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Love is in the air - Parte 5


di HegelStrikesBack
28.03.2018    |    4.721    |    8 9.5
"” Richiudo il cassetto e proseguo la giornata lavorativa in santa pace, evitando accuratamente ogni forma di contatto con Francesco..."
Anche stanotte mi sono svegliato urlando.
Sempre lo stesso stramaledetto sogno, che finisce sempre nello stesso stramaledetto modo.

Muoio.

C’è una sola differenza stanotte: anzichè morire perdendo il controllo della mia Porsche sulla strada di casa, il treno che domani mi riporterà a Milano è deragliato senza lasciarmi scampo alcuno.
Lì, tra le lamiere e quello che resta del mio laptop che contiene gli ultimi tre anni della mia vita lavorativa e non.
In ufficio ho telefonato due mesi fa, dicendo che per un po’ non sarei tornato. Tanto l’ufficio è mio, figurati se s’azzardano a dirmi qualcosa.
Con Sara litigo ogni giorno che Dio manda in terra e tramite qualsiasi mezzo di comunicazione: per telefono, via sms, via whatsapp, via e-mail… se potessi lo farei anche via piccione viaggiatore, ma tanto non capirebbe.
Non capirebbe che due mesi fa ho capito di amare un uomo, ho capito di voler invecchiare accanto a lui e che nel momento in cui, di quest'uomo si è detto che sta per diventare padre, il Claudio con cui lei è stata tutti questi anni, il Claudio che ha amato, il Claudio che sono stato, è morto sul colpo.
Forse per questo da quando sono qui sogno di morire tutte le notti.
È più tardi delle altre notti, sono le 03:37.
Mi alzo per sciacquarmi il viso e bere un bicchiere d’acqua. Sono scosso, come tutte le stramaledette volte che faccio questo stramaledetto sogno.
Nel passare davanti alla stanza di mio fratello, noto nel buio la luce che filtra da sotto la porta e sento un leggero ma chiaro cigolio.
Non so cosa mi prende - perchè davvero non l’ho mai fatto in quarantasei anni di vita - ma accosto l’occhio destro alla serratura per capire cosa stia succedendo.

Lucio è sdraiato sul letto, tutto ignudo, che se lo mena come un forsennato.
Hai capito il fratellino? Dev’essere un vizio di famiglia.
Tra l’altro noto con piacere che anche lui, nonostante il suo aspetto un po’ da Forrest Gump ha un fisico niente male, tornito dal lavoro nella tenuta di famiglia e un bell’arnese tra le gambe.
Sorrido divertito, questo atto di voyeurismo mi ha rimesso di buon umore.
Bevo, torno a letto e mi riaddomento ancora per qualche ora.
Stavolta però non sogno di morire. 
Non sogno proprio.

La sveglia impietosa suona per le 05:30, in modo da riuscire a farmi un caffè e farmi accompagnare alla stazione di Chiusi-Chianciano Terme in tempo per prendere il regionale per Firenze e poi la Frecciarossa per Milano.
Il tempo mi pare eterno. La campagna ancora mezza addormentata e infreddolita da un inverno più rigido del solito fa capolino da dietro ai vetri di questo vagone che puzza di merda, sudore e voglia di scappare.

Tornare a Milano mi fa davvero strano dopo questa pausa forzata.
Ho passato le festività di Natale e di Capodanno a casa in Toscana per la prima volta negli ultimi cinque anni senza Sara.
Mamma e Papà qualche domanda se la sono fatta, ma non chiedono, son fatti così. L’unica volta che hanno provato a chiedere qualcosa Lucio è intervenuto a gamba tesa sviando il discorso.
Sapeva che avrei potuto cedere e ha voluto risparmiarmelo. A cosa servono i fratelli maggiori sennò?
Il mio loft da coppia è tornato loft da single senza le cose di Sara che da qualche giorno non ci sono più. La mia voce fa quasi eco tra i soffitti a 5 metri e sessanta, le scale in metallo e la cucina a vista. Che strano, strano davvero.
E dire che io quella libertà mica l’ho chiesta, mica l’ho voluta.
È che a quarantasei anni, quasi quarantasette, non è così semplice fingere. 
E poi la tranvata è stata forte, capire che ti piacciono i maschi, venire sedotto e poi abbandonato… brutta storia.
Lascio le cose un po’ dove capitano, giusto per rimarcare un segnale di presenza umana in casa. 
C’è polvere un po’ ovunque, ma verrà la donna delle pulizie domani.
Una di quelle app di consegna cibo a domicilio mi porta la mia cena, poi accendo la televisione e mi addormento sul divano senza alcun ritegno.

