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Gay & Bisex

Heimat - 4


di HegelStrikesBack
02.08.2024    |    7.200    |    9 9.3
"“Sei pronto?” “Sì, ma fai piano…” La grossa cappella di Stefano si fece strada con qualche difficoltà e un po’ di prepotenza in quel culo, ovvero il mio, ..."
Il pomeriggio del 26 giugno 2006, quando Francesco Totti segnò il rigore al novantacinquesimo minuto, eliminando l’Australia agli ottavi di finale del Mondiale, gli unici due a non esultare tra i dodici presenti a casa Fini, ovvero dei genitori di quella stronza di Benedetta, eravamo io e Carlo. Io perché mi sentivo completamente fuori luogo ed ero stato tratto in quella casa con l’inganno, Carlo perché rosicava nel vedere la mia complicità con Stefano che cresceva di minuto in minuto.
Dalla sera della festa di fine anno erano passate poco più di due settimane e per me e Stefano ogni occasione era buona per darci dentro a far porcate: avevamo ottenuto col consenso della Preside, le chiavi del laboratorio di musica affinché il mio inserimento nella band della scuola fosse più rapido: con Stefano passavamo le ore lì dentro a provare i brani che facevano parte del loro repertorio e durante le pause, Stefano cacciava fuori il cazzo e io mi prodigavo nel fargli pompini che a suo dire miglioravano di giorno in giorno, accucciato in ginocchio mentre lui rimaneva seduto sullo sgabello della batteria solo ruotato di centottanta gradi rispetto alla gran cassa e ai rullanti. Finito il mio compito, che durava un bel po’, perché Stefano ci metteva sempre un sacco a scaricarsi nella mia bocca, poi, si ricominciava come se nulla fosse. Negli ultimi giorni Stefano, aveva deciso di fare anche qualche passo in più e mi aveva portato a mangiare la pizza da Pino, in centro, e a bere qualcosa in un pub. Finché non arrivò l’invito in quella trappola.
“Senti, domani vado a vedere la partita a casa di Dado, un mio compagno di classe… i suoi genitori non ci sono, ci sarà un po’ di gente ma comunque una roba tranqui… sarebbe un occasione carina per presentarti i miei amici. Che ne dici?”
Lì per lì ero rimasto un po’ turbato: wow, dopo due settimane mi presenta già i suoi amici, allora è una cosa seria. D’altro canto che senso ha rimanere incastrati su Carlo e i suoi segnali così ambigui? Ma sì, è giusto andare.
Quello che ignoravo completamente è che Dado, ovvero Edoardo Fini, fosse il fratello maggiore di Benedetta Fini, la fidanzata di Carlo.
E così quella serata prese una piega decisamente strana fin dal principio con Carlo che aprì la porta e si trovò me, mano nella mano con Stefano.
Il suo umore cambiò improvvisamente come il mio, di colpo pessimo, nella tana del lupo e con il lupo pronto a sbranarmi.
Uscii nel superterrazzo a fumare una sigaretta per sbollire un po’.
“Allora è per questo che non rispondi più ai messaggi… sei troppo impegnato a rispondere a quelli del batterista!” – mi canzonò alle spalle Carlo, accendendosi una cannetta.
“Innanzitutto si chiama Stefano, comunque sono stato molto impegnato a studiare i pezzi per la band e poi non tutti i messaggi meritano risposta, non credi?”
“Che devo fare con te? Me lo spieghi?”, chiese Carlo sospirando.
“Essere sincero, ad esempio?”
“Chicco, ma io sono sempre stato sincero con te e ti ho già detto che mi dispiace non esserti stato vicino ultimamente. E quel lento lo volevo ballare con te, ma…”
“...ma dovevi ballarlo con Benedetta…”
“Mi dispiace che tu l’abbia presa così male, ma è una ragazza molto simpatica, se vi conosceste meglio la adoreresti anche tu!”
“Oh, ti prego smettila, lei non mi sopporta come non la sopporto io.”
“A me piacerebbe che faceste uno sforzo entrambi, per me”
“Non è a me che devi chiederlo, you know it baby!”
Rientrai in una nuvola di fumo nel salotto d’alta borghesia della famiglia Fini, Stefano mi guardò entrare come un miraggio. Mi sedetti accanto a lui su un ampio divano d’alcantara blu.
“Sei proprio bello lo sai?”
“Ah sì? Anche tu!”
“Bugiardo…”
“Sai di cosa mi è venuta una gran voglia?”
“No, dimmi…”
“Di prenderlo in culo.”
Stefano rimase quasi imbambolato, il suo battito rallentò improvvisamente.
“Stai scherzando?”
“No…”
“Ma… qui?”
