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Il Riscatto 4 - Il Contratto

01.04.2025 |
109 |
4
"E quando il suo cazzo uscì, già duro, tutto dentro di me urlò per averlo..."
Era passato solo un giorno da quel pomeriggio al bar.Ettore non si era fatto attendere.
Mi aveva scritto quella sera stessa, con un messaggio secco:
“Stasera. Ore 21. A casa mia. 250 euro.”
Non risposi.
Ma sapevo già che sarei andato.
Arrivai alle nove in punto.
Jeans stretti, giubbotto di pelle, e sotto solo un jockstrap bianco, di quelli che fanno sembrare il culo ancora più sodo.
Appena entrai, Ettore chiuse la porta con calma.
Posò le chiavi, il portafoglio… e poi tirò fuori tre banconote: due da 100 e una da 50.
Le piegò con cura e le lasciò sul tavolo, senza nemmeno guardarmi.
“Prima le cose serie,” disse.
Mi avvicinai.
Non per toccare i soldi.
Ma per guardarlo.
Era lui.
Il primo.
Quello che mi aveva aperto. Formato.
Spezzato.
E che ora era lì, pronto a comprarmi.
Lo vidi passarmi dietro.
Mi infilò una mano tra le cosce, e trovò subito il mio cazzo duro.
“Sei sempre stato pronto per me,” sussurrò.
Chiusi gli occhi.
Non risposi.
Ma dentro lo sentivo: il mio corpo si stava già piegando a lui.
“Spogliati.”
La sua voce non era cambiata.
Non chiedeva.
Ordinava.
Mi sfilai il giubbotto, poi i jeans.
Sotto, nudo.
Solo il jockstrap che incorniciava il mio culo come un’offerta.
Lui si spogliò con lentezza. Come faceva sempre.
Non c’era fretta.
Non c’era imbarazzo.
Solo potere.
E quando il suo cazzo uscì, già duro, tutto dentro di me urlò per averlo.
“Vieni qui.”
Si sedette sul divano, le gambe larghe.
Mi inginocchiai tra le sue cosce.
Le mani sulle sue ginocchia.
La bocca asciutta.
Il cuore in gola.
Mi prese il viso tra le mani.
“Sei sempre stato mio.”
Lo guardai.
“Non lo sono più. Stasera mi paghi. Come fanno tutti.”
Lo dissi con la voce spezzata.
Il cazzo, duro come non lo era stato da giorni.
Il corpo già consegnato, nonostante le parole.
Mi infilò due dita in bocca.
Le succhiai piano.
Sapevano di lui.
Di fumo, di pelle, di abitudine.
“Tu sei più mio adesso di quanto tu lo sia mai stato.”
Mi prese per un braccio.
Mi fece alzare.
E con un gesto secco mi stese sul tavolo basso del salotto.
Il legno era freddo sulla pelle.
Mi aprì le chiappe, sputò sul buco.
E poi… entrò.
Un colpo solo.
Secco. Lento. Profondo.
Come se sapesse dove colpire il mio cuore dal culo.
Urlai.
Ma non era dolore.
Era… ritorno.
Mi scopava come si scopa qualcosa che si è costruito.
Senza pietà, ma con precisione.
Andò avanti a lungo.
Ogni spinta era un ricordo.
Ogni colpo, una firma.
E dopo un tempo lunghissimo, non potei più trattenermi.
Con un urlo di piacere, venni.
Senza nemmeno toccarmi.
Con la faccia premuta sul tavolo, e le mani aperte.
Lui venne subito dopo.
Dentro.
Caldo.
Lento.
Come la prima volta.
Come l’unica volta che contava.
Mi rialzai tremante.
Mi rivestii.
Raccolsi i 250 euro senza dire niente.
Poi lo guardai.
“Per il prossimo, i prezzi salgono.”
E me ne andai con la coscienza che anche se avevo provato a comandare io, il mio corpo mi aveva tradito. Me ne andai con la convinzione che mi avrebbe richiamato.
Passò una settimana prima che si facesse sentire di nuovo.
“Vieni a casa mia. Alle 19.”
Arrivai in orario.
Lui era in cucina, vestito elegante ma senza cravatta, le maniche della camicia rimboccate.
Sul tavolo c’era un documento stampato in fronte-retro, e accanto una penna stilografica nera, lucida.
Mi sedetti senza parlare.
Ettore mi guardò, serio. Ma non freddo.
“È una proposta. Un’offerta professionale.
Anche se entrambi sappiamo che non ha nulla a che fare con il lavoro d’ufficio.”
Prese un sorso dal bicchiere.
“Centomila euro. In un anno.
Come mio assistente personale.”
Lo fissai. Il cuore mi batteva piano, ma profondo.
“Sarai con me in tutti i viaggi di lavoro. A tutte le cene.
Ti iscriverai di nuovo all’università, così almeno sembrerai colto.
Non posso portare in giro una troia illetterata.”
Poi abbassò la voce.
“E ogni weekend sarai mio.
Completamente.
A disposizione mia. E di chi voglio io.
Nudo in casa. Sempre pronto.
Due sere a settimana, idem.
Se arrivo, sei in ginocchio.
Se ho ospiti, sei il dolce.
Se dormo, ti infili nel letto e mi scaldi.
È chiaro?”
Annuii.
Lo era.
Guardai il contratto.
Era tutto nero su bianco. Preciso.
C’erano anche le clausole di riservatezza.
I bonus.
Un premio di fine rapporto.
Una carta prepagata.
E mentre lo leggevo, mi sentivo strano.
Non umiliato.
Non usato.
Mi sentivo riconosciuto.
Pagato. Considerato.
Volevo ancora essere una puttana, sì.
Ma una puttana con un ruolo. Con uno stipendio.
Con valore.
Gli chiesi di darmi il tempo di pensare, anche se avevo già deciso.
Me ne andai e tornai qualche ora dopo.
Non dissi nulla.
Non lo guardai nemmeno.
Presi la penna e la lasciai correre sul foglio sul tavolo.
Firmai il contratto senza fiatare, senza trattare.
Ettore si alzò, venne dietro di me, mi baciò sulla nuca.
“Adesso sei davvero mio,” sussurrò.
“Non perché ti prendo. Ma perché ti ho comprato.”
E io lo sentii. Era vero. L’uomo che mi aveva fatto diventare troia, mi aveva comprato per un anno.
La sua frase mi fece venire.
Silenziosamente.
Nelle mutande.
Come un cane fedele che ha appena ricevuto un nome.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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