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Lettera di una madre


di geniodirazza
07.09.2021    |    21.800    |    8 9.6
"Un mese dopo ero certa della maternità e ripresi i viaggi di visita ai miei a Roma; ma stavolta mi facevo precedere da una telefonata a Paolo che mi veniva a..."
Solo un evento di particolare rilevanza poteva interrompere la pigra, rassegnata abitudine di vedere noi tre fratelli separati e lontani, nonostante gli sforzi immani di nostra madre di tenere unita, come un unico blocco, la famiglia, dopo il suicidio di nostro padre che, venti anni prima, era piovuto come una mazzata terrificante su di noi; era stata nostra madre a tirare le fila della vita di ciascuno di noi tre, ma anche a determinare la frattura.
Con molto buonsenso ed un’abile regia, era riuscita a riunire nel vecchio casolare avito, opportunamente ristrutturato, l’effervescente Giannicola, che si inventava ogni giorno una professione, ma riusciva comunque ad essere pilastro forte della sua famigliola, tre figli di cui il primo ormai ventenne; il serioso Gianfilippo, tutto suo padre, dedito al lavoro ed ai due figli, il primo ventenne; l’ultimo piano l’aveva riservato per sé e i suoi genitori che spesso da Roma si fermavano a Sulmona per lunghi periodi.
Pr me, Giuliana, aveva speso energie e un patrimonio per farmi studiare a Roma, prima per la laurea in medicina poi per la specializzazione in chirurgia, che aveva sognato e mi aveva insegnato a sognare sin da bambina; purtroppo, tra Università, cliniche e professione, i miei rapporti erano diventati sempre più telefonici , recentemente, video fonici, perché l’impegno nello studio e nel lavoro mi assorbivano troppo; il matrimonio e la nascita di Ginevra, come sua nonna, aveva chiuso il cerchio.
Gli ultimi anni di vita di mia madre erano stati un autentico calvario; il cancro che l’aveva aggredita era di quelli che non uccidono ma non perdonano; scherzosamente, Ginevra diceva che per questo mi aveva voluto medico, ma poteva ben poco la chirurgia contro un nemico subdolo che la consumava giorno per giorno; la morte arrivò come una sorta di liberazione, dopo mesi infernali di degenza e sofferenza, sua e nostra.
L’occasione per trovarmi seduta davanti ai miei fratelli, ai quali ero comunque visceralmente legata, fu la dolorosa scelta di svuotare l’appartamento che era stato di mamma; i miei fratelli volevano che esaminassi le cose di lei per decidere cosa tenere, cosa regalare e cosa buttare perché inutile; la sofferenza per la perdita del mio faro di riferimento, anche in età avanzata, mi impediva anche di guardare con occhi sereni gli oggetti, piccoli e grandi; ma dovetti accettare di farlo.
Di tutto il coacervo di cose, molte ora decisamente inutili, mi colpì l’ultimo libro che, mentre era inchiodata al letto di casa perché la malattia la debilitava, stava leggendo a piccoli sorsi; ma soprattutto mi colpì il ‘segnalibro’ con cui marcava l’avanzare delle pagine, una busta chiusa indirizzata ‘a Giuliana’ di cui nessuno aveva mai avuto sentore; le due paginette piene della grafia fitta di mia madre contenevano il terremoto più spaventoso che avrei mai potuto immaginare e che dovetti affrontare.
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“Cara Giuliana,
considerando che tra qualche giorno sarai maggiorenne, ritengo arrivato il momento di farti conoscere qualche verità sicuramente amara, ma senza dubbio indispensabile perché tu possa conoscere fatti che ti toccano assai da vicino.
Avevo l’età che hai tu ora quando conobbi Giovanni, quello che sarebbe diventato poi mio marito per tutta la sua vita; a quel tempo, vivevo in un paesino molto vicino a Roma, che tu conosci benissimo; con tutti i coetanei, ‘scendevamo’ la sera a Roma per scatenarci come ritenevamo giusto a quella nostra età.
Non so cosa abbia tu fatto della tua vita, ma io non me n’ero risparmiata nessuna; avevo, generosamente e con estrema leggerezza, dato già tutto, mani bocca ano e figa nell’ordine, negli amorazzi giovanili con gli amici del gruppo che frequentavo.
Giovanni veniva da Sulmona, il classico burino bello come un adone, un poco coatto ma tanto affascinante; se ti dico che me ne innamorai subito, puoi crederci; e se ci aggiungo che l’amo con tutta me stessa dopo che se n’è andato, ti prego di credermi, anche se quello che ti dirò adesso pesa assai contro di me e contro questa affermazione.
