolparlo accusandolo di avermi devastata.
Non mi erano ancora chiare le strategie con cui avrei azzardato il serpentesco inganno, ma pur non essendo una alfabetizzata avevo fiducia nella mia inventiva. Il clima nel frattempo si era fatto particolarmente acceso e era tempo per me di gettare la pastura. Con il pretesto del vassoio lo feci avvicinare. Gli dissi: -- Toccami-- ++ Dove?++-- Sotto il vassoio --Lui allungò la mano ma lo stesso gli era di intoppo, lo tolse e ci riprovò.
Siccome i suoi movimenti erano da dilettante l’aiutai dirigendo la sua mano affinché un suo dito scorresse lungo il mio solco per una decina centimetri dei tredici che disponevo. Dopo alcuni suggerimenti meccanici sul movimento motorio che io ritenni per me sensuale, lasciai la sua mano che divenne autonoma.
Tutto sommato, lo ritenni un allievo intraprendente. Il mio viso era all’altezza della cerniera dei suoi jeans e notavo un allarmante gonfiore che protendeva. Gliela aprii e entrai con una mano alla ricerca della causa
identificandone il responsabile, tentai di liberarlo dalla prigione, ma l’operazione risultò talmente complicata che mi decisi di slacciare la cinghia e come al solito abbassarglieli.
Seguirono gli slip e finalmente la causa fu evidente in tutto il suo sfoggio. Spuntò un fronzolo d’avorio con la testa rossa che si innalzava rigidissimo, lo toccai con due dita, non era certo la prima volta, ma così duro mi sembrava fosse una novità. Come dimensioni non poteva competere con quello a cui avevo dato alloggio, ma come durezza era paragonabile solo al legno ben stagionato: e non è un iperbole.
Mentre “lui” continuava a lisciarmela la sotto, con una mano io glielo accarezzai in tutta la sua lunghezza. Sembrava lo vedessi per la prima volta, avevo assunto l’espressione di una bambina che gioca con un nuovo balocco. Stavo realmente eccitandomi. Lui mi passò la mano libera tra le ciocche di capelli, dietro la nuca e mi avvicinò le mie labbra alla punta del suo paletto. ++ Succhiamelo, prendilo tutto in bocca fino in fondo++ Mi esortò quasi con dolcezza.Io glielo sfiorai con le labbra sollevando lo sguardo come se fossi in cerca della sua approvazione. Fermò la sua mano che aveva tra le mie gambe e trattenne il respiro mentre lo racchiudevo tra le mie labbra morbide con il calore setoso e umido della mia bocca. L’avevo fatto tante volte, ma quella volta fu diverso, succhiarglielo mentre lui mi masturbava mi riempiva di desiderio tanto intenso che mi sembrò di non averlo mai provato prima. Oltre al piacere fisico si stava formando in me
una sottomissione, non era più mio fratello, era un uomo che voleva possedermi completamente. No! Questo non andava bene! Dovevo riprendere il controllo di me. Lui immensamente eccitato per la nuova esperienza che stava provando, aveva ripreso il suo viaggio di esplorazione nell’altra bocca che avevo più in basso. Dal canto mio aprii di più la bocca e lo avvolsi cominciando a muovermi piano con leggeri movimenti
della lingua e della labbra che lo mandarono in estasi completamente.
++Prendilo tutto! Più in fondo! ++ Io continuavo a succhiare ritmicamente muovendo la testa in perfetto sincronismo con le spinte dei suoi fianchi.
Mi stavo eccitando sempre di più, mi interrogavo su come fosse possibile. Più volte mi ero sgraffignata in mille modi senza mai arrivare a conclusioni soddisfacenti, mentre ora con lui, usando un solo dito aveva portato la pentola a una pressione così alta che stava per bollire. Considerazione inutile in quanto la risposta già la conoscevo: nel sesso bisognava essere almeno in due, se in tre ancora meglio. Ma io in quel momento non dovevo venire. Se fosse accaduto, dopo mi sarei rilassata, mi sarei acquietata, si sarebbe spenta in me quella tensione spasmodica che costantemente mi avrebbe accompagnata e avrebbe
mantenuta accesa la fiamma della creatività, della ricerca e della fantasia.
