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Gli errori di Elisa


di geniodirazza
28.02.2024    |    9.627    |    9 8.1
"Credo che i miei problemi siano cominciati assai prima di quando io me ne resi conto; avevo solo otto anni, quando mio padre decise di iscrivermi ad una..."
Credo che i miei problemi siano cominciati assai prima di quando io me ne resi conto; avevo solo otto anni, quando mio padre decise di iscrivermi ad una palestra di Judo; io ne fui contenta perché avevo l’occasione per giocare con tanti bambini della mia età; ma molto spesso, forse troppo spesso, avevo la meglio su di loro e questo scatenava le ire sia dei miei compagni di giochi che dei loro genitori, che consideravano addirittura offensivo che l’unica ragazza della scuola umiliasse, sconfiggendoli, i maschietti; mio padre, invece, pareva contento che fosse così; per lui il fatto che facessi paura ai maschietti significava soprattutto che non doveva stare con gli occhi sempre aperti per proteggermi dalle aggressioni dei maschi che ‘vogliono solo divertirsi con le ragazze’, come era opinione comune.
Forse si avviò lì la mia riserva pregiudiziale contro il maschio aggressivo e prevaricatore; non ero certo in grado di rendermi conto di una verità così profonda ed importante, ma forse il nucleo dell’avversione pregiudiziale si formò in quella fase e per quegli episodi di iniziale scontro con il maschio; successivamente, i problemi furono ben altri e di natura molto differente.
La prima vera difficoltà la registrai nel rapporto con la scuola, una struttura obbligante alla quale mi piegavo molto malvolentieri; e lì non bastavano l’impegno, la buona volontà o la determinazione; occorrevano invece continuità, pazienza e metodo, qualità che in casa mia erano del tutto sconosciute; ancora una volta, i miei mi lasciarono le briglie sul collo e la conseguenza fu che mi trovai a disagio fin dalle prime classi della media; rimediavo in parte leggendo molto, per il mio piacere; ma presto mi sarei dovuta accorgere che la cultura raccattata in quel modo, senza metodo e senza disciplina, avrebbe prodotto solo infarinatura confusa, senza principi e con idee molto spesso contrastanti fra di loro.
Per colmo di misura, proprio in quel periodo mio padre dovette decidere di emigrare, perché nel paesello di origine non c’erano possibilità di sbocco; su suggerimento di molti che erano emigrati ed erano poi ritornati sistemandosi al meglio, valutò a lungo le opportunità che gli si offrivano e optò per la Svizzera dove era più forte il nucleo dei paesani emigrati nel tempo.
Complessivamente, la scelta fu felice, perché riuscirono a mettere su, con mia madre e mio fratello grande, un punto di ristoro che rendeva bene, se condotto con l’intelligenza e la preparazione che loro avevano e mettevano in pratica; l’unica ad avere problemi fui io, che mi trovai a dovere ricominciare gli studi da capo, in un territorio che aveva il tedesco come lingua principale, ma dove convergevano anche francesi, inglesi, italiani, turchi e di molte altre nazionalità; specialmente la lingua tedesca si presentò come un macigno duro da portare ed io dovetti ricominciare gli studi dalle radici, in classi differenziate, perché ero totalmente ignorante e non idonea quindi alla classe che mi sarebbe spettata per l’età.
Arrivai a diciassette anni che non ero né carne né pesce; fortunatamente non avevo perso la buona abitudine di leggere per conto mio e mi riempii la mente di avventure e di storie favolose, senza riuscire a cogliere il senso vero di quello che leggevo e senza approdare all’attualità della cultura; vivevo divisa tra una formazione mitica e superstiziosa che mi tiravo dietro dal paesello e la realtà tecnologica del territorio dove vivevo, all’avanguardia in tutto; finivo per sentirmi lacerata tra il sogno del principe azzurro e le necessità della cibernetica.
Ogni estate passavamo due settimane intense al paesello, dove piombavo quasi in un’altra età, in un altro mondo; per fortuna, nel periodo in cui soggiornavamo noi, arrivavano anche molti emigrati che, pur vivendo all’estero, avevano famiglia e radici nel paese d’origine; questo rendeva più agevole la convivenza e il passare dei giorni; tra i giovani emigrati, spiccavano molti giovani ormai ‘emancipati’ e quindi decisamente interessanti per comportamenti, personalità, gusti; Carmine era uno di questi e ci misi poco a individuare in lui il principe azzurro che l’educazione dei nonni mi aveva suggerito.