Con lui mi lasciai andare e fu subito esplosione di fuochi d’artificio; quando ci conoscemmo, per caso in un bar dove per poco non attaccava briga con i miei amici, era solo un manovale generico capace di qualunque lavoro; era stato chiamato da conoscenti trasferiti nella Capitale dalla sua città e che stavano sistemando l’appartamento in cui sarebbero andati ad abitare.
Passarono così alcuni mesi in cui diedi fondo a tutte le mie risorse d’amore, scoprendo in lui l’amante che avevo sempre sognato; il ragazzo aveva un gran bella mazza, lunga grossa e nodosa; e sin dal primo momento me la fece sentire viva e dura tra le natiche e tra le cosce, mentre ballavamo; la libidine mi schizzò a mille e volli farci l’amore senza perdere tempo e, soprattutto, prima che qualche amica più ‘calda’ lo irretisse nella maniera giusta.
Insomma, in un angolo appartato dello stesso bar, facemmo i primi approcci; dopo qualche tempo, ma non molto, finimmo a fare l’amore nei parchi, nei posti strategici, in macchina quando gli riusciva di trovarne una in prestito; naturalmente, per questi incontri contavano poco preliminari e svenevolezze; l’importante era prendersi la mazza in mano, in bocca, nell’ano o in vagina e farlo con tutta la voglia possibile e con l’entusiasmo dei giovani.
Quando finirono i lavori per quegli amici, dovette tornare a Sulmona e veniva giù il venerdì sera; alloggiava in posti di emergenza, quasi sempre alberghetti di infima categoria a basso costo; ma la cosa più importante era che avevamo intere ore per noi, per copulare alla grande ed esaurirci in estenuanti sessioni pomeridiane e serali; poche volte mi riusciva di ottenere il permesso per fermarmi fuori casa per la notte, con la complicità di amici.
Quando conquistavamo quel letto, ci scatenavamo nelle acrobazie più assurde del sesso; Giovanni era abbastanza deciso, spesso persino rude; usava il sesso come uno strumento di piacere addirittura estremo e picchiava con la sua dotazione più che notevole fino a fare talvolta male; ma con lui era entusiasmante anche il leggero dolore che poteva derivare dalla differenza di calibro tra la mazza e il foro in cui entrava a forza.
Col tempo, mi abituai; anche i colpi che la punta del sesso inferiva alla testa dell’utero diventarono parte del piacere che mi procurava sentirmi avvolta tra braccia forti e rassicuranti, baciata con passione su tutto il viso e subito penetrata in vagina dalla grossa mazza; il grande vantaggio delle copule con lui era dato anche dalla durata, sia dei singoli amplessi che della sessione d’amore.
Una copula con lui poteva protrarsi anche per tutto un giorno e una notte, la tensione del suo sesso non veniva mai meno e, quando raggiungeva un orgasmo e scaricava dove capitava, nel ventre, sul corpo o in bocca, le sue enormi eiaculazioni, era quasi immediatamente dopo pronto a ricominciare come se l’amplesso l’avesse ricaricato anziché svuotarlo; per me, fare l’amore con lui era sublime.
La nostra ‘clandestinità’ non ebbe una durata lunghissima; ambedue volevamo uscire dalle ambiguità; i viaggi da Sulmona pesavano sul suo bilancio di manovale; le finzioni con le famiglie erano ormai persino penose; sorse allora inevitabile l’esigenza di dare una veste ufficiale al nostro rapporto e decidemmo di sposarci; i suoi avevano a Sulmona vari possedimenti, specialmente campi agricoli ma anche cascinali.
Soprattutto questi si prestavano a trasformarsi in moderni appartamenti per noi; la manualità di Giovanni e l’aiuto degli amici operò il miracolo e in breve la nostra casa fu pronta a ricevere gli sposi; il matrimonio si svolse, per naturale necessità, nelle forme e coi riti locali e mi sentii felice e principessa; senza dubbio, quello fu uno dei giorni più belli della mia vita.
Volentieri misi in un cassetto i miei sogni e le mie ambizioni ‘cittadine’ per adattarmi al nuovo, imprevisto ruolo, di rustica moglie attenta a tutte le esigenze che la vita di campagna proponeva, che non erano poche ed erano legate anche alle stagioni; la nascita di Gianfilippo, prima, e di Giannicola, dopo, completavano la felicità; quando il più piccolo aveva 10 anni, feci l’incontro fatale della vita.