Tre elementi indispensabili per attuare il progetto che stavo congegnando. Nemmeno lui doveva venire, almeno non nel solito modo. Oltretutto avevo appena fatto colazione e quello che “lui” mi avrebbe fatto ingoiare non sarebbe stato il miglior digestivo. Appellandomi a tutta la mia forza di volontà mi ritrassi fino a farlo scivolare fuori dalla mia bocca.
++ Perché? Che hai in testa++ Mi disse sorpreso. --Non devi venire nel solito modo, dobbiamo studiare qualcosa di nuovo, prova a infilarmi il dito-- Mi guardò perplesso. -- Portalo leggermente più in basso, ecco così. Lì. Spingi. Piano, molto lentamente. Cosa senti?- - ++ Umido e caldo, cosa dovrei sentire? ++ -- Non so! Un tampone, una ostruzione, qualcosa. Forse il dito è troppo piccolo, o troppo corto, muovilo, su e giù, dolcemente. - - Lui eseguiva diligentemente i miei suggerimenti. ++ Ti piace++ --Si mi piace. Prova con due dita. -- Estrasse il dito e con trepidazione e imbarazzo si apprestò a infilarmeli. Appena entrarono alcuni centimetri emise un forte grido. -- AHIA- - E mi ritrassi chiudendo le cosce. -- Che mi hai fatto!!-- Mi guardò strabiliato, ci restò di stucco. --Se mi hai fatto così tanto male con due dita
quando mi infilerai “questo” mi farai morire-- ++ Per me ti stai preoccupando per una inezia++ -- Caro mio, -- -- prenderlo li dentro non sarà come pulire un pavimento o fare un compito: non saranno bazzecole! -- Avevo compreso la sua preoccupazione, temeva che il dolore mi facesse cambiare parere mandando tutto alla malora. Intervenni dicendogli che quando lo avremmo fatto avrebbe dovuto essere molto delicato, non cera certezza sul fatto che io non fossi ancora da sverginare e quindi, solo al momento buono avrei deciso il da farsi. Sapevo che comunque fosse andata, una volta iniziato, appena mi avesse infilato la prima
porzione del suo duro paletto non si sarebbe più fermato. Nemmeno sentendomi lamentare come se mi stesse torturando. Urla che già avevo emesso quando ricevetti in porta il primo gol della stagione, fulmineo e deciso dal mio grande campione, per cui quelle grida le conoscevo bene e che avrei saputo subdolamente ripetere. Ora si trattava di concludere, almeno per lui. Ripresi in mano il giocattolo, dalla punta ne usciva una lacrima di liquido trasparente che rendeva la capoccia lucida e invitante. Mancando di esperienza e non potendo usufruire di orifizi mi era difficile escogitare e proporre stimoli nuovi. Mi ricordai dell’idraulico quando sul furgone mi venne tra le cosce auspicandosi di potermi infliggere il secondo gol della giornata. Gli dissi che tanto per allenarsi e provare avrebbe potuto infilarmelo tra quel tenero e cedevole luogo che gli indicai, anticipando a esempio, il modo e l’andirivieni con la mia mano. Subito mi accorsi della prima scabrosità. Le escoriazioni che avevo sulle gambe erano troppo virulente e doloravano fastidiosamente. (CONTINUA 5)
A quel punto non potendo usare il davanti mi disse, ++ Girati e mettiti in ginocchio, sei morbida anche dietro.++ La sua affermazione così perentoria mi lasciò basita. Il gioco si faceva uno zoccolo duro e io non ero troppo disponibile a giocare, ma, come al solito mi adattai. Mi inginocchiai, lui mi obbligò a girarmi posandomi le ginocchia sul bordo del letto, proprio come avevo visto Dxxx nel giorno della mia iniziazione. In quella posa avevo messo in luce tutto il mio asilo di grazie e voluttà.
Del tutto indifesa sarebbe stata la posizione giusta per essere stata penetrata. Incominciò a baciarmi le cosce appena sotto i glutei, si spostò più in alto e incominciò a arraffarmi coi denti come se fossi una pagnotta.