La sera che mi chiese di andare a passeggiare su per la montagna, non ebbi nessuna esitazione e non mi armai di nessuno dei pregiudizi contro i maschi che mio padre mi aveva instillato da bambina; sicché quando mi bloccò contro un albero e mi baciò con la lingua, profondamente, non feci altro che lasciarlo entrare e sentirmi sciogliere fra le gambe come se qualcosa mi fosse scoppiato dentro; mi masturbavo ormai da tempo ed avevo coscienza che quello fosse un orgasmo; ma di quella forma e di quella intensità non lo avevo mai provato e mi sciolsi come un ghiacciolo.
Carmine non perse tempo; ormai già abbastanza ‘scafato’, mi aprì la camicetta, spostò il reggiseno e si impossessò delle mie tette che avevano già raggiunto una dimensione notevole; quando prese fra le labbra un capezzolo e cominciò a succhiarlo e mordicchiarlo, il mio ghiacciolo divenne solo acqua e non ebbi più nessuna forza, ma soprattutto nessuna voglia, di ribellarmi; lasciai che mi sollevasse la gonna, che mi sfilasse lo slip e dopo poco sentii il suo sesso appoggiarsi alla vulva, all’ingresso della vagina; un solo colpo deciso, provai una fitta di dolore e fu tutto dentro; aveva un membro bello grosso, il giovane Carmine, e mi diede brividi di piacere che non avrei più dimenticato.
Purtroppo, non solo non era il principe azzurro che avevo sognato, ma non era neanche il ragazzo serio e coscienzioso che mia madre si era augurata che incontrassi; la mattina seguente neppure mi salutava e dagli atteggiamenti dei suoi compagni era evidente che si era vantato di avermi violentata per il suo piacere; quello fu forse il mattone fondamentale alla costruzione della mia avversione per il maschio, specialmente per quello irrazionale, violento, aggressivo, insomma quello che spesso si dipinge come ‘maschio alfa’.
Quando tornammo a Zurigo, cercai di parlare con mia madre di quello che mi era capitato; fu molto comprensiva ed affettuosa, ma, per sua conformazione, finì per attribuirmi la colpa di ogni evento e riuscì soltanto a farmi sentire profondamente in colpa per non essere stata abbastanza previdente; alla fine del colloquio, avevo maturato la decisione che il paesello lo avrei rivisto solo in alcune occasioni irrinunciabili, come la morte dei nonni, ad esempio; che, prima di concedermi ancora ad un maschio, ci avrei pensato a lungo e forse non lo avrei mai fatto; che di certe cose non potevo parlare meno che mai a mia madre, che viveva una realtà troppo lontana dalla mia, e che, forse, potevo sfogarmi solo con qualche amica più fedele.
Quelle, fortunatamente, non mancavano, perché sin dall’arrivo in Svizzera avevo costituito un sodalizio molto forte con altre tre ragazze, Ivana, Rosy e Lauren alle quali mi legava un rapporto assai intenso di confidenza, di solidarietà ed anche di complicità, che ci consentiva di essere sempre solidali e pronte a difenderci anche a spada tratta contro ogni avversario e contro le avversità; naturalmente, con Ivana il rapporto era più intenso e convinto, in qualche modo sfociava in passione.
L’idea di omosessualità, di lesbismo, non mi affascinava molto; e qualche riserva rimaneva, dentro di me, frutto anche di una educazione atavicamente maschilista che veniva dalle nonne e dalla mamma; ma, sull’altro piatto della bilancia, pesavano enormemente i soprusi che tutte le ragazze avevamo subito, ciascuna a suo modo e per percorsi autonomi, da maschi prepotenti e violenti che ci avevano lasciato il segno,
In questo senso, Ivana rappresentava una sorta di pilastro indefettibile al quale mi attaccavo ogni volta che sentivo le mie certezze vacillare; quando tornai dall’Italia violentata, fu quasi naturale rivolgermi a lei per scaricare l’enorme peso che avevo accumulato e per trovare conforto alla pena che ancora provavo, non tanto per il male sofferto quanto per la caduta inesorabile delle illusioni che avevo coltivato su un rapporto ideale, profondamente umano ed intensamente spirituale, che ritenevo di stabilire con ‘l’uomo dei miei sogni’; chiesi ad Ivana di dedicarmi un pomeriggio per parlare e si liberò dal lavoro; si rese conto che volevo affrontare un tema delicato e fondamentale e, quando fui accanto a lei sul letto nella stanza dove era andata a vivere da sola, scaricai in un sol colpo, rapidamente, tutto il magone raccontando l’episodio di cui ero stata vittima.