Sin dai primi anni di matrimonio avevo preso l‘abitudine di andare, all’incirca una volta al mese, al paesetto dove vivevano i miei e mi trattenevo con loro per tutta la giornata; in qualche occasione dormivo da loro e tornavo il pomeriggio seguente; facevo il percorso in treno per non sottrarre l’auto per un giorno a mio marito e impiegavo due ore e mezzo per andare e altrettante per tornare; le vetture non erano quasi mai affollate e il viaggio risultava per lo più noioso.
Quel giorno mi ero ‘imboscata’, come mio solito, in un angolo appartato della vettura dove fui raggiunta, quasi a sorpresa, da un gran bell’uomo, di poco più anziano di Giovanni, che non tardai ad identificare per uno dei vecchissimi compagni d’infanzia di mio marito, sparito dalla circolazione perché s’era trasferito a Roma dove svolgeva attività di chirurgo; mi riconobbe e fu affettuosissimo; per tutto il viaggio mi corteggiò dolcemente e mi travolse con la sua loquela.
Avevo poco meno di quarant’anni e mi ritenevo al di là di ogni tentazione; ma Paolo riuscì, col suo garbo, a risvegliare in me sopite ansie di passione e desideri repressi in anni di vita ‘contadina’; per non tirarla per le lunghe, dopo poco più di un’ora e mezza eravamo quasi intimi e se non ci baciammo fu perché la carrozza aveva altri viaggiatori e tutti più o meno ci conoscevano; ma quando arrivammo alla stazione, il desiderio di non chiudere lì l’incontro era fin troppo dominante.
“Perché non facciamo insieme un giro in città? Immagino che sia da molto tempo che non rivedi i ‘tuoi’ posti.”
L’invito tacito era fin troppo evidente; la voglia di un colpo di testa, di quelli che avevano segnato la mia gioventù era fin troppo pressante; Paolo era uno dei ragazzi, a suo tempo, affascinati da me e che avevano resistito solo per un atavico rispetto del matrimonio e dell’amicizia; a quel punto, i freni inibitori saltavano e sapevamo entrambi che un ‘giro in giostra’ volevamo farlo ambedue; ci misi poco a telefonare a mamma per avvertirla che sarei arrivata a sera per fare spese in centro.
A Giovanni telefonai per avvertirlo che questioni familiari mi imponevano di fermarmi almeno tutto il giorno; sarei tornata l’indomani con un treno del tardo pomeriggio; preoccupato, mi chiese se non preferissi che venisse a prendermi in auto; lo rassicurai e mi garantii libertà per almeno quel giorno; la mia intenzione era un gioco folle che durasse dalla mattina al tardo pomeriggio; per cena sarei stata da mia madre e Paolo dalla sua famiglia.
Mi guidò direttamente allo studio che aveva in centro e, dopo meno di mezz’ora, eravamo nel suo studio elegantemente arredato che ci spogliavamo come due disperati; mi era sempre piaciuto molto, in gioventù; ora, da uomo maturo, mi intrigava ancora di più, con la linea elegante che aveva mantenuto intatta e giovanile; il primo bacio fu l’apertura di una porta al paradiso che mi ridiede il senso di una vita spensierata a cui avevo rinunciato.
Non avevo perduto niente, col matrimonio, e Giovanni corrispondeva esattamente al mio desiderio di femmina e di sposa; accanto alla quotidianità fatta di lavoro e di rispetto delle regole, la camera da letto era comunque il campo in cui esercitavamo ben volentieri un’inossidabile forza del sesso che ci faceva vivere momenti di grande entusiasmo anche dopo la nascita di due figli; lui mi aveva strappato alle mie abitudini ‘leggere’ di sesso libero, se non libertino, con la possanza del sesso e con l’amore.
Era ben dotato, mio marito, e non risparmiava la sua martellina quando si trovava a picchiare sulla vulva; anche se non era stato lui a sverginarmi sia in vagina che nell’ano, ma aveva trovato già un percorso aperto, comunque era riuscito a farmi raggiungere tali vertici da cancellare anche il ricordo delle precedenti copule, perché faceva l’amore da dio e mi aveva convinto che, oltre a lui, non avrei saputo o potuto trovare altro di altrettanto seduttivo e soddisfacente.
L’amore non era affatto in discussione neppure mentre mi lasciavo andare alla lussuria di un incontro straniante e imprevisto; ero certa che, dopo quell’occasione, sarei tornata nel’alveo della normale vita di moglie di un contadino e avrei dimenticato i pruriti di vagina che in quel momento mi stavano travolgendo; la certezza dell’amore per Giovanni mi impediva persino di considerare tradimento la copula che mi apprestavo a consumare con Paolo.
