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Lui & Lei

Veleni sterili


di geniodirazza
03.03.2024    |    3.470    |    1 8.8
"Per la condizione di tenere separati i beni, lei aveva avuto il titolo di proprietà di tutto e il potere di decidere; a me, invece, era stato dato..."
C’eravamo sposati abbastanza giovani, io e Lidia, lei venticinque anni ed io poco meno di trenta; avevamo festeggiato con gioia i primi sette anni di matrimonio; la nostra vita scorreva su binari sicuri; lei aveva ereditato dal padre un’azienda ben avviata, nella quale a me non era stato assegnato nessun incarico ufficiale; ma Lidia era troppo pigra e, forse, troppo presa da se stessa, per dedicarsi al lavoro vero di direzione; quindi lasciava a me il compito di gestire tutto.
Per la condizione di tenere separati i beni, lei aveva avuto il titolo di proprietà di tutto e il potere di decidere; a me, invece, era stato dato l’incarico di amministrare i beni e di farli cresce e sviluppare; in realtà, lei si limitava a firmare carte e presentarsi in abiti elegantissimi in tutte le occasioni in cui l’Azienda doveva essere rappresentata e presente.
Del resto, emulava sua madre che, però, non aveva voce in azienda e si limitava a vivere nel lusso ammirando suo marito che sgobbava; in compenso, era assai evidente il suo amore per lui, che a sua volta riteneva un grande motivo d’orgoglio esibire la sua bellissima donna in tutte le occasioni; nel nostro caso, invece, non erano poche le gaffe in cui Lidia incorreva, nelle occasioni ufficiali, e che toccava poi a me riparare, molto spesso facendo i salti mortali.
Per quest’unica ragione, per la mia presunta prevaricazione nella sua vita senza darmi l’agio di accorgermene, forse non rendendosene conto neanche lei, mia moglie decise di percorrere un’altra strada che la allontanava da me e che, addirittura, mi rendeva un fastidio per le sue voglie; lei non confessò mai niente di quello che avvenne; ma un’analisi logica e cronologica degli eventi mi portava a credere che l’avvio del cambiamento coincise con la sua iscrizione a una palestra.
Non aveva nessun bisogno di tonificare il fisico che era meraviglioso e sempre in forma; se avesse voluto, si sarebbe potuta permettere un personal trainer in casa; ma scelse di frequentare una palestra in città tre volte la settimana; si era infatuata di un istruttore e ci andava solo per praticare la ginnastica più antica del mondo, quella della camera da letto, con l’aitante compagno, su un lettino che era lì a disposizione di un custode.
Come tutti i cornuti, non venni a sapere della vicenda che molto tempo dopo, quando le cose precipitarono avvitandosi fino a schiantarsi contro di me e a schiacciarmi; non ho mai saputo e non saprò mai quanti amanti prosciugasse nei due anni in cui Lidia mi cornificò con mezza città; frequentava pub e circoli, sale private e locali pubblici, dovunque esibendosi come una star e dovunque lasciando il segno del suo passaggio nei pantaloni di qualcuno.
Presi coscienza del suo comportamento il giorno che, di colpo, me la trovai davanti, nella camera da letto, nuda, con un maschio ben strutturato e ben fornito, col quale stava scopando; rimasi senza parole e, non appena accennai ad una protesta, mi liquidò come un piccolo arrivista che con la laurea in ingegneria aveva sfruttato da parassita la ricchezza che i suoi avevano costituito per lei.
Mi accordai con l’amministratore dell’azienda e gli imposi di crearmi un conto - salvezza, personale, in Svizzera, visto che lei già era titolare di un conto off shore che le avevo fatto costituire nei Caraibi; naturalmente, da quel momento, il conto caraibico si fermò quasi del tutto ed il mio lievitò rapidissimamente; intanto, le pretese della mia consorte crescevano di giorno in giorno.
La prima richiesta fu che assistessi alle sue cupole seduto su una sedia dove mi era proibito anche masturbarmi; allo scopo, acquistò anche una gabbietta particolare che mi frenava il pene e m’impediva di avere erezioni; avere perso quasi dieci anni con lei, facendo l’eminenza grigia, mi poneva nella condizione che tutto fosse intestato a lei mentre io, che ufficialmente non figuravo, venni estromesso da ogni attività; l’unica possibilità era aspettare che il mio castelletto in banca crescesse tanto da poter prendere il largo.