Non cercò di consolarmi o di mitigare la portata dell’avvenimento e fu concorde con me nel ritenere che ero stata perversamente ingannata da un individuo senza dignità che aveva solo voluto scaricare le sue voglie ed offendermi a morte; mentre raccontavo, non potevo trattenermi dal piangere e, sedute come eravamo sul letto, Ivana ebbe un moto naturale per cui mi prese tra le braccia e mi strinse a sé quasi a proteggermi del male; inizialmente mi sentii solo protetta e, in qualche modo, garantita contro altri possibili mali; e già questo valse a farmela sentire molto più che amica, molto più che materna e affettuosa.
A mano a mano, poi, che il mio sfogo si rivolgeva alle paure che venivano dal cedimento mio, dai dubbi sulla capacità di difendermi che erano emersi non appena avevo ceduto alle suggestioni dell’amore, si avanzava sempre più netto il bisogno di riversare su di lei quelle emozioni, quasi a compensare con il calore dell’amica quello che era mancato nell’incontro con Carmine; cominciai a ‘sentire’ fisicamente il suo corpo e il mio che al suo si attaccava quasi a volersi fondere in una sola entità; la sua bocca mi catturava in un desiderio di scambiare, col contatto delle labbra, col passaggio di saliva, la sensazione di appartenenza che faceva di due persone una sola entità.
Mi ritirai, spaventata io stessa da come ero andata avanti perdendo il senso del limite; la cultura atavica del rispetto dei ruoli e delle norme si scontrava brutalmente e violentemente col desiderio di trovare in una fusione fisica l’armonia spirituale che desse un contenuto alla nostra stesa amicizia; sentivo il desiderio del contatto fisico come una dilatazione naturale dell’affetto amicale e desideravo sentire sul mio corpo la sensazione del suo, che non mi possedesse ma in qualche modo mi completasse.
Ancora ebbi la forza, quella volta, di fermarmi e di tirarmi indietro; per superare la difficoltà del momento, scesi dal letto con la scusa di bere un bicchier d’acqua; e quella interruzione fu indispensabile per consentirmi di riflettere un momento su quello che stavo vivendo; pur essendoci frequentate per anni con una grande intensità, con interessi comuni e con obiettivi da perseguire, mai ci si era trovate tanto vicine ad una scelta così importante.
Sapevo che Ivana era un carattere forte, dominante, e che aveva avuto anche occasioni di frequentare delle amiche sulla base di un amore saffico; ma non avevo mai posto in essere un’ipotesi di amore che andasse al di là della sintonia tra amiche; lei invece, per quel che ne sapevo, frequentava anche ragazze che professionalmente si offrivano a donne per rapporti saffici; lei stessa mi aveva detto più volte che certe sere frequentava locali appositi per dare sfogo alle sue voglie; io consideravo ancora queste vicende in una fascia di possibilità di sui non avevo chiari i contorni.
Decisamente, l’episodio di Carmine aveva spinto la mia scelta verso una chiarificazione determinante e gravida di conseguenze; ma dubbi, esitazioni e timori atavici ancora persistevano nel mio inconscio e qualcosa mi spingeva a tirarmi indietro, quando la possibilità di trasformare il desiderio in realtà si faceva concreta; di qui, le mie esitazioni e, in qualche modo, anche il tormento per una ‘vita sospesa’ tra due mondi contrapposti.
Fu la stessa Ivana a suggerirmi, per avere più chiara la situazione, di provare a frequentare ambienti di soli uomini, per controllare le mie reazioni in un ambiente che fosse il più ‘normale’ possibile, per sentire se certi timori indefiniti che mi si erano manifestati potevano ancora bloccarmi o se potevo invece superare l’episodio - Carmine con una persona diversa, migliore, più disponibile; se non avessi affrontato quella prova, non avrei mai avuto la certezza di voler scegliere l’omosessualità come il mio modo di essere; se un incontro ed un rapporto eterosessuale avessero retto e mi avessero resa più serena, era possibile superare l’episodio dello stupro senza soluzioni estreme.
