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Il Riscatto 5 - Il Club Privè


di Porco86_Milano
01.04.2025    |    104    |    3 9.4
"Quando arrivò a prendermi, non disse nulla..."
La prima settimana fu come entrare in un nuovo corpo.

Stesso nome, stesso volto, ma sensazioni diverse.

Ogni gesto aveva un protocollo.
Ogni ora, una funzione.
Ogni orgasmo, un permesso.

Ettore mi lasciava libertà durante il giorno, ma non era davvero libertà.
Era il tempo in cui prepararmi per lui.
Palestra.
Studio.
Depilazione.
Stretching.
Plug.

Avevo un’agenda condivisa dove lui segnava tutto:
“15:30 – depilazione pube e zona anale.
19:00 – stretching profondo. Usa plug 3.
22:00 – entra nel letto senza dire nulla.”

All’inizio mi sembrava esagerato, grottesco.
Ma dopo pochi giorni, non solo ci ero dentro: ne avevo bisogno.

Cominciai a guardarmi allo specchio in modo diverso.

Il petto stava diventando più pieno.
Le spalle più dritte.
Il culo, perfetto.
Mi ero fatto tagliare i capelli da un parrucchiere figo che mi aveva consigliato Ettore, e avevo comprato una camicia bianca su misura.

Mi stavo trasformando.
Da troia da marciapiede a proprietà di lusso.
E mi eccitava.
Tutto.

Ma quello che mi eccitava più di ogni altra cosa, era sapere che tutto questo era per lui.
Che Ettore mi stava scolpendo, dopo avermi distrutto.
Che ogni centimetro del mio corpo era ottimizzato per il suo piacere.

Certo, pensavo ancora a mio nonno.
Mi segavo ancora pensando a lui che mi prendeva nei cessi degli autogrill.
Ma adesso avevo uno scopo.
Non volevo più dargli tutto quello che guadagnavo.
Volevo mandargli i suoi 2000 euro mensili con una freddezza da commercialista, e il resto investirlo su di me.

Non ero più solo la sua puttana.
Ero il gioiello di Ettore.

E ogni sera, quando rientrava, mi faceva inginocchiare nel salotto, nudo, con solo il collare.

Lo salutavo con un bacio sulla mano.
Poi aspettavo.
A volte mi prendeva lì, senza dire nulla.
Altre volte mi portava a letto e mi faceva dormire tra le sue gambe.

E ogni mattina mi svegliavo sapendo che il mio culo aveva un prezzo.
E valeva ogni centesimo.

I primi mesi continuarono lisci.
Lui mi usava e mi condivideva con svariati uomini, mi fece prostituire diverse volte, contrattando e prendendo lui l’intero compenso.
Io, quando non ero preso a soddisfarlo, continuavo la mia opera di costruzione tra studio, palestra, estetisti, ed ero sempre più bello.

Poi un venerdì mi scrisse su WhatsApp mentre ero all’università, in pausa tra una lezione e l’altra.

“Stasera metti il collare nuovo.
Ti porto a cena. Tirati a lucido, devi essere bello in modo volgare, come una vera puttana.”

Mi preparai, mentre tornava dall’ufficio.
Quando arrivò a prendermi, non disse nulla.
Mi guardò. Mi aprì lo sportello.
Guidammo in silenzio per quasi un’ora.

Il posto dove mi portò era nascosto.
Una porta rossa sotto a un ristorante stellato a Roma Nord.

Nessuna insegna. Nessuna folla.
Solo uno sguardo d’intesa con l’uomo alla porta, e ci fecero entrare.

Mi fece spogliare nell’area riservata agli ospiti speciali.
Mi mise lui stesso la camicia leggera trasparente, lasciando i capezzoli in vista.
Mi inserì un plug, profondo, poi mi fece indossare pantaloni neri sottili, senza niente sotto.

Al collo, il collare in pelle nuova.
Un anello metallico lucido, che tremava ogni volta che deglutivo.

Mi guardò da capo a piedi.
“Sembri un’opera d’arte pronta a essere toccata.”

Entrammo.
La luce era soffusa, morbida, calda.
Uomini e donne in abiti lussuosi e corpi parzialmente nudi si muovevano con naturalezza tra poltrone, drink e gemiti.

Mi fece inginocchiare al centro della sala.
Tutti si girarono.
Sentivo gli occhi addosso, come fossero dita.

“È il gioiello di cui vi parlavo” disse Ettore “E sono pronto a condividerlo come da accordi.”

La prima ad avvicinarsi fu lei.
Una donna.
Bellissima.
Avrà avuto cinquant’anni, ma li portava come si porta un segreto: con potere.
Capelli rossi raccolti, abito aperto fino all’ombelico, lingerie costose e tacchi sottilissimi.

Mi guardò con curiosità.
Poi con desiderio.
Poi allungò una mano.
“Sali,” mi disse, indicando il divanetto di pelle.
Mi avvicinai camminando a quattro zampe.
Lei si aprì l’abito, si sdraiò con le gambe divaricate, tolse il perizoma.