Mentre mi baciava, le sue mani svariavano sul mio corpo e la delicatezza delle carezze mi dava l’impressione di tornare indietro negli anni e di sentirmi all’improvviso adorata come un tempo; la mazza che sentivo premere sulla vulva, attraverso i vestiti, non mi dava particolari sensazioni di eccitazione; forse era addirittura meno di quella di mio marito, ma mi solleticava con dolcezza e mi offriva una dimensione diversa, caricata senza dubbio dalla situazione di trasgressione che vivevo.
C’era nell’ufficio un enorme divano, dell’ampiezza quasi di un letto, segno che Paolo aveva già la perversa abitudine di offrire alle sue pazienti altri tipi di sollievo; naturalmente, la cosa non mi toccava, perché il mio interesse in quel momento era vivere un momento di ‘alterità’ rispetto al mondo rustico, per quanto molto evoluto e assai poco rurale, comunque legato al quotidiano; mi lanciai senza esitazione nell’esibizione delle mie immense qualità amatorie.
Il bacio si trasformò presto in una lussuriosa battaglia di lingue che si leccavano, si succhiavano, si aggredivano e si stimolavano fino a produrre fiumi di orgasmo ai quali i miei slip non sapevo quanto potessero opporsi; contemporaneamente, gli strappavo gemiti e lamenti di piacere che acuivano la mia lussuria e lo spingevano ad amarmi al meglio; quando mi sedetti sul divano e gli aprii la patta, quasi lo sconvolsi per la dolcezza con cui presi il suo pene e lo accostai alla bocca.
Gli praticai una fellazione da enciclopedia che avrebbe abbattuto anche amanti più preparati ed aggressivi di lui; rispose spingendomi sul divano e sfilandomi di dosso l’abito campagnolo fino a trovarmi nuda davanti a lui; sapevo di essere ancora molto bella ed appetibile, per la mia età; ma lo sguardo incantato di lui mi fece capire chiaramente che rappresentavo un’autentica sorpresa di bellezza e di passione; si inginocchiò davanti a me, mi allargò le gambe e portò la testa sulla vulva.
Il cunnilinguo che mise a punto mi stordì letteralmente; mi sentiti, dopo molti anni, leccata e succhiata come poche volte mi era capitato; avvertii nella sua attitudine a leccare una voglia ed un desiderio che trovava sfogo, forse perché ricercato spesso e non incontrato sempre; tra la sua smania di divorare il mio sesso con tutta la passione di cui era capace; e il mio entusiasmo a sentirmi adorata da una lingua abile e capace di strappare piacere da tutti i recessi del sesso, godemmo a lungo.
Quando scelse di penetrarmi, mi chiese se ero protetta; gli dissi che non prendevo la pillola e che doveva o tirarsi indietro all’ultimo momento come faceva di solito mio marito o cercare un preservativo per proteggersi; interrompere il coito gli risultava difficile anche da ipotizzare; preservativi non ne aveva; mi chiese se ero vergine dietro; gli chiesi sorridendo come poteva pensare che una donna come me avesse lasciato intatta una verginità che al tempo si offriva prima di quella vaginale.
Prelevò dal suo armadietto un tubo di gel e si applicò al mio ano con delicatezza ed amore; in breve, il mio canale rettale era in grado di assorbire senza sforzo le quattro dita di una mano che faceva ruotare a cerchio per adattare il buchetto alla mole del sesso; mi stese supina, alzò le gambe sopra la sua testa e mi infilò nel retto la sua mazza fino a che gli ossi pubici si scontrarono da farci male; esplose in un orgasmo ferino prima che avesse il tempo di avvertimi; mi masturbai per godere.
Sembrava quasi che tutto si dovesse risolvere in una rapida copula occasionale, peraltro anche un poco deludente, con un coito anale concluso all’improvviso; ma per fortuna non fu così; dopo l’orgasmo, ci stendemmo sul divano, completamente nudi, e ben accostati, anche per i limiti imposti dallo spazio; lui riprese ad accarezzarmi e a coccolarmi dolcemente; il suo membro riprese lentamente vigore ed io mi sentii sempre più eccitata e disponibile ad altri amplessi.