Per alcune settimane, il sabato sera, uscimmo tutte e quattro e frequentammo ambienti giovani, gruppi di amici cosmopoliti e di varia estrazione; quasi sempre, Ivana cercava di ’legare’ con qualche ragazza che riconosceva disponibile all’amore saffico; per questo, aveva una sorta di ‘antenna’ che le consentiva di individuarle e di cercare i percorsi più semplici e prudenti per coinvolgerle senza farle esporre più di tanto.
Anche Lauren manifestava una certa tendenza a preferire compagnie femminili, evitando quasi con cura il contatto coi maschi e legandosi molto a Rosy che appariva più ‘cedevole’ e disposta a farsi dominare o, quanto meno, a farsi coinvolgere in una passione che per molti aspetti anche lei considerava difficile da ammettere; l’unica a cercare veramente il contatto coi maschi ero io, che avevo bisogno di verificare la mia disponibilità a dialogare con l’altro sesso; purtroppo, alcune prove risultarono fallimentari perché, come mi ricordava sempre mio padre quand’ero bambina, ‘i maschi vogliono solo divertirsi con le ragazze’ ed io mi stancavo assai rapidamente dei viscidi ‘lumaconi’ che mi giravano intorno pavoneggiandosi ed esponendo soprattutto i pacchi ben evidenti.
L’inevitabile conclusione fu che mi ritrovavo ogni volta più convinta in braccio ad Ivana, spesso a casa sua, nel suo letto, dove passavo il resto della notte di sabato che avanzava, dopo il giro dei pub e delle discoteche; per molto tempo riuscii ad oppormi al desiderio sempre più vivo, e stavolta con precisa coscienza, di abbandonarmi al suo abbraccio e soprattutto al bacio caldissimo che da lei mi aspettavo; molte volte mi vidi proiettata in una sorta di amore panico in cui l’immersione totale nei sensi aveva il valore di una partecipazione totale e diretta col mondo e con la realtà; ma era chiaro, innanzitutto a me stessa, che il gioco non sarebbe durato all’infinito e che, prima o poi, dovevo decidere da quale parte della barricata collocarmi.
Ivana ruppe gli indugi una sera che eravamo tornate a casa sua, dal solito giro di locali, particolarmente bevute e meno disposte all’autocontrollo; in parte perché l’alcool aveva sciolto i freni inibitori, ma soprattutto, in massima parte, perché la voglia era in tutte e due ormai irresistibile, in un momento di massima effusione, mi prese la nuca con mano decisa e schiacciò la sua bocca sulla mia; vidi le stelle nel cielo, mi sentii le farfalle volare nello stomaco e dalla mia vulva cominciò a colare umore di orgasmo incontrollato; mi aprii a lei completamente e lasciai che mi inondasse il piacere di sentire la sua bocca calda e carezzevole percorrermi la cavità orale e trarre dal mio corpo tute le fibrillazioni che il sesso offriva.
Ivana cominciò a spogliarmi freneticamente; a quel punto, ricambiai con altrettanto entusiasmo e presto mi trovai ad affondare la bocca sul suo seno prosperoso e verginale, coi capezzoli grossi come nocciole che mi sembravano invitare a succhiarli; lo feci, prima con delicatezza ed amore, poi sempre più con passione ed intensità, finché divenni quasi violenta e cercai di strappare da quel petto una linfa vitale che mi caricasse di voglia e d’amore.
Ne ottenni anche più di quanto avrei desiderato; ben presto, la voglia mi spinse a cercare il contatto di lei sulla vulva, cominciai a strofinarmi su di lei facendo in modo che il pube fosse continuamente a contatto col suo e il clitoride, catturato tra gli ossi pubici contrapposti, si eccitasse fino a farmi esplodere in un orgasmo che non avevo mai provato; fu quello un momento inarrivabile di grande amore, nel quale non contava né la struttura fisica né il sesso di ciascuna, ma contava solo il piacere raggiunto al massimo livello, con la persona che sentivo di amare al di sopra di tutto, in un rapporto che era forse quel che avevo sognato, con dolcezza, senza violenza, senza aggressione ma offrendoci l’una all’altra con amore soprattutto.
