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Il riscatto 1 - Decidere di non pagare

12.03.2025 |
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"Mi avvicinai allo specchio, appoggiando la fronte fredda sul vetro, e sospirai..."
[avviso: questo racconto è il primo capitolo del seguito de “L’amico del Nonno” - il testo è forte e fa riferimento alla sottomissione psicologica]Ero una settimana in ritardo con i soldi che dovevo mandare al nonno.
Ogni sera, quando chiudevo dietro le spalle la porta marcia della stanzetta in cui vivevo, mi buttavo sul letto sfatto, con le gambe molli dopo ore di uomini dentro di me, e contavo quei pochi soldi sporchi.
Mi tremavano le mani, ma in fondo sapevo che dovevo farlo: “Se voglio uscire da questa vita, devo cominciare a pensare a me stesso. A diventare uno di quelli veri, di quelli che pagano migliaia, non venti euro.”
Lo sapevo. Eppure ogni volta che infilavo le banconote sotto il materasso, la paura di mio nonno si faceva largo nella pancia, come una stretta che non mollava mai.
Quella sera pioveva forte, e mentre camminavo verso il mio solito angolo vicino a Termini, il rumore della pioggia mescolato ai clacson delle macchine mi frastornava.
La felpa fradicia mi si appiccicava alla schiena, e i jeans pesavano sulle gambe nude sotto, attaccandosi alle cosce magre.
Ma il mio cazzo era già duro, come sempre quando mi mettevo lì in attesa.
Mi odiavo per questo. Odiavo il fatto che bastava il pensiero di un uomo che mi guardava per farmi sentire eccitato.
Poi una Panda grigia, vecchia, con le portiere arrugginite, si fermò davanti a me.
Non serviva nemmeno guardare dentro. Sapevo già che sarebbe stato uno di quelli.
La portiera si aprì piano, e l’odore di fumo, sudore e alcol mi colpì come uno schiaffo.
“Salta su”
La voce dell’uomo era roca, secca, senza emozione.
Mi sedetti senza dire nulla, abbassando gli occhi.
Mentre lui guidava senza nemmeno guardarmi, sentivo il cuore che batteva fortissimo.
“Spogliati.”
La parola mi arrivò dritta addosso.
Esitai un secondo, ma poi cominciai a slacciarmi la felpa, piano, con le mani che tremavano.
Mi tolsi anche la maglietta, restando a petto nudo, e sentivo la pelle bagnata che si incollava ai sedili luridi.
“Anche il resto.”
Mi fermai un attimo.
Poi sbottonai lentamente i jeans, sentendo il suo sguardo che finalmente si posava su di me, pesante, affamato.
Sfilai i pantaloni e rimasi solo con le mutande, che lasciavano vedere il mio cazzo già semi-duro sotto il tessuto bagnato.
Lui si passò una mano sul pacco, aggiustandosi, mentre continuava a guidare.
“Giù anche quelle.”
Mi sfilai le mutande, e rimasi nudo, le mani che cercavano di coprire il cazzo ma senza riuscirci davvero.
“Segati.”
Mi bloccai.
“Ti ho detto: segati.”
Abbassai la testa, e con la voce che tremava: “Non riesco…”
“Se non lo fai tu, te lo faccio io,” sibilò, avvicinandosi con la mano verso di me.
Allora abbassai gli occhi e cominciai a toccarmi piano, sentendo le sue dita callose sfiorarmi la coscia, come a controllare che obbedissi.
Il mio cazzo rispondeva, duro e palpitante, anche se dentro avrei voluto solo sparire.
Ma il corpo non mentiva.
“Guarda come ti piace fare la puttana, eh?”
Le sue parole mi tagliavano dentro, ma non potevo smettere.
“Più forte, dai, fammi vedere quanto vali.”
Mentre guidava, con una mano sul volante e l’altra a sistemarsi il pacco sotto quella camicia tesa sulla pancia, continuava a lanciarmi occhiate affamate.
Io, nudo sul sedile del passeggero, tremavo, ma il mio cazzo era duro, pulsante, e lui lo vedeva.
“Continua a segarti, dai. Fammi vedere quella bella asta.”
Obbedii, anche se mi vergognavo da morire.
Sentivo il mio cazzo caldo tra le dita, la testa arrossata che gocciolava già.