Costretto ad accettare, mi adattai al ruolo di cuckold, asservendomi alle sue voglie; si portava in casa gli amanti, mi obbligava a indossare la gabbietta, mi faceva sedere sulla poltrona e dava il via al suo personale spettacolo; normalmente, si trattava di giovani prestanti che incontrava nei locali che frequentava, che affascinava con la sua indubitabile bellezza e che persuadeva a venire a copulare a casa sua, davanti al ‘cornuto’ che avrebbe assistito impotente, anzi avrebbe goduto delle sue performance.
Una volta si presentò con un nero, un autentico mandingo, di circa una trentina d’anni, il cui sesso mi impressionò molto; lungo circa venticinque centimetri, largo come una lattina da bibite, si ergeva come un minareto dal ventre asciutto e nervoso; tutta la complessione era da uomo di grande muscolatura che si teneva in forma perfetta ed era in grado di sollevare come un fuscello anche me che pesavo settantacinque chili.
Lo baciò con una passione che non le avevo mai visto e portò immediatamente le mani sul sesso che diventò un pilastro di cemento; accostò la bocca ed io, che pure l’avevo vista succhiare membri assai grossi, temetti che non potesse prenderlo tutto; invece la vidi masturbarlo a due mani e leccarlo delicatamente dalla cappella; lui gemeva, fremeva e spingeva per infilarlo; lei alla fine lo accontentò, spalancò le fauci ed io vidi il mostro immergersi tra le labbra con la massima disinvoltura.
Speravo che si fermasse lì, ma i due erano decisi ad andare assai oltre; lui spingeva il ventre in avanti per obbligarla ad ingoiare; lei faceva sforzi sovrumani per accogliere la bestia e ad un certo punto vidi che la mazza era entrata per almeno un terzo, mentre lei godeva e salivava per facilitare l’ingresso; quando sembrò giunta al limite e lui fu soddisfatto della fellazione, sfilò la bestia dalla bocca, la fece sdraiare sul bordo del letto e fu lui a leccarle la vulva con una lingua larga e rugosa.
Contai almeno cinque orgasmi mentre le succhiava il clitoride e le infilava in vagina tre dita lunghe e affusolate; la fece spostare carponi sul bordo del letto e, in piedi a lato, le infilò in un sol colpo la mazza fino in fondo alla vagina; la lubrificazione degli orgasmi e quella delle leccate precedenti fecero sì che entrasse liberamente e scivolasse poi avanti e indietro fino a sbattere contro il collo dell’utero; mai mia moglie era stata sbattuta in quel modo; ma urlava di goduria.
Quando vidi il nero sfilare il sesso dalla vagina e dirigere la cappella all’ano, rimasi terrorizzato e se ne accorse anche mia moglie che scoppiò in una grassa risata ed esclamò, rivolta al mandingo,
“Guarda, il cornuto ha paura che tu mi possa rovinare il culetto a cui credeva di avere diritto insieme ai miei soldi!”
Non valeva nemmeno la pena di commentare e decisi di abituare lo sguardo allo spettacolo immondo che mi stava offrendo, mentre dentro di me soffocavo il desiderio di vendetta che ero deciso a mettere in atto a costo di lasciarci la pelle; la troia si fece penetrare anche analmente, soffrendo molto ma eccitandosi all’idea dell’umiliazione che mi infliggeva; il nero la montò per un lungo tempo; quando lei lo autorizzò, le scaricò nell’intestino un fiume di sperma.
Lo scempio che fece di me quella volta mia moglie durò un paio d’ore, necessarie a lei per farsi sbudellare e scaricare in corpo tre eiaculazioni assai potenti; poi anche il mandingo si stancò, si rivestì ed andò via; finalmente, mi tolse la gabbietta e potei andare in cucina a prepararmi un caffè; mentre lo sorseggiavo, lei uscì dal bagno decisamente provata ma felice e sorridente; mi venne vicino e mi disse.
“La vuoi sentire la cosa più assurda e paradossale? Io ti amo; ti odio ferocemente, ma ti amo anche, come quando mi lasciai sverginare da te, prima nell’ano e poi in vagina; sei stato tu che mi hai svezzato, che mi hai insegnato tutto quello che chiedevo e che potevi insegnarmi; io non ho potuto insegnarti ad essere povero e a comportarti da povero; sei riuscito ad arricchirmi, sperando di arricchirti; hai cercato di dominarmi con la cultura e con l’intelligenza.