Quando la sua mazza raggiunse una dimensione idonea, lui mi salì addosso e cominciò a baciarmi delicatamente sul viso; da lì, discese sul corpo e si soffermò sui seni; mentre leccava e mordicchiava le mammelle ancora piene e sode, nonostante l’età e due allattamenti; ma anche le aureole ampie grinzose e ben disegnate; e, soprattutto, mentre mi tormentava i capezzoli, grossi, pronunciati e tesi per la libidine, sentivo scorrere dalla vulva fiumi di umori che bagnavano la pelle del divano,
Con puro spirito di massaia, mi preoccupai della macchia che la pozza di umori poteva provocare sulla seduta; ma la serenità con cui lui ne prendeva atto mi suggerì che doveva essere abituato e che presumibilmente un opportuno lavaggio, prima di riportare il mobile alla funzione istituzionale, di sedile per assistiti e accompagnatori, avrebbe cancellato il guasto e riportato la normalità; sicché non me ne preoccupai e mi lasciai andare al piacere di ritrovare l’entusiasmo degli anni giovanili.
Infatti, la copula, con tutti i gustosi preliminari che ora si andavano sviluppati, mi faceva sentire esattamente come quando, da ragazza, affrontavo quelle situazioni con l’unico chiaro scopo di ricavarne il massimo piacere; e quel modo di stimolarmi e di portarmi piacere su tutto il corpo era tanto eccitante da farmi dimenticare il mondo esterno; dai seni, Paolo passò al ventre ed alla vulva dove si lanciò in un lungo e gustoso cunnilinguo che mi svuotò.
Il desiderio di entrambi era ora la penetrazione in vagina; lui voleva sentire il calore del canale vaginale riempito dalla sua mazza; io ardevo dalla smania di sentirmi impalata da quell’asta che m appariva meravigliosa; quando sentii che accostava la cappella alla vagina, ebbi un momento di resipiscenza e tornai a dirgli che non ero protetta e che certamente ero nel periodo più fertile del ciclo; mi rassicurò e lo sentii con gioia sfondarmi il ventre fino al’utero.
Purtroppo, la gioia si dissolse di colpo quando, all’apice di un orgasmo stratosferico, mentre mi perdevo nel languore della libidine pura, avvertii nettamente gli spruzzi dello sperma sparati direttamente sul collo del’utero; gli urlai la mia rabbia e il mio timore, ma lui non poté che assumere un atteggiamento di totale contrizione; balbettò che aveva troppa voglia, che il mio corpo lo aveva disorientato e comunque non si impedì di versarmi in vagina uno tsunami di sperma.
Ero abituata, con Giovanni, che, quando avvertivamo gli stimoli dell’orgasmo, lui si ritirava velocemente dalla vagina, si appoggiava sul ventre e versava il suo orgasmo sul mio ombelico; era diventato quasi uno standard delle nostre copule, quando non avevamo a disposizione un preservativo; non ero riuscita a farmi prescrivere la pillola anticoncezionale per contrasti col mio organismo, ma eravamo diventati una coppia veramente affiatata anche in questo.
Lo maledissi in tutti i modi e gli urlai tutta la mia rabbia; cercò di rabbonirmi affermando che le possibilità di un’inseminazione non erano poi così alte; comunque, neppure alla pillola del giorno dopo potevo pensare di ricorrere per gli stessi problemi che rendevano sconsigliabile l’uso dell’anticoncezionale; l’unica possibilità che rimaneva, se non volevo correre rischi, era di fare sesso con Giovanni il giorno dopo e creare un ‘incidente’ che giustificasse l’eventuale gravidanza.
Lasciai Paolo molto turbata per l’imprevisto, ma ‘cosa fatta capo ha’ e non c’era rimedio; mi rassegnai ad aspettare gli eventi e ci salutammo con un certo astio che col tempo sarebbe sfumato; andai a trovare i miei, mi trattenni da loro per piccole commissioni, non dovetti dare nessuna spiegazione del mio soggiorno romano; il pomeriggio del giorno seguente, come d’accordo con mio marito, ripresi il treno per casa e tornai col volto sorridente di sempre.
Il primo pensiero, naturalmente, fu di procurarmi un preservativo; non mi fu difficile, la sera stessa, fare un poco la graziosa con Giovanni e convincerlo a fare l’amore, col preservativo; fu dolce come al solito e sentii una punta di colpa amareggiarmi il cuore mentre mi comportavo da perfetta adultera per creare i presupposti necessari, qualora fossi rimasta incinta, per attribuire a lui la nuova maternità, decisamente anomala alla mia età e a dieci anni dall’ultimo parto.
Mio marito era un buono e non ebbe difficoltà a rammaricarsi e sentirsi in colpa quando, alla fine della copula, sfilandogli il preservativo usato, gli feci notare che, nella foga dell’amplesso, si era rotto e che lo sperma mi aveva invaso l’utero; era decisamente indegno quello che stavo facendo, ma era l’unico modo per coprire una colpa ormai commessa; mi rassicurò con la speranza che, se fosse successo, almeno fosse una femmina, finalmente, perché la desiderava.