Lui sorrideva mentre guidava, passando ogni tanto una mano ruvida sul mio petto bagnato, sfiorando i capezzoli duri per il freddo e l’eccitazione.
“Bravo, così. Sai cosa voglio, vero?”
Non risposi. Ma dentro, sentivo il cuore esplodere.
Poi, dopo qualche minuto a farmi segare davanti a lui mentre guidava, girò in una stradina buia, laterale, dove non passava nessuno.
Parcheggiò la macchina, spense il motore. Nel silenzio rotto solo dalla pioggia, sentivo il mio respiro affannato.
Si slacciò i pantaloni con calma, tirò fuori quel cazzo grosso, spesso, con le vene che lo attraversavano teso, e mi guardò serio.
“Vieni dietro. Subito.”
Mi spostai tremante sui sedili posteriori, e lui venne subito dietro di me, chiudendo la portiera con forza.
Ora eravamo soli, chiusi dentro quella Panda maleodorante, con i vetri appannati.
Mi guardò per qualche secondo, come se stesse decidendo da dove cominciare a sbranarmi.
Poi si slacciò completamente i pantaloni e si abbassò anche le mutande.
“Voglio sentire quella bocca. Fai vedere quanto sai essere bravo, troietta.”
Mi prese per i capelli, guidando la mia testa verso il suo cazzo, e me lo schiacciò sulle labbra.
“Apri.”
Obbedii, tremante.
La sua cappella era enorme, gonfia, già un po’ umida di liquido preseminale.
Appena la presi in bocca, sentii il suo sapore intenso, maschio, sporco, e il mio cazzo pulsò ancora di più.
“Così… brava troia, succhialo tutto,” sussurrava, spingendomi lentamente.
Mi spingeva sempre più in fondo, fino a farmelo sentire contro la gola, mentre io lottavo per non soffocare, lacrimando leggermente per lo sforzo, ma senza mai fermarmi.
Ogni tanto si tirava un po’ indietro per farmi riprendere fiato, poi mi spingeva di nuovo, e io sentivo le sue mani nei capelli, a guidare ogni movimento della mia testa.
“Ti piace, eh? Guardati, come stai bello duro mentre succhi.”
E aveva ragione. Il mio cazzo era gonfio, rosso, duro come non mai, e gocciolava senza che potessi controllarlo.
Poi mi afferrò il mento, mi alzò la testa per guardarmi negli occhi.
“Voglio quel culo adesso. Mettiti a quattro zampe.”
La sua voce era roca, decisa.
Io mi girai subito, senza protestare, sentendo le guance in fiamme, più per l’umiliazione che per il caldo della macchina.
Lui si mise dietro, e prima di prendermi, passò una mano pesante sui miei glutei, stringendo forte, massaggiandomi come se stesse scegliendo il pezzo migliore.
“Hai un bel culetto, sai? Pronto a farmi divertire?”
Mi diede uno schiaffo secco sulla natica destra, facendomi gemere.
Poi, senza preavviso, la sua cappella gonfia spinse contro il mio buco, che si aprì piano sotto la pressione.
“Lo vuoi, eh?”
Non risposi, ma il mio corpo sì. Il mio cazzo si era sollevato subito, duro e teso mentre lui iniziava a spingere piano dentro di me.
Appena entrò del tutto, un gemito mi sfuggì dalle labbra, e lui sospirò forte: “Così sì… stretto e caldo, proprio come piace a me.”
Iniziò a muoversi piano, ma poi sempre più forte, prendendomi i fianchi con entrambe le mani.
Ogni colpo mi spingeva in avanti sui sedili, sentivo le palle grosse sbattermi contro le cosce.
Io ansimavo, e il mio cazzo toccava il sedile, bagnandolo.
“Guarda come goccioli mentre ti scopo, porco.”
E aveva ragione.
Ogni spinta mi faceva colare liquido chiaro dal cazzo, e più mi prendeva, più io tremavo.
“Sei nato per questo, vero? Per farti usare dai porci come me.”
Il mio corpo tremava, e poi, senza toccarmi, senza nemmeno accarezzarmi, venni.
Un orgasmo improvviso, forte, che mi prese in mezzo ai colpi che continuavano, e mentre gemevo, lui continuava a sbattermi dentro, più forte.
“Ti piace, eh? Farti riempire mentre godi come una cagna?”
Quando lui venne, si affondò tutto dentro, stringendomi forte, e lo sentii tremare, mentre mi riempiva caldo e denso.