Allora ho deciso che dovevo insegnarti io ad essere succubo e povero. Ora sei solo un parassita che vive dei miei soldi e un cornuto contento che mi lascia fare tutto quello che voglio. Sono soddisfazioni.”
Mi fece uno sberleffo e si ritirò nella camera dove da un anno non avevo più diritto di accesso.
La scena finale ebbe luogo una mattina di giugno, quando Lidia uscì di casa dicendomi che andava in barca con amici e non sapeva quando sarebbe tornata; sulle prime, non diedi importanza alla cosa, perché da sempre, quando decideva di uscire in barca, non le si poteva chiedere niente; della durata, neanche parlarne; la destinazione era ignota anche a lei; in qualche modo, mi consolai perché durante la sua assenza non rischiavo altre scene come quella del mandingo.
Prima di partire, si premurò di ribadire la mia esclusione da ogni competenza nell’azienda e affidò tutto ai dirigenti a cui si rivolgeva come una castellana ai paggi; col tempo, la sua assenza si fece sempre più imbarazzante, non avendo lasciato nessuna indicazione su come potessero raggiungerla; pensai di scegliermi una compagna, perché gli incontri occasionali mi avevano stancato; da tempo mi incontravo con un’amante fissa; denunciai l’abbandono e la scomparsa di mia moglie.
La Polizia decise di dichiarare la scomparsa ufficiale che, senza il corpo, non poteva avere nessun valore; tecnicamente, avrei dovuto far dichiarare la morte presunta per prenderne, come erede, il posto di comando nell’azienda; ma l’esperienza suggeriva che le eredità attirano sempre sciacalli; avviai allora una mia attività, coi fondi costituiti in Svizzera; lavorai sodo, anche perché non dovevo pensare ai fastidi che Lidia provocava.
Per mettermi al riparo da qualunque altra ipotesi di noie, avviai le pratiche di separazione per l’abbandono di lei; nel giro di sei mesi, riuscii ad ottenere almeno di liberarmi da quel legame, in attesa dei termini per chiedere il divorzio; l’assenza della ‘controparte’ ritardò notevolmente i procedimenti, ma alla fine ottenni il documento che certificava la mia libertà, almeno provvisoria.
Ad un anno esatto dalla sparizione, Lidia ricomparve in città; seppi da amici che si era già scontrata con la realtà del fallimento a cui la sua azienda era prossima; sbraitò un poco sulla mia potenza costruita sulla sua distrazione; capì che mi aveva escluso lei da ogni responsabilità e decise di addivenire a più miti consigli; l’avvocato di famiglia di lei mi pregò caldamente di avere un confronto per spiegarci, se era ancora possibile parlare civilmente tra noi; accettai, anche se nutrivo molte riserve.
Infatti esordì molto aggressivamente, attribuendo la rottura del matrimonio alla mia impotenza, alla mancanza di capacità sessuale, in pratica ad una mia certa vena gay e ad una natura da cuckold; a ferirla fu innanzitutto lo scherno evidente con cui le sue accuse furono accolte dai presenti, amici che sapevano delle molte chiacchiere diffuse dai suoi amanti sui velenosi oltraggi a cui mi aveva sottoposto e delle donne con cui avevo copulato, felicissime dell’esperienza.
Resasi conto che millantava diritti campati in aria, passò ad un ‘attacco frontale’ e mosse l‘accusa che avessi costruito sul lavoro della sua azienda le basi della mia che quindi avrebbe dovuto appartenerle per larga parte, nonostante il regime di divisione dei beni nel matrimonio; le riserve furono avanzate non solo dal capo dell’ufficio legale della sua azienda, che l’accompagnava su sua richiesta; ma anche da altri, dal suo difensore ai miei legali e perfino da qualche dirigente presente, che sapevano dei divieti posti.
Ormai però Lidia era lanciata e, come era nel suo stile arrogante e prepotente, annunciò che si sarebbe rivolta al tribunale per rivendicare i suoi diritti economici calpestati e la revoca della sentenza di separazione, causata a suo dire dalla mia debolezza piuttosto che dal suo allontanamento, reso necessario da interessi lavorativi; la perplessità dei presenti fu chiara ed esplicita; ma nessuno osò contrapporsi ad una scelta di orgoglio, conoscendo le ire della ‘padrona’.