Fu da quell’incidente che nascesti tu, mia cara; e ti dirò che fu con una gioia immensa che tutti accogliemmo la notizia che avrei avuto una bambina; nessuno aveva neppure accennato all’ipotesi di abortire, anche perché non era consigliabile per il mio stato di salute; tutta la famiglia invece si trovò ad attendere come un Messia la bambina che avrebbe completato la nostra famiglia e la nostra gioia.
Un mese dopo ero certa della maternità e ripresi i viaggi di visita ai miei a Roma; ma stavolta mi facevo precedere da una telefonata a Paolo che mi veniva a prendere alla stazione e mi portava nel suo studio, ormai alcova definita per le nostre sessioni amorose; lì mi scatenavo nel piacere più vario ed intenso possibile, percorrendo tutti i sentieri della copula e tutte le forme del rapporto sessuale, conosciute o inventate sul momento.
Passavamo in genere l’intera mattinata e raggiungevo il paese solo nel primo pomeriggio; talvolta rientravo in giornata, con somma meraviglia di mia madre che aveva perfettamente capito che avevo un amante a Roma ma solidarizzava con me e mi suggeriva solo, assai spesso, di usare prudenza; più volte, infatti, con terrore, mi ero accorta che paesani che avevano viaggiato con me vedevano perfettamente che a Roma c’era ad aspettarmi qualcuno; ma non me ne preoccupai molto.
Purtroppo, però, le notizie a mio marito arrivavano, filtrate, edulcorate, confuse, frammentarie, ma comunque tali da turbare l’equilibrio della famiglia; più volte mi chiese se a Roma mi aspettava abitualmente qualcuno e, per non contraddire troppo frontalmente le voci che correvano, gli parlai di Paolo e gli dissi che, lavorando nella zona della stazione, talvolta mi ero fermata a bere con lui un caffè; ipocritamente, gli portai persino i saluti del vecchio amico.
Dovetti interrompere i miei viaggi quando i pancione li sconsigliò vivamente e rinunciai al mio sesso mensile per un lungo periodo, fino a che non mi fu possibile lasciarti a mia suocera e ai tuoi fratelli e ripresi il pellegrinaggio dai miei genitori, ufficialmente, ma in realtà, alla mia dose mensile di sesso goduto e soddisfacente; nel corso del tempo, scemò notevolmente l’amore per mio marito e mi accorsi che spesso per lunghi mesi non ci incontravamo a letto neppure per caso.
Fu, quella, la parte più dolorosa della mia vicenda, quella in cui coscientemente distrussi un amore che mi aveva portato lontano dalla mia realtà per calarmi in una nuova dimensione; di colpo, tutto finiva per pesarmi e i nostri rapporti si fecero sempre più tesi; fu in quella fase che, probabilmente i sospetti di Giovanni si fecero concreti al punto che assunse informazioni precise e seppe che erano anni che avevo una doppia vita; forse nacquero sospetti anche sulla vicenda del preservativo.
La giornata che avviò la tragedia si aprì poco prima dell’alba, quando Giovanni uscì cautamente di casa come spesso faceva per andare nei campi o nei boschi a caccia di tartufi; ma stavolta non aveva cani e suo padre vide che la macchina dirigeva fuori città; guidando a rotta di collo, fu a Termini che ancora non ero montata sul mio treno; non ebbi nessun sentore della su presenza quando arrivai a Roma e mi diressi allo studio dove Paolo mi aspettava.
Mio marito mi raccontò poi che raggiunse con qualche difficoltà lo studio; non c’era portiere e bussò a caso finché gli aprirono; l’accesso allo studio era, come sempre, aperto; dall’anticamera, udì rumori classici di una copula provenienti da una porta; con la sua struttura fisica e l’abitudine al lavoro di taglialegna, tra gli altri, abbatté con una spallata l’uscio e fece la sua comparsa nella sala dove, sul solito divano, io e Paolo, nudi, eravamo in pieno congresso carnale.
Il dottore scattò scandalizzato; io riconobbi mio marito e lanciai un urlo di spavento; lui ci guardò con uno sguardo che esprimeva tutto il suo infinito disprezzo; vidi che serrava con forza i pugni e le mascelle; temetti che ci spaccasse in due a cazzotti; ne aveva la forza; invece gli occhi gli si riempirono di lacrime, fece un passo verso di me, ci ripensò, si fermò, girò le spalle e scomparve dietro la porta scardinata.
