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Promiscuità - Parte Sesta (Ultimo capitolo)


di HegelStrikesBack
30.05.2017    |    6.699    |    11 9.3
"“Che ne dici, se la settimana prossima portassi un po’ delle mie cose qui a Milano, poi scendiamo a Roma e ne porti un po’ delle tue da me?” “Fai sul serio..."
“Adesso che la messa è finita e siamo andati in pace, possiamo dirlo con serenità: non ci mancherà per un cazzo.”

“Dio mio, Tommi quanto sei cinico! Sei proprio un avanzo di berlusconismo in decadimento!”
“Dai Pigi, prova a dirmi che non ti dispiace che la signora Guido sia passata a miglior vita…”
“In effetti, quell’impicciona rompiscatole non mi è mai stata esageratamente simpatica.”
“La odiavi. Come tutti su questo pianeta. La gente oggi è andata al suo funerale per assicurarsi di essersene sbarazzata per sempre.”
Ridiamo complici, mentre il fiato si fa fumo a contatto con l’aria gelida di un sabato mattina di metà dicembre.
“Beh Tommi io vado a comprare in centro gli ultimi regali, stasera a che ora devi andare a recensire la winery in corso Washington?”

“Alle 20:30, mi porti tu?”

“Certo, ho bisogno di ubriacarmi male. Natale mi mette tristezza.”

“Perchè ti senti simile alle renne. Cornuto.”
“Stronzo.”

“Ti voglio bene, ci vediamo dopo”.
Sorrido scuotendo la testa, meno male che c’è Tommi nella mia vita. 
L’amico che tutti vorremmo: impudente, stronzo, cinico ai confini del fastidioso ma presente, vero, mai buonista, quello che ti dice quello che pensa davvero, non quello che tu vorresti sentirti dire.
Cammino nella Milano prenatalizia, un delirio di luci, panettoni artigianali e caccia all’ultimo regalo, quelli tecno, quelli hipster, quelli di lusso per fare colpo e quelli riciclati che “ancheateefamiglia” e non posso fare a meno di sentirmi fuori posto.
Non ho mai amato Natale, da quando non c’è più mio nonno peggio che mai.
Un amarcord famigliare dei bei tempi che furono davanti a una tavola strabordante carboidrati e grassi di varia natura. Alla fine questo è.
Ed io da molto tempo sono a dieta.
Decido di rimuovere almeno momentaneamente questa tristezza dalla mia giornata, che ricordiamoci è cominciata con un funerale, e mi avvio alla Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele II, con l’intento di comprarmi un po’ di libri.
Chissà, magari durante queste vacanze riuscirò a rilassarmi un po’ e leggere. 
Male non fa mai.
Nella sezione “nuove uscite” nulla attrae la mia attenzione e mi sposto sui classici, che rileggerli fa sempre bene.
E rieccolo lì, il mio amore liceale: Lucio Anneo Seneca.
Chissà che fine hanno fatto i miei libri di Seneca?
Beh, approfitto del 3x2 e me lo ricompro così per Natale me lo rileggo. Chissà se mi piacerà ancora come allora.
“Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere e, quel che forse ti sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire… era lui vero?”
Colpo secco. Quella voce la riconoscerei tra milioni.
“Non può essere” mi dico, “Che ci fa qua, figurati, mica viene alla Feltrinelli di Milano”.
Cerco un’alibi per autoconvincermi che non sia lui.
E invece è lui.
Nico, parka verde militare, maglione panna a costine, jeans e cuffietta blu.
Ha gli occhi lucidi, mi guarda e non dice niente.
“M…ma…t…tu che… che… che ci fai qui?”