L’ufficio non è molto diverso da come l’avevo lasciato. Anzi, mi sembra ancora più bello.
L’accoglienza è calda da parte di tutti.
Sabrina, mia storica collaboratrice lavorativa mi abbraccia forte.
“Ci sei mancato tanto Clà, bentornato a bordo.”
Strette di mano e pacche sulle spalle a non finire e poi la presentazione del nuovo arrivato.
“Come ti avevo annunciato via Skype, dovendo io assolvere le tue funzioni, abbiamo preso un nuovo me. Ti presento mio fratello Francesco.”
Era impossibile non notare Francesco.
Un metro e novanta di omaccione barbuto e dai capelli ricci ricci castani. È di pochissime parole.
“Ciao, piacere.”
E se ne torna alla scrivania.
Un po’ perplesso faccio ritorno anche io alla mia di scrivania.
Sabrina mi segue, non capisco se per carpire il mio stato emotivo o perchè pensa davvero di potermi essere di qualsiasi aiuto.

Appoggio la valigetta Spalding a terra e mi risiedo sulla poltrona ergonomica con la testa tra le mani e i gomiti sul tavolo.
Dalla parte sinistra una foto di me e Sara al matrimonio di Edoardo e Monica mi fissa.
La prendo per guardarla un’ultima volta.
“Me la fai sparire per favore?”
“Butto o archivio?” Chiede Sabrina ostentando indifferenza.
“Boh, fa come ti pare. Anzi, la cornice salvala. È d’argento.”
“Il resto butto.”
“Sì.”
“Posso fare altro per te?”
“Non credo tu sia in grado di rendermi felice ma apprezzo infinitamente la tua proposta d’aiuto.”
“Bentornato ai posti di comando, Capitano.”
“Grazie Sabri, mi sei mancata.”

“Anche tu.”
La prima giornata di lavoro passa abbastanza indenne: la tentazione di aprire il primo cassetto è forte ma resisto. Devo. Non posso sopportare la vista di quelle foto. Non ho il coraggio di guardarle nemmeno per buttarle o bruciarle.

Torno a casa, mi spoglio e mi faccio una doccia.
Mentre mi masturbo furiosamente pensando a scene di sesso oltre i limiti della pornografia con un ragazzo i cui occhi si sono impigliati nei miei in metropolitana, il mio cellulare squilla a vuoto.
La mia asta turgida pulsa nelle mie mani in quel su-e-giù solitario a cui mi sono ormai abituato da mesi e sputa fuori tre, quattro, sei, sette schizzi di seme caldo sulla parete in cristallo temperato della cabina doccia che prontamente risciacquo.

L’orgasmo autoprocurato mi lascia privo di forze. 
Il cellulare può aspettare. Mi asciugo alla bene e meglio e mi butto sul letto.
Per un attimo, in preda ad un banale e fugace senso di colpa penso a Sara, penso a quante cose mi mancano di lei. Alle sue creme che non stazionano più sulla mensola dello specchio del bagno, alle sue scarpe col tacco nella cabina armadio, alle sue sciarpe appoggiate all’attaccapanni in ingresso anche in piena estate. 
Al profumo di patchouli di quella marca francese che amava tanto e che ogni giorno che passa diventa un ricordo sempre più sbiadito.
Mi trovo quindi a torso nudo e con un asciugamano in vita a ricordare i malinconici versi di Leo Ferrè in una scena quasi surreale.
“Col tempo sai, col tempo tutto se ne va.”
E tutti se ne vanno.
Sara e Sebastiano, in particolare.
Ceno di nuovo da solo, sempre da asporto, accanto alla solita scontata ammissione: forse non sono fatto per l’amore.