Istintivamente mi alzai per corrergli dietro; mi resi conto che ero nuda e rinunciai; ci rivestimmo in fretta e Paolo mi accompagnò alla stazione; corsi al binario sperando di trovare Giovanni, ma incontrai un paesano che mi chiese se avevo appuntamento con mio marito; dissi di si e mi indicò un parcheggio lì vicino dove lo aveva visto dirigersi; mi fu chiaro che era venuto in macchina e forse adesso era già sulla via del ritorno.
Presi il primo treno e dopo un viaggio di lacrime e di pentimenti, assurdi entrambi, andai a casa, che trovai spettralmente vuota; mi assalì a quel punto un sentimento di paura che mi avrebbe accompagnato per le settimane successive, inesorabilmente; mio marito era un uomo buono, anzi, secondo parametri popolari, due volte buono, al punto di sfiorare ,in alcuni casi, il ‘tre volte buono, quindi fesso’; mai, da quando l’avevo conosciuto, l’avevo visto perdere le staffe.
Quando però scatenava la sua forza, come era avvenuto nello studio di Paolo, era un’ira di dio e non conosceva né limiti né ostacoli; inoltre, nel territorio era famoso per la sua abilità nell’ammazzare pecore e maiali, nella stagione giusta; con un colpo di roncola tagliava nette carotide e gola, fino a staccare la testa; se avesse fatto prevalere contro di me la sua indole montanara e il sentimento dell’orgoglio calpestato, la mia vita non valeva niente.
Il terrore che, accecato dal’ira, arrivasse ad uccidermi mi attanagliò per molto tempo; ripensavo al passo del vangelo che invita a ‘temere l’ira dei buoni’ ed avevo chiara la coscienza che, in quella situazione, un buono poteva facilmente trasformarsi in un feroce macellaio; non avrebbe neanche avuto tutti i torti; non mi restava quindi che aspettare e sperare che diverse ed altre motivazioni lo avessero indotto ad affrontare la questione con spirito differente; avevo comunque paura.
Dal racconto che mi facesti tu stessa, seppi poi che eravate andati, padre e figli, in farmacia dove lui si era informato a proposito di certe analisi; dagli sguardi sbiechi e feroci dei suoceri, sapevo per certo che la condanna era ben più aspra del solo sguardo di disprezzo che mi aveva lanciato Giovanni; solo allora mi rendevo conto che tu avevi quindici anni e che, quindi, da almeno sedici io mantenevo in vita una storia di corna che in quegli ambienti è una colpa imperdonabile.
Passarono un paio di settimane nel corso delle quali evitò pesino di incrociare il mio sguardo; io mi muovevo come camminassi sulle uova, pronta a scappare se avesse anche solo accennato un minimo scatto di rabbia; il paradosso era che stavo recuperando l’amore bruciato sull’altare del sesso e avrei fatto qualunque cosa per ritrovare l’uomo di cui mi era innamorata e che ancora mi ricambiava, evidentemente, se non mi aveva né uccisa né cacciata come avrei meritato, secondo i parametri locali.
Per l’appunto dopo un paio di settimane, capii finalmente quel che mio marito aveva fatto e il mondo mi crollò addosso definitivamente, quando trovai ben stesi sul mio cuscino tre test del DNA da cui risultava chiaro che Gianfilippo e Giannicola erano suoi figli e tu invece eri nata da un altro maschio; non avevo niente da obiettare e non avrei avuto scusanti; al pluriennale tradimento in se, avevo aggiunto una figlia illegittima vissuta come propria; c’era abbastanza da ammazzarmi come un agnello.
Quel giorno, che sicuramente ricorderai perché fu attraversato dalla tensione più terribile che si possa immaginare, fu quello che segnò la tragedia vera e propria; ora so che Giovanni aveva deciso di fare il minore danno possibile; se mi avesse uccisa, come la sua indole suggeriva, vi avrebbe privato della madre morta ma anche del padre che si sarebbe beccato un ergastolo che vi lasciava completamente soli; scelse la strada più logica ma anche la peggiore, che mi fa ancora paura.
Uscì di mattina presto, ancora una volta, e dichiarò che andava per tartufi, ma non portò con se nemmeno un cane; andò a piedi e lasciò a casa la macchina; a sera, aspettammo invano che tornasse, secondo le sue abitudini; il giorno seguente perlustrammo palmo a palmo i cespugli del bosco temendo una disgrazia; lo trovarono impiccato ad un albero; aveva scelto di scomparire e di lasciare campo libero alla mia impudicizia, ‘togliendo il disturbo e cancellando la vergogna’.