++ Che bel culetto morbido che hai++ Estasiato proseguì. ++ Che rotondità! Che elasticità! Che finezza+++ “Lui” non era certo la quintessenza di integrità e rettitudine, ma in quel momento superò se stesso sorprendendomi. Le stesse parole me le aveva spiattellate la mia amica Dxxx come che fossero stati entrambi infettati dallo stesso virus. La realtà a volte realmente riesce a superare la fantasia, stavo per essere fagocitata dalla commedia da me allestita. Ma “lui” doveva essersi rincitrullito se sperava che io assecondassi i suoi sollazzi. Intanto mi allargò le montagnole e mi stipò la valle col suo viso, sentivo
la sua bocca, quella carne leggermente umettata. Premette ancora di più e mi leccò come un ossesso, in modo frenetico, meccanico, lo faceva senza deglutire e la saliva mi colava dentro il solco fino ad arrivare all’altra fessura più in basso. Era tutto abbastanza riluttante. Incominciavo a intuire le stranezze dell’erotismo, ma essere costretta a lasciarmi lustrare l’allegro retrobottega del deposito da mio fratello non me lo sarei nemmeno immaginata. Era troppo! Era davvero troppo! Un vero eccesso!
Ma lui sembrava proprio che non avesse limiti da imporsi nei miei riguardi. Mentre con la bocca continuava a mordermi, con la lingua a leccarmi, con le mani mi palpeggiava, mi pizzicava nei modi più indecenti.
Interdetta per quanto mi stava accadendo restavo in posizione tale da permettergli di preparare l’altare in cui intendeva sacrificare il proprio furore. Mai venne messo in pericolo il principale accesso: fu tutto un lambire, un insalivare per innervosire, per rendere più agibile ciò che da lì a poco avrebbe esplorato. Era una situazione intollerabile che non sapevo come sarebbe finita. Mi apri bene le gambe, le misure non erano appropriate per poter realizzare quello che aveva in mente.
I suoi gesti furono rudi e decisi, in capo a pochi secondi mi trovai prona, distesa sul letto con i piedi sul pavimento e lui alle prese col mio posteriore, in preda a sfrenata agitazione, arrivò all’apice dell’eccesso e
grugnendo versi incomprensibili mi penetrò con un dito il ristretto asilo del suo godimento spingendolo in fondopoi trattolo fuori tornò ad affondarlo per poi manovrarlo in ciclici su e giù.
Poi, fece uso del suo paletto gestendolo come se fosse un bastone per colpirmi a più non posso sulle natiche, sulle cosce estasiandosi di piacere.
Afferratami per i fianchi, mi incastrò il suo dardo rovente tra la fossa dei mie glutei resa lubricamente fluida. La brutalità con cui mi opprimeva era tanta che credei volesse soffocarmi. La sua agitazione aveva raggiunto l’apogeo del piacere così in una folle galoppata ricalcando quei movimenti triti e ritriti, vecchi
quanto l’umanità che, spinto al settimo cielo da una cupidigia incontenibile, inebriato, infuocato giunse all’orgasmo gustandosi appieno i più dolci piaceri dell’incesto. Come un vulcano in eruzione mi ricoprì il corpo della sua lava ardente. Me la sentivo sulle reni, scendere sui fianchi. Ancora una volta ero stata sopraffatta. La mia ricreativa di seduttrice si era tramutata nell’essere sedotta. Stavo diventando la serva del padrone. stordita da quelle che credevo allucinazioni rimasi allocchita.
Se non avessi provato un irritante fastidio per la sollecitazione che avevo subito nel sentiero non ancora battuto avrei creduto di essere una paranoica posseduta da brame lussuriose. Dubitai che “lui”, se del davanti fosse un dilettante, del didietro appariva uno specialista acculturato. Riflettendo sul suo exploit, ne dedussi che, o ne aveva una innata ispirazione, un naturale talento, o non era da escludere l’eventualità che avesse un amico il quale assomigliasse più alla mamma che al papà.