Prima di addormentarmi butto un occhio al cellulare da cui sto cercando di disintossicarmi il più possibile almeno fuori dagli orari di lavoro: tre notifiche su instagram, un invito via Facebook ad un evento a cui non presenzierò mai nemmeno ridotto in cenere dopo la cremazione e sette chiamate perse.
Non una, non due bensì sette e tutte di Sebastiano.
Due volte alla settimana, le sere del calcetto, da ormai due mesi e qualche giorno mi subissa di tentativi di mettersi in comunicazione con me. 
Tentativi che puntualmente falliscono perchè non gli rispondo.
La smetterà prima o poi, penso tra me e me.
Mi addormento di pessimo umore e di umore ancora peggiore mi sveglio nei giorni seguenti.

In ufficio le cose vanno abbastanza bene, il team ha continuato a lavorare alacremente anche in mia assenza e si sta ricreando quel rapporto sinergico con tutti che c’era prima della mia partenza. Con tutti tranne che con Francesco, il nuovo arrivato, che si stava dimostrando orso, solitario, scorbutico e a tratti pure un po’ arrogante. Tanto diverso da Sabrina.

È venerdì quando entro in studio a testa bassa e salutando con poco più che un cenno della mano e un filo di voce e mi dirigo verso il mio ufficio con passo celere.
L’ennesimo tourbillon di chiamate di Sebastiano mi ha ufficialmente guastato l’appropinquarsi del weekend. Così ho preso la decisione sofferta di bloccargli anche le telefonate, mettendolo nella black list.
Gli altri, intenti nel gustarsi il primo espresso della mattinata, non possono fare a meno di chiedersi cosa mi fosse accaduto per esprimere tacitamente tanto malumore.
Fu lì che, non accorgendosi del tono di voce un po’ alto, Francesco si espressa in tutta la sua brutalità.
“Si vede che nessuno gli ha dato del cazzo ieri sera.”
Pensava di aver fatto la battuta divertente, invece non solo non ha riso nessuno ma è calato uno di quei silenzi imbarazzantissimi e disagevoli, pesanti come la domenica pomeriggio.
Pensava anche di non essere sentito da me, ma appunto il tono di voce un po’ alto ha permesso alle mie orecchie di sentire tutto.
Il cazziatone è un piatto che va servito freddo. 
Ho aspettato tutta la mattinata, l’ho massacrato di tasks da portare a compimento e poi l’ho convocato nel mio ufficio.
Non posso dire nemmeno di averlo visto entrare con aria spavalda perchè non ho nemmeno alzato lo sguardo dal MacBook.
“Mi ha fatto chiamare capo?”

“Siediti”
Aspettava una domanda che però tardò ad arrivare e fu più diretta di quello che si aspettasse.
“Che problema hai con me?”
“Nessuno capo figuriamoci!”
“Cazzate. Ti ho sentito stamattina quando hai fatto quella battuta di pessimo gusto. Ti vedo come mi guardi storto. È perchè sono così?”
“Così come?”
“Frocio.”
“Non intendevo quello.”
Lo guardai dritto negli occhi, occhi verdi come gli smeraldi più puri, occhi belli.
“Tu non hai idea come ci si senta a quarantasei anni a rimettere in discussione la propria vita, a perdere la donna che hai amato e l’uomo che ti ha fatto capire che tutto quello in cui credevi era un’illusione. E ciò che è peggio non te ne frega e pensi che sia un tuo diritto fare della facile ironia da bar dello sport alla macchinetta del caffè con i colleghi per sentirti più uomo, più macho e più virile di quel finocchio del tuo datore di lavoro che come hai acutamente osservato ieri sera non è stato preso a pisellate da un qualsivoglia energumeno. Beh, ti sbagli di grosso. E quel rispetto me lo devi. Se non come tuo datore di lavoro come essere umano. Altrimenti quella è la porta. Chiaro?”
Abbassai di nuovo la testa sul portatile, incurante di ogni sua possibile reazione.
Rimase seduto ancora qualche istante e poi aggiunse: 
“Chiarissimo.”