Tardò alquanto la convocazione di un giudice per un primo incontro conciliativo; ma sin dalle prime battute fu evidente che le intenzioni di Lidia erano assai poco pacifiche; non si doveva parlare dei problemi economici ma solo della separazione e tutto puntava sulla mia impotenza; il mio avvocato si limitò a consegnare un test del DNA da cui risultavo padre naturale di un bimbo di meno di un anno; fatta entrare la madre, Lidia scoprì d’un tratto che avevo un’altra famiglia, decisamente più vera.
Le proteste esagerate di mia moglie obbligarono il giudice ad interrompere la seduta e a rinviarla ad un momento di maggiore calma; ma nel corridoio un’altra sorpresa colpì severamente Lidia, perché i suoi genitori si erano precipitati al tribunale, avvertiti da alcuni dirigenti fedeli, nella speranza di frenare il crollo che la figlia improvvida aveva avviato con una gestione delle attività spericolata e incurante della logica più elementare.
Il padre era feroce soprattutto con me perché, nella sua visione, avrei dovuto essere io a guidare l’azienda; la presenza del legale della ditta e di alcuni dirigenti provvide a chiarire e a caricare ogni colpa su mia moglie; sua madre, naturalmente, era inferocita dalla scelta libertina di sua figlia e si bloccò letteralmente inorridita di fronte a mio figlio; il padre, davanti a tante rivelazioni, ebbe un leggero malore.
All’ospedale, prima, e nell’ufficio della direzione dell’azienda in crisi poi, si fece chiarezza su tutto; i reati di Lidia, che lei si ostinava ad etichettare come errori e venivano sempre più apertamente stigmatizzati come colpe di lassismo, incapacità di gestione dell’azienda e pericolosa arroganza, emersero in tutta evidenza; il padre decise di riprendere il suo ruolo e di affidarmi di nuovo il compito di suo primo assistente; il matrimonio era ormai sciolto.
I genitori di lei si sistemarono nel nostro appartamento e la relegarono nella stanza che avevamo riservato agli ospiti; io continuai a vivere con la mia compagna e nostro figlio; Lidia si trovò ad un tratto sotto il controllo ferreo di suo padre che sottolineava ogni centesimo speso, ogni passo fatto e ‘radiografava’ ogni persona incontrata; stanca di restare a grattarsi la pancia senza possibilità di alcun movimento, a pena di essere cacciata di casa senza arte né parte, chiese di essere almeno impegnata in qualche modo.
Spettava a me, a quel punto, decidere della sua utile collocazione; stabilii che il modo migliore per evitare possibili commenti sulla figlia del padrone ridotta a semplice operaia fosse incaricarla della mia personale segreteria; suo malgrado, si sarebbe trovata sotto il personale controllo di quello che aveva visto come personale nemico, per tutto il tempo di lavoro, dalla mattina al pomeriggio e, con gli eventi straordinari, fino a sera; le ore di non lavoro rendeva conto a madre e padre non più molto condiscendenti.
Scivolarono via quasi con noia i mesi e alcuni anni; divorziammo ed io sposai la mia compagna, ripresi alla luce del giorno le posizioni ufficiali che mi competevano e che avevo nascosto per evitare noie sull’attribuzione di un assegno alla mia ex; le due aziende, la mia e la sua, nonostante tutto, ripresero a funzionare a pieno regime e Lidia riuscì a dirozzarsi e ad imparare abbastanza da consentire a suo padre di sganciarsi progressivamente e lasciare a lei le redini, sotto la mia consulenza.
Incontrò anche un nuovo amore, a cui si dedicò, almeno così pareva, con maggiore determinazione e passione di quanto aveva fatto con me; ma, forse per non smentirsi, una sera insistette per venire a cena con me; capii subito che la scusa era stata inventata solo per chiedermi di fare l’amore, quasi ad imprimere ancora una volta il sigillo della sua supremazia su tutto quello che le competeva; mi fu facile alzarmi da tavola e avvertirla.
“Domani si comincia presto; per favore vai a dormire, riposa e presentati al meglio; una volta tanto, cerca di controllare le tue pulsioni, se non vuoi finire davvero male; tuo padre impiega poco, se dovessi ancora sgarrare, a pagare un killer perché ti tolga dai coglioni; hai già fatto troppi danni; se ce la fai, ricomincia; se no, vattene dovunque ma lontano da noi!”
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