Colpito e affondato, non rispondo ai comandi.
Houston, abbiamo un problema. Il più bel problema del mondo secondo me.
“Sono venuto ad una riunione della casa discografica e poi ho pensato di fermarmi un giorno in più. Compere natalizie ed inutilità simili. Stai bene?”
“No, cioè… sì, sì dai tutto a posto.”
Ci spostiamo un po’ a latere per parlarci con un po’ più di tranquillità senza prenderci improperi e gomitate.
Balbettiamo entrambi qualcosa poi, impudente come solo l’amore sa essere, mi abbraccia, senza chiedere permesso.
Tutti apparteniamo a qualcosa, a qualcuno, a un dove indefinito dove ci sentiamo a casa. Il mio dove, il mio appartenere più profondo albergava lì, all’incrocio delle braccia grandi di Nico.
Chissà che avranno pensato i tanti avventori della libreria vedendo il cantante e lo sconosciuti abbracciarsi nella sezione classici.
Paghiamo in fretta gli acquisti e usciamo in un soffio di porta scorrevole.
Camminiamo tra l’aria pungente e la nebbiolina di Milano ed io non so se ho più voglia di un thè caldo o di fare l’amore un’altra volta con lui.
Ci sediamo alla terrazza della Rinascente, sotto un cielo che non promette nulla di buono.
Neanche il tempo di sederci che Nico si accende una sigaretta. Marlboro rosse.
Il lupo perde il pelo, la barbetta, ma non il vizio.
“Sai, c’è un messaggio che ho scritto la sera dopo la festa di fine tour. Non ho mai avuto il coraggio di premere invia, ma sta ancora qua nel telefono.”

Amore mio,
sono stato un cretino ieri sera, ma lo sai che quando esagero non mi controllo più. Quando ti ho visto andare via ho capito di aver perso l’unica cosa che mi importa davvero: il tuo bene. 
Da quando ti conosco non so più cosa voglio, o meglio, lo so e ho paura di volerlo: io voglio te e non Elisa. Ed è difficile ammetterlo, quasi fastidioso, ma penso sia tu la persona che vorrei al mio fianco.
Forse non leggerai mai questo messaggio ed è meglio così, ma il mio cuore sfigato batte solo per te.
Tuo Nico.

Mi trattengo a stento dal piangere, ma ostento sicurezza e rilancio spavaldo: “Tanto domani torni da lei a Roma, di che cosa stiamo parlando?”
“No Pigi, ci siamo lasciati, le ho detto che non la amo più. Che amo te. Ha fatto le valigie mesi fa da casa mia.”
Ci sorridiamo imbarazzati, come se avessimo bisogno di dirci qualcosa che però si incastra in gola, con la raucedine del raffreddore invernale.
“Io ho bisogno di te, Pierluigi. Perdonami, ti prego.”
Mi prende la mano e scoppia la primavera intorno a me.
Corriamo a casa, fermiamo un taxi, saltiamo su un tram senza biglietto ma andiamocene qui.
I gradini a due alla volta, ridendo come due ragazzini con la casa libera dai genitori.
Ci chiudiamo la porta di casa dietro, ti appoggi con la schiena e la testa al portoncino e in un sospiro liberatorio dici “Casa.”
E sì, mi illudo che quella forse, non è più casa solo mia. Forse sta diventando casa nostra.
Facciamo l’amore tutto il pomeriggio, contro tutti i mobili, fino a finire i preservativi e dimenticarci della Winery di Corso Washington dove dovevo accompagnare Tommi. Che capirà sicuramente, e se non capirà, peggio per lui.
Ci addormentiamo abbracciati con i rispettivi cazzi ancora con le ultime gocce di sborra e ci risvegliamo così come ci siamo abbracciati.
“Che ne dici, se la settimana prossima portassi un po’ delle mie cose qui a Milano, poi scendiamo a Roma e ne porti un po’ delle tue da me?”
“Fai sul serio Nico?”
“Mai stato così serio.”

Natale è passato più indolore del solito, a casa mia nel rivalutato quartiere Isola sono entrate due chitarre e vari indumenti di Nico. Nell’appartamento di Roma di Nico, scatoloni di libri, un alimentatore per il Mac e qualche vestito.
Ci concediamo un Santo Stefano in una Fregene deserta, un aperitivo nell’unico baretto aperto vicino alla spiaggia con due bicchieri di prosecco e un tramonto che levati proprio.
Seduti nella sabbia, con i bicchieri in mano e la sigaretta, un taccuino tu e il libro di Seneca io, ci godiamo un momento tutto per noi.
Mi dai un bacio sui capelli mentre passano due ragazzini che ci urlano “A Froci!”
Mi verrebbe voglia di smontargli le piastrine dell’apparecchio con un cazzotto, poi tu mi dici “Ma che te frega…” e mi tranquillizzi.
Guardo il sole tramontare, guardo Nico. Mi sorride.
Ed è come guardare la stessa cosa.
Chiudo il libro e lo appoggio sulla sabbia e mi accoccolo con la mia testa sulla tua spalla.

“Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus.”
Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perso troppo.
Lucio Anneo Seneca, De brevitate vitae - La brevità della vita.
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