Chiusa una porta si riapre un cassetto: il primo della scrivania, quello che contiene le foto di me e Seba a Quai d’Austerlitz.
Le guardo, le sfioro distrattamente con l’indice. 
Mi scopro a parlargli dicendo:
“Guarda da che mi tocca difendermi per colpa tua.”
Richiudo il cassetto e proseguo la giornata lavorativa in santa pace, evitando accuratamente ogni forma di contatto con Francesco.

Scoppia un temporale. La tempesta perfetta.

Milano impazzisce idrofoba. 
La gente disimpara a guidare, s’agghinda per un venerdì sera troppo top e io mi aggiro tra i banchi frigo del supermercato per comprarmi qualcosa di buono.
Il tempo di arrivare a casa, appoggiare le buste in cucina e infilare una felpa che il citofono suona all’impazzata.
Penso subito al peggio: Sebastiano si è accorto che gli ho bloccato le telefonate e adesso si presenta qua a farmi la piazzata, sta a vedere.
Già sul piede di guerra mi accingo ad aprire la porta e litigare. Un fulmine illumina la sagoma di Francesco, bagnato come un pulcino. Un pulcino di un metro e novanta.

“Posso entrare per favore?” chiede facendo la sua entrata arrogante.
“Beh direi che ti sei fatto spazio da solo.”
“Scusa, mi stavo infradiciando tutto.”
“Cazzo sei bagnatissimo, dammi il giubbotto che te lo appendo qui. Levati le scarpe che mi bagni tutta casa, per favore.”
“Bello qui, l’hai arredata tu?”
“Sì, ma ormai dieci anni fa.”
“Si vede il tuo stile”, aggiunge buttandosi sul divano in pelle bianca.
“Vuoi un thè caldo?”
“Magari.”
“A che devo l’onore della visita inaspettata. Anzi, come hai saputo dove vivo?”
“Ho detto a mia sorella che avevi dimenticato il computer in ufficio.”
“Sei più furbo di quanto credessi. Sei qui per menarmi come gesto dimostrativo della tua eterosessuale superiorità?”
“Veramente sono qui per chiederti scusa.”
“Quanto è sincero questo gesto?”
“Al cento per cento. Ripeto, a Sabrina ho detto che dovevo riconsegnarti il computer.”
“Io vorrei veramente capire Francesco che problema hai con me…”
“La verità è che ti odio.”
“Beh, viva la sincerità.”

“Ti odio perchè tu rappresenti tutto quello che io non ho e vorrei: la bella casa, il successo nel lavoro, l’intraprendenza ma soprattutto il coraggio e la libertà.”
“Non so a cosa tu ti stia riferendo…”

“Oh sì che lo sai, mollare la tua compagna per stare col tipo che ti ha fatto perdere la testa. Io non ci riuscirò mai. Tu sei libero, io no.”

“No, no… aspetta… tu mi stai dicendo che…?”

“Sì ti sto dicendo che pure io sono ricchione ma non ho il coraggio di ammetterlo, sei contento?”
“Io sono perplesso. Non contento.”
“Oggi mi hai fatto tutta la filippica sul fatto che non so cosa vuol dire quello che sto passando, ma tu sai cosa vuol dire crescere in un paesino in Puglia, a trenta chilometri da Taranto, scoprire a quindici anni che ti piace il cazzo e capire che per tutte le persone che hai intorno è una malattia quella? Lo sai cosa significa farsi piacere la fica a forza, uscire con le ragazze del paese per non essere additato da tutti come deviato? Come un invertito? Tu ci sei arrivato a quarantasei anni e te ne sei risparmiato tanti di sofferenza. Sono ancora così uno stronzo o cambi opinione su di me? Eh?”

Il suo tono di voce si è alzato tantissimo, come tantissima era la rabbia, la frustrazione, l’insoddisfazione che ardevano come una brace nei suoi occhi.
Si è alzato di scatto dal divano esposto al MoMA nella concitazione e ha cominciato a camminare su e giù per la stanza.
Ad un certo punto mi alzo anche io per tentare di calmarlo.

I nostri occhi si incrociano per un interminabile secondo di troppo.

C’è stato un lampo seguito da un fragorosissimo tuono.
La realtà alla fine è stronza e ti bacia in bocca.

E così ha fatto Francesco.
Ed io non mi sono scostato.
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