Da quel giorno vivo con i miei incubi; non avevo mai voluto accettare che tu fossi la ‘figlia della colpa’ ma piuttosto il frutto di un amore anche se insano; quel gesto definitivo mi indicava che non avevo avuto il coraggio di andarmene, dopo avere sbagliato così gravemente; temo che ad impedirmelo siano state la presunzione di mantenere vivo un inganno terribile e la speranza che la passione scemasse da sola; ho sbagliato completamente.
Non so se e quando leggerai queste righe; almeno con te, ho sentito il dovere di essere chiara, una volta per tutte; io avrei il dovere di scontare la pena prevista per la mia colpa raggiungendo mio marito per lo stesso percorso che l’ha indotto a svaporare per togliere almeno un elemento della frizione; ma la parte più vile di me si arrocca dietro la convinzione che renderei ancora più inutile il suo gesto, se vi lasciassi; restare ed accettare la vita che mi si prospetta forse darebbe anche un senso al suo gesto.
Non so cosa farò; lo capirai se e quando leggerai queste righe; una cosa voglio che sappia, che sei stata figlia dell’amore, forse di un amore malsano, alla radice; ma Giovanni ti ha amato come una figlia e spero che lo ricorderai come un padre, anche perché non conosci la brutta verità nascosta; se e quando la conoscerai, le cose saranno diverse e, spero, più limpide; ho amato Giovanni, forse più di quanto mi sia resa conto; la passione per Paolo era solo fisicità, esibizionismo e smania di non invecchiare.
Invece sono morta, con lui; e non so se avrò la forza di trascinare la vita dopo il terremoto che io stessa ho scatenato e che mi è piombato addosso con tutta la sua capacità distruttiva.
Con tutto l’amore del mondo.
Tua madre.”
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La data era quella di venti anni prima, a ridosso della morte di suo marito Giovanni, che per tutta la vita avevo vissuto, sentito, amato come padre, anche dopo, solo nella memoria; evidentemente, Ginevra aveva scelto di vivere e di assumersi la responsabilità di essere padre e madre, portandosi dietro il fardello di una colpa terribile; non mi era dato di sapere come avesse affrontato la responsabilità e le conseguenze, perché la scelta degli studi mi aveva strappato a quella cornice agreste.
Ma, guardata ‘a posteriori’, la scelta mi sembrava opportuna; finché ne era stata in grado, aveva diretto, tenendo con pugno forte le redini della casa, la vita di figli e nipoti, anche quelli che ormai erano a Roma, cioè io e la mia famiglia; aveva ceduto quando davvero il fisico non reggeva più, il male la consumava a vista d’occhio, ed ero stata io a dovermi prendere cura di lei nella clinica specializzata.
Anche in quel momento, con un foglio vergato venti anni prima, mi scaricava addosso una responsabilità enorme alla quale sentivo di dover corrispondere con la sua stessa energia; convocai i miei fratelli ed avvertii immediatamente e pregiudizialmente che rinunciavo a qualunque diritto sulla parte di eredità; i soldi e le energie spese per portarmi ad essere la professionista apprezzata che era compensavano largamente, ed io sapevo anche immeritatamente, la quota parte che cedevo.
Chiesi ai due di continuare a vivere d’intesa come lei aveva voluto e determinato; mi impegnai ad essere con loro almeno qualche giorno d’estate e nelle feste fondamentali, comprese le ricorrenze della morte di Giovanni e di Ginevra; consigliai di regalare ogni cosa alla Caritas e scappai via quasi come un ladro, portandomi dietro il peso difficile di una confessione assai amara; per un attimo, pensai di parlarne con mio marito; ma abbandonai subito l’idea.
Quel segreto che mia madre aveva custodito così gelosamente per venti anni e che aveva rivelato, indirettamente, solo a me in punto di morte, meritava di essere sepolto con lei; arrivata a casa, mi chiusi in camera e finalmente diedi sfogo al pianto che mi aveva oppresso per giorni ed avevo controllato quasi con metodo professionale; quando uscii, mia figlia e Marco, mio marito, mi accolsero con l’affetto che conoscevo.
La piccola Ginevra mi chiese se fossi triste; le dissi che il dolore non è tristezza; l’abbracciai; mi diressi al vassoio di cristallo che troneggiava al centro del tavolo della sala, vi depositai i fogli fatti a pezzi e li bruciai.
“Mamma, quella era una lettera di nonna Ginevra. Non era importante?”
“Si; era importante; ma non serve più; era solo una ricetta.”
Marco mi guardò con aria sorniona.
“Davvero solo una ricetta?”
“Si, per affrontare la vita, l’amore e la famiglia col dovuto equilibrio; servirà anche a noi, forse.”
Ci abbracciò in un afflato circolare, quasi a rappresentare la nostra unità.
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