Fu in quel momento che vidi per la prima volta in vita mia una figa vera.

Mi si bloccò il respiro.
Mi sembrò aliena, calda, misteriosa.
E bellissima.
Non era come me.
Non era un buco da prendere.
Era una fessura che chiamava.
Che aspettava.
Che sapeva.

Mi abbassai.
La annusai.
Era profumo, sudore, potere.
La leccai piano, tremando.
All’inizio non sapevo come fare.
Poi lasciai che la lingua imparasse da sola.

Lei gemeva.
Mi afferrava i capelli.
Mi premeva contro di lei.

“Bevi.”
E io bevvi.
Sentii i suoi umori sulla lingua, sulle labbra.
Caldi. Salati. Sani.
E ne volli ancora.

Alle mie spalle, un uomo mi sfilò i pantaloni.
Poi il plug.
Poi mi aprì.
Mi prese con calma.
Forte. Silenzioso.

La figa sulla bocca. Il cazzo nel culo.
E io, in mezzo, come una reliquia adorata.

Venne un altro.
Me lo ficcò in gola.
E io li presi tutti e tre.
Prima la figa. Poi il cazzo. Mentre venivo sbattuto.
Con ritmo. Con fame. Con grazia.

Mi sentii completo.
Vivo.
In un posto dove nessuno mi chiedeva chi ero.
Mi usavano e basta.

Quando la donna venne, gridando piano, quasi in un sussurro, mi tirò i capelli con un gesto animalesco.
E io venni con lei, senza toccarmi, mentre un uomo alle mie spalle mi riempiva il culo di seme caldo e quello davanti mi veniva in faccia.

Ero ancora a terra, sfatto, esausto, sfinito, le ginocchia graffiate, la gola irritata, il culo ancora aperto, quando vidi un viso familiare nel capannello di persone che si era creato intorno a me.

Era lì.
In piedi.
Al bordo della sala.
Fermo come una statua.
Lo sguardo di ghiaccio.

Era mio padre.

Il cuore si fermò.
Per un secondo.
Poi riprese. Più forte. Più pesante.

Lo riconobbi subito.
Ma era diverso.
Più magro. Più vecchio.
Più… teso.

Aveva lo stesso sguardo di quando mi aveva sbattuto fuori di casa.
Perché mi aveva trovato con la bocca piena del cazzo di un mio amico.

Mi aveva detto:
“Vai a Milano. Non voglio un frocio in casa. Mi fai schifo.”

E adesso era lì.
A guardarmi mentre avevo ancora gli umori di una figa di una donna sulla faccia e lo sperma di altri due addosso.
Nudo.
Collare al collo.
Il culo che colava sborra.

Eppure, sotto ai pantaloni…
Quel rigonfiamento.
Impossibile da ignorare.

Mio padre aveva il cazzo duro.
Per me.

Si avvicinò.
Mi guardò da vicino.
Non disse nulla.

Poi mi afferrò per i capelli, mi tirò su.
Mi sbatté contro un muro.

“Mi fai schifo,” sibilò.

Poi tirò la mia faccia sul suo cazzo, duro sotto i pantaloni eleganti.

“Lo vuoi vero, lurido verme?”

Lo guardai dal basso, con occhi sottomessi alla lussuria, e annuii

“Ti farò sentire il cazzo che ti ha generato, è questo che vuoi vero?”

Non aspettò una risposta.

Si abbassò lento la zip dei pantaloni.
Ne uscì un cazzo duro, lungo, largo.
Aveva la stessa forma di quello del nonno ma era più grande.

Senza ritegno ingoiai il suo cazzo. Ma lui mi scacciò via.

Mi prese da dietro. E me lo ficcò dentro senza attenzione.
Avevo il culo ancora lubrificato dalla sborra della scopata precedente ma la sua foga mi spaccò. Urlai. Godei.

Poi iniziò a scoparmi.
Duro. Violento.
Dentro.
Come se volesse cancellarmi.
O cancellare sé stesso.

E io… venni.

Venni mentre mi scopava.
Venni mentre piangevo.
Venni mentre il suo cazzo mi puniva e mi possedeva.
Venni mentre il suo cazzo mi faceva sentire la sua rabbia ma anche il suo amore.

Era tutto sbagliato.
Era tutto perfetto.
Era il cerchio che si chiudeva.

Quando finì, venne dentro di me.
Poi si tirò fuori.
Si ricompose.
Mi guardò ancora.
E sussurrò:

“Tu eri già morto per me. Ora lo sei davvero, non ho più un figlio. Ho solo uno sborratoio col mio stesso cognome.”

Si allontanò.

Con mio stupore vidi che diede una busta con dei soldi a Ettore, poi prese per mano la donna a cui avevo leccato la figa, la baciò con complicità, mi guardò un’ultima volta con disprezzo e se ne andò.

Con l’erezione ancora visibile.
Con la mia umiliazione come sigillo.
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