“Perché no, mi sembrano molto ricchi i signori Fini… chissà quante stanze da letto avranno! Non sei curioso di sbirciare?”
“Sei veramente una troia!”
Mentre gli altri erano presi dai festeggiamenti alcoolici o troppo intenti a fumare erba di qualità molto scadente, io e Stefano ci incamminavamo verso la zona notte dell’attico dei genitori di Benedetta.
Stefano non lo seppe mai, la mia non era reale voglia di fare sesso con lui, quanto più la voglia di profanare il tempio, farlo lì, nella casa della mia acerrima nemica, con Carlo a pochi metri di distanza.
La prima stanza che trovammo era proprio quella di Benedetta. Bingo, me la chiusi dietro a chiave e cominciai a limonare Stefano e a spogliarlo.
Che bel fisico che aveva e quanto mi piaceva leccarlo, con quella muscolatura giovane e guizzante e la striscia di pelo che da in mezzo ai pettorali scendeva fino a lambire l’ombelico e ancora più giù fino a raccordarsi coi peli del pube.
“Chicco, sei sicuro che ti va?”
“Certo! Sennò non avrei preso l’iniziativa”, risposi malizioso.
La verità è che mi stavo veramente cagando sotto: non avevo fatto nessuna preparazione, non avevamo nessun lubrificante, un preservativo per miracolo e il cazzo di Stefano, beh quello era bello grosso…
Mi misi a pecora per facilitare le operazioni, con la camicia sbottonata e i pantaloni calati alla caviglia, Stefano che ormai era completamente nudo cominciò a baciarmi la schiena e a sussurrarmi parole dolcissime. Io invece non facevo altro che pensare a quello che Carlo e Benedetta potevano aver fatto su quel letto e mi veniva da vomitare, ma più mi saliva lo schifo e più mi veniva voglia di farlo per ripicca.
“Sei pronto?”
“Sì, ma fai piano…”
La grossa cappella di Stefano si fece strada con qualche difficoltà e un po’ di prepotenza in quel culo, ovvero il mio, che fino a quel momento al massimo aveva ospitato un dito o un evidenziatore nei momenti di massimo effort autoerotico. La sensazione era piacevole alla fine, sentivo la carne di Stefano lacerare la mia e sentivo di perdere a poco a poco il controllo della situazione: nella maniera più sbagliata possibile ma stavo imparando una lezione importantissima, ovvero quanto mi piacesse prenderlo nel culo. E se fino a quel momento ero stato zitto e immobile mentre a muoversi e ad ansimare era stato solo il mio bel batterista, ora anche io cominciavo ad assecondarne i movimenti e a gemere sempre più rumorosamente.
“Fai piano altrimenti ci sentono”
“Non me ne frega un cazzo, scopami bello”
Stefano mi girò a pancia su, mi sollevò le gambe e mentre mi baciava riconinciò a scoparmi.
“Sei una troia, sei una grandissima troia… guarda quanto ti piace il cazzo… neanche un mese che ci conosciamo e sei già qua a farti scopare come una lurida… sei proprio fatto per prendere cazzi!”
La dolcezza che negli ultimi giorni avevo scoperto in Stefano stava lasciando posto ad un animale che non ero sicuro che mi piacesse poi così tanto e quelle parole erano state una mezza coltellata, ma d’altro canto era anche il gioco delle parti.
Stetti al gioco, ormai eravamo in ballo ed era il caso di ballare. Mi sfilò i pantaloni, i calzini e la camicia per praticità e per poter giocare col mio corpo. Le sue mani, ruvide, grandi, caldi percorrevano ogni centimetro del mio torace mentre le mie gambe erano sulle sue spalle. Sentimmo bussare a un certo punto, fortunatamente la porta era chiusa a chiave, mentre dal salotto Shakira urlava che i suoi fianchi non mentono. Nemmeno il resto dei nostri corpi mentivano, il mio in particolare tremava di piacere e di paura sotto i colpi di ciò che non avevo mai provato prima e che forse, per pura e semplice vendetta avevo deciso di provare, anticipando forse un po’ la biologia del mio corpo e della mia volontà. Non fu un gioco breve e per quanto cercai di starci al meglio, non posso dire che sia stato il mio gioco preferito e non lo sarà per molto tempo a venire. Stefano, invece, non veniva mai mentre madido di sudore continuava imperterrito quel dentro-fuori che mi parve quasi infinito. D’un tratto i colpi accelerarono come il suo ansimare, ritmici come solo quelli di un batterista sanno essere. 100, 120, 140, 160 battiti per minuto fino al fill finale, quello in cui la sua cappella uscì dal mio culo e sparò mezzo ettolitro di seme sul mio torace.
“Non vieni?” mi chiese spiazzato Stefano mentre io pastrugnavo quel lago bianco che si trovava lungo tutto il mio corpo.