Rimase fermo qualche secondo, con il cazzo duro ancora dentro di me, e io, ansimante, sentivo il mio buco pulsare intorno a lui.
Poi si tirò fuori piano, facendomi gemere ancora, e io restai a quattro zampe sul sedile, con il buco aperto e il suo seme che colava fuori lentamente.
“Sei bravo, sai?” disse, mentre si rimetteva a posto i pantaloni. “Dovresti farti pagare di più… anche se resti sempre una troia da qualche euro.”
Mi lasciò lì, nudo, tremante, e aprì la portiera.
“Scendi.”
“Così? Fuori?”
“Ti ho detto: scendi.”
Obbedii, nudo sotto la pioggia, con il cazzo ancora mezzo duro e il buco che colava.
Lui salì in macchina e partì, lasciandomi lì, da solo, a tremare sotto l’acqua.
Rimasi sotto la pioggia per qualche minuto, a tremare, nudo, con l’acqua che mi scorreva sulla pelle, mentre il seme di quell’uomo colava lentamente lungo le mie cosce, mescolandosi alla pioggia.
La Panda si era già allontanata, e io ero lì, solo, piccolo, fragile, con il cuore che ancora batteva forte per quello che era appena successo.
Alla fine, tirai su i jeans fradici, senza nemmeno le mutande sotto, perché erano rimaste sul sedile della macchina.
Mi rimisi la felpa, che mi si appiccicava addosso come una seconda pelle, fredda e bagnata.
Mi avviai a casa, con le gambe molli, doloranti, mentre la gente camminava intorno a me senza nemmeno notarmi.
Uno schiavo invisibile.
Quando arrivai nella mia stanza, sbattei la porta dietro di me, e mi tolsi subito quei vestiti bagnati, lasciandoli cadere sul pavimento.
Mi sedetti un attimo sul letto, nudo, con il corpo ancora segnato dalle mani di quell’uomo, e il buco dolorante, ancora umido.
Poi, come ogni sera, mi alzai piano e andai davanti allo specchio.
Mi guardai.
C’era solo un ragazzo magro, con la pelle pallida, gli occhi segnati dalle occhiaie. I capezzoli ancora tesi per l’umiliazione, il cazzo mezzo duro, mezzo molle, e il buco arrossato, gonfio, che tremava ancora.
Guardai tutto. Ogni segno. Ogni goccia che colava dalle cosce. Ogni livido sulle anche.
E mentre mi fissavo, le lacrime iniziarono a scendere piano, senza rumore.
Non capivo più se piangevo di dolore o di rabbia. O forse perché in fondo, una parte di me godeva ancora di quello che ero diventato.
Mi avvicinai allo specchio, appoggiando la fronte fredda sul vetro, e sospirai.
“Basta”, dissi a bassa voce. “Basta.”
Aprii il materasso, e tirai fuori quella mazzetta di soldi sudati.
Li contai, uno a uno, con le dita che tremavano.
“Non sono tanti, ma bastano per iniziare”, pensai.
Per la prima volta sentii una piccola scintilla di speranza, anche se la paura del nonno non mi lasciava.
“Non glieli darò. Questo mese no.”
Li chiusi di nuovo sotto il materasso, coprendoli bene, come se potesse proteggerli.
Mi guardai di nuovo allo specchio.
“E se poi verrà a cercarmi?”
Il pensiero mi ghiacciava, ma non bastava a farmi cambiare idea.
“Sono miei. Sono per me.”
Mi toccai piano il petto, poi scivolai con la mano verso il cazzo, ancora umido.
Lo sfiorai un attimo, e sentii che era duro di nuovo, come se il mio corpo non volesse darmi tregua, anche davanti alla paura.
“Devo diventare qualcosa di più. Non voglio più farmi fottere da chiunque. Voglio farmi pagare bene, voglio vestiti nuovi, voglio uomini che mi desiderano e mi trattano come un oggetto di lusso.”
Pensai.
“E per questo, devo tenermi quei soldi.”
Mi sdraiai sul letto, nudo, stanco, ma per la prima volta deciso.
“Non glieli darò”, pensai, fissando il soffitto. “E se verrà… troverò il modo di affrontarlo.”
Ma dentro, sapevo che avrebbe scoperto tutto.
Eppure, quella sera, per la prima volta, mi addormentai pensando a me. Non a lui.
[continua]
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