Accadde tutto in tempo reale, non mi aveva lasciato un minuto per pensare, per immaginare, il che una sorpresa divenne un fatto compiuto, una nuova esperienza che mi incusse paura poiché rimandava a conseguenze che non conoscevo.
Ero ancora stesa con lui sopra, ne sentivo il fiatone caldo sul collo. Gli chiesi: - -Cosa mia hai fatto!-- ++ Perché! Non ti è piaciuto?++ - - No! Li, non voglio essere toccata, è contro natura - - + + Fai troppi piagnistei: davanti ti fa male e ci trovi mille complicazioni e dal di dietro sei ritrosa. Da qui non correremmo il rischio di inopportune gravidanze e tu non perderesti neppure la tua malcelata virtù, ammesso che te ne sia rimasta una sola briciola.++ Si era fatto tardi, per cui detto questo se ne andò. Una nuova angosciante asperità si presentava minacciosa all’orizzonte. Ne avrei commentato con Dxxx, poiché, attenendomi ai vecchi consigli di famiglia, era meglio avere un parere in più che uno in meno. E io nel frattempo, che ci potevo fare?
Potevo forse rifiutarmi? Non ne avevo le risorse, né la personalità. Di solito mi era più facile dire di si che di no. Ormai mancavano pochi giorni al ciclo lunare e io avrei ondivagato fino a dopo quel momento, poi gli avrei lasciato gustare i godimenti del dolce nettare del mio giardino fiorito al quale si sarebbe indubitabilmente appassionato e avrebbe tralasciato il percorso proibito. Dopo alcuni giorni trascorsi con il solito tram tram, arrivò una missiva dalla assicurazioni invitandomi ad un appuntamento con il perito che avrebbe dovuto valutare l’infortunio da me subito. Volendo essere il più concisa possibile, descriverò solo i momenti cruciali. Andai all’appuntamento con mio fratello da inesperti, senza avere cognizioni di causa sulle norme da adottare. La mia buona stella volle che l’assicuratore rendendosi conto della nostra ingenuità, si responsabilizzò e fece da avvocato del diavolo assumendo le nostre difese. Dopo un breve sproloquio sulla mia infermità passò alla richiesta dei danni in valuta. Chiese un danno biologico e morale sparando una cifra che mi confuse.
Dieci milioni di lire, al che io pensai avesse confuso le migliaia con i milioni. Ma quando la discussione tra loro si approfondì e sentii la contro offerta del perito esaminatore compresi che si faceva sul serio e per poco non svenni. Cinque milioni fu la controproposta, al che il mio protettore si alzò in piedi e mi invitò ad alzarmi e mostrare i danni che tenevo occultato dalle sottane. “Guarda qua”, gridò rivolgendosi al perito sbirciandogli una foto dell’incidente. Lo stesso mi invitò ad alzare la sottana per mettere bene in evidenza i danni celati. Al che, io per pudore esitai. Mio fratello mi aggredì: che hai? Fai la solita lavativa? Incalzata ubbidii, alzai la sottana forse esagerando, perché misi in mostra le escoriazioni ormai incrostate in tutta la loro estensione, ma nel contempo scoprii anche le mutande con tutto il panorama che ne conseguì. La scena che inscenai mi mise subito a disagio, ma poi quando scorsi traccia di un sorriso sulle loro labbra e nell’insieme mi inviarono i loro sguardi di apprezzamento, non ne fui più tanto sicura. I loro commenti li trovai così eccitanti che mi sentii ben predisposta verso l’idea di simili costrizioni. Quanto forti sono gli istinti e quanto poco ci vuole a scatenarli. Lo spettacolo mi fece sentire seducente.
Nonostante tutti i miei dubbi non riuscivo a credere che mi piacesse, che mi fossi davvero eccitata a farmi vedere in pubblico. Come inorridita e spaventata tolsi gli occhi dai miei esaminatori, cosa che attribuirono a modestia e a una sorta di normale pudore insito in una innocente ragazzotta tredicenne di campagna. (continua 6)



























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