L’alba ci trovò languidamente sdraiate sul letto, lei su un fianco ed io davanti a lei accucciata a cucchiaio con le natiche spinte contro il suo ventre e i pube di lei piantato contro il mio coccige; mi svegliò Ivana, con un bacio delicatissimo, e mi chiese se ero pentita di quel che era successo; la rassicurai che stavo benissimo e che mi sentivo, in qualche modo, ‘ritrovata’, dopo che finalmente avevo avuto quell’ora d’amore che era da sempre nei miei sogni; Ivana, prudentemente, mi invitò a riflettere ancora prima di decidere, perché, mi suggerì, affrontare una realtà come quella dell’omosessualità in pubblico era ben altra cosa che viverla con entusiasmo e con amore nel privato di un’alcova; feci spallucce; per me, l’importante era stare bene; con lei stavo meravigliosamente; il resto non contava più.
Cominciava così la mia storia con Ivana, una storia non semplice né lineare ma che nel tempo ci ha reso sempre più unite e disposte ad affrontare il mondo; cominciammo anche a frequentare gli stessi locali di sempre, ma stavolta con la spavalderia di chi ha una compagna a fianco di cui è orgogliosa; questo nostro atteggiamento, quasi di sfida, non mancò di sollevare malumori e commenti sempre più aspri, comunque sempre sottaciuti o manifestati a bassa voce, specialmente da alcuni gruppi di giovani, dei quali era evidente l’origina dall’Italia meridionale, insomma della stessa genia di Carmine, che naturalmente riprovavano aspramente quello che consideravano un ‘comportamento immorale’.
Quel sabato sera, Ivana non si poté trattenere con me fino alla fine; aveva un impegno gravoso la mattina successiva e mi salutò raccomandandomi di andare presto direttamente a casa evitando le rogne tanto probabili nel quartiere dei locali, notoriamente mal frequentato; ma le rogne erano già presenti e non mi accorsi che, appena Ivana fu uscita, ero stata presa di mira da un gruppo di giovinastri che cominciò a commentare a voce bassa i miei comportamenti e a mano a mano si caricò di energia negativa; quando uscii dal locale e avanzai nella strada poco illuminata, ci misero poco a prendermi alle spalle ed immobilizzarmi senza darmi nemmeno il tempo di accennare una qualche reazione.
In men che non si dica, mi trovai terrorizzata legata e imbavagliata, trasportata a viva forza in un’auto e sbattuta sul sedile posteriore insieme ad una massa di maschi eccitati e incavolati oltre ogni dire, che mi riempivano di improperi sulla mia immoralità, sulla perversione, sull’omosessualità, sfogando insomma tutto il repertorio delle frustrazioni maschiliste contro le donne, contro le femmine e soprattutto contro le lesbiche; piangendo tutte le lacrime che avevo, mi trovai sbattuta in un vecchio magazzino vuoto e forse abbandonato alla mercé di un gruppo di uomini sovreccitati, mezzi ubriachi e assatanati di sesso.
Quello che subii nelle ore che trascorsi in quel locale fuori dal mondo è indicibile; quando la polizia mi ritrovò e mi portò in ospedale, il mio ano era lacerato a sangue e richiese un intervento plastico per la ricostruzione, la vagina era lacerata in più punti e le mascelle erano slogate per lo sforzo fatto a prendere in bocca due, tre membri per volta e farli godere; da una ricostruzione successiva, scoprii che mi avevano violentato in cinque e che mi avevano sottoposto alle forme più perverse di tortura sessuale.
Tornai a casa che mi vergognavo della mia ombra, sotto lo sguardo feroce di mio padre, che non mi perdonava di essermi fatta ‘mettere sotto’ da alcuni imbecilli, e quello pietoso di mia madre che versava, se possibile, più lacrime di me, per il dolore e per la vergogna, essendo ormai chiaro a tutti che ero una lesbica e che per questo ero stata ‘punita’ da maschietti italiani difensori della superiorità maschile; quando finalmente potei muovermi ed uscire, andai da Ivana che non mi rimbrottò, come temevo, per essermi comportata da incosciente, non chiamando un taxi e uscendo da sola; mi comunicò invece che avevano individuato gli autori dello scempio, che avevano regolarmente pagato il conto; erano ancora tutti e cinque in ospedale con danni forse irreversibili.
La notizia non mi fece piacere, come lei si aspettava; anzi, caricò il mio senso di colpa, perché la mia imbecillità era costata a me, alle mie amiche, alla mia famiglia ed anche a cinque poveri stupidi incapaci di capire anche il solo significato della parola ‘amore’.
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