“No, no… sono… sono a posto così per stasera”.
“Cazzo, non c’è niente con cui pulirsi!”
Stefano stava aprendo freneticamente cassetti e ante di quella stanza di teenager alla disperata ricerca di un fazzoletto, un asciugamano, qualsiasi cosa che potesse servire a ripulirci e ad andarcene di fretta da quella stanza.
Forse nessuno aveva notato la nostra assenza, anzi sicuramente sarà stato così, ma io me li immaginavo tutti a braccia conserte, pronti a squadrarci e giudicarci quando, scomposti, spettinati, sudati e coi vestiti che sanno ancora di sesso fossimo tornati nel salotto di casa Fini.
Stefano, intanto, non veniva a capo di nulla. Ed io ero stufo di stare lì sdraiato e pieno di sborra che si stava seccando. Aprii un’anta dell’armadio di Benedetta a caso, tirai fuori una maglietta, mi detersi il petto, diedi un’asciugata alle pubenda di Stefano e la buttai sotto al letto.
“Andiamo, dài!”
Nessuno ci cagò pari quando ritornammo in salone, tranne Carlo che cercava in tutti i modi di attirare la mia attenzione. Recuperammo da un tavolino due Corona con due fettine misere e rinsecchite di limone e ci avviammo verso la porta d’uscita.
Dentro l’ascensore vidi riflessa nello specchio la mia faccia da lepre all’apertura della caccia. Stefano mi abbracciò da dietro.
“Hey, è tutto ok?”
“Sì, no, boh non lo so.”
“E se andassimo a mangiare un gelato da Capo Nord?”
Salimmo sul suo 125, lo abbracciai da dietro mentre attraversavamo la città infestata da una calura e da un’umidità devastante. Mi offrì un gelato, ci sedemmo su un gradino e istintivamente appoggiai la testa sulla sua spalla. Mi riempì di baci sui capelli.
Mi disse che cominciava a provare qualcosa per me, qualcosa che non conosceva e che non pensava fosse possibile provare. Che aveva sempre voglia di stare con me, che gli mancavo quando non c’ero.
Mi chiese cosa provassi io e che difficile fu parlargliene, gli dissi di Carlo, di quanto il nostro rapporto mi avesse confuso e di quanto invece stavo imparando a lasciarmi andare con lui, di quanta voglia avessi di mettermi alle spalle la delusione che avevo provato e di quanto mi sentissi a mio agio quando eravamo insieme. Gli dissi anche che forse era stato avventato avere un rapporto completo quella sera, senza preparazione, senza lubrificanti, senza preservativi, così, nell’impeto di un moto di rabbia e di voglia di vendetta.
Stefano mi accarezzò il viso con dolcezza, si dispiacque dell’avermi fatto qualche pressione nei giorni precedenti ma gli ricordai che la scelta era stata mia anche se mai fino in fondo seppe il perché di quella decisione sconsiderata. Il culo mi faceva male, ma il cuore no, quello stava benissimo. Mi prese una mano e mi chiese con la tenerezza dei suoi 17 anni se volevo mettermi con lui, mi disse che non voleva una risposta subito, che voleva che almeno a questo ci pensassi bene e che non me ne pentissi dopo come per la scopata.
Gli dissi che ci avrei pensato bene, quella settimana a scuola c’erano gli esami di maturità e non avremmo potuto provare per non infastidire lo svolgimento degli orali quindi ci saremmo visti meno e non in intimità, ma che magari nel weekend avrei potuto dargli una risposta. Gli diedi un bacio lieve sulle labbra e gli chiesi di riaccompagnarmi a casa prima che i miei genitori cominciassero a rompermi le scatole.
Nel frattempo, a qualche chilometro di distanza, nel megaterrazzo dei signori Fini, l’atmosfera della festa era al suo zenith, litri e litri di alcool versato, un tripudio di mozziconi di joint fumati che manco al concerto di Bob Marley e tutti che ridevano passandosi il cellulare di Benedetta. L’unico a non ridere per nulla quando gli passò il cellulare davanti alla faccia fu Carlo, che prese Benedetta per un polso, furente e la trascinò in cucina. Ne uscirono dopo una decina di minuti con Benedetta che urlava e piangeva e Carlo che sbatté violentemente la porta. Carlo tentò dodici volte di telefonarmi e mi inviò almeno 4 sms con scritto semplicemente “Chiamami urgentemente”, ma il mio Nokia N70 era in silenzioso e io dormivo beatamente.
Non fu altrettanto piacevole il mio risveglio quando trovai le chiamate e i messaggi di Carlo e scoprii il motivo di tanta urgenza nel mettersi in contatto con me.
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