Gay & Bisex
Heimat - 5
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05.12.2024 |
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"Sebbene però il fattaccio fosse avvenuto fuori dall’anno scolastico e fuori dal liceo, la Preside venne comunque a conoscenza dei fatti, convocò in..."
In quel video poteva esserci chiunque. La risoluzione delle videocamere dei telefonini, nel 2006 era talmente tragica che davvero si potevano vedere poco più che dei pixel muoversi e delle voci in lontananza ansimare, tanto più che nascoste da un vetro.
Ma c’erano i testimoni. E quindi tutti, o comunque molti di quelli che ricevettero via MMS (che effetto anche solo scriverlo) quel video sapevano che quello a pecora sul letto ero io e che quello dietro che spingeva era Stefano.
La gente fortunatamente dimentica in fretta, avrei voluto fare coming out con gli amici diversamente, ma fatto sta che andò così e ad estate finita, al rientro in classe c’era ben altro a cui pensare.
Sebbene però il fattaccio fosse avvenuto fuori dall’anno scolastico e fuori dal liceo, la Preside venne comunque a conoscenza dei fatti, convocò in presidenza me, i miei genitori, Stefano e famiglia e soprattutto Dado Fini, reo di aver girato il video e i suoi genitori ch’erano anche quelli di Benedetta, la stronza fidanzata con Carlo.
L’ingegner Fini e sua moglie, colpevoli invece d’aver lasciato un branco di sedici/diciassettenni – ma comunque minorenni – festeggiare da soli a suon di alcoolici, droghe leggere e pure sesso, per di più omosessuale – si sentirono attaccati nella loro leggerezza di non aver sorvegliato sui figli sia dai miei genitori che da quelli di Stefano che, non paghi dell’onta subita dal video, avevano appena appreso nella maniera meno ortodossa possibile dell’omosessualità dei propri figli.
“Scopassero a casa loro sti froci, non a casa mia”, si giustificò Dado.
Prese una sberla dal padre, volarono parole grosse, la Preside sconsolata per riportare la calma sbatté un Castiglioni Mariotti sul tavolo e gridò “Silenzio!”.
Beccammo tutti e tre una punizione esemplare, per non saper né leggere né scrivere: una settimana di sospensione, che, per Dado e Stefano pesarono parecchio in quanto quell’anno maturandi.
Ma soprattutto quello che pesava era la mia coscienza.
Revenge porn prima che esistesse una definizione per qualcosa di simile.
Una vendetta che era arrivata dritta al punto, come un boomerang.
In fondo, l’avevo innescata io quella brutta situazione. Scopare con Stefano per gelosia a casa della fidanzata di Carlo era stata una mossa meschina e infantile. Ma ero solo un adolescente mosso dalla prima crisi sentimentale e da un ormone difficilmente placabile.
In qualche modo mi dispiacque pure che quel video fosse di qualità così infima, un po’ seppur vergognandomi mi sarebbe piaciuto rivedere quella scopata ch’era stata senz’altro potente, liberatoria, iniziatoria anche, volendo.
Le cose tra me e Stefano cambiarono radicalmente: era diventato difficilissimo vedersi, le famiglie erano preoccupate per noi e non ci lasciavano più liberi come prima. C’era il momento delle prove in cui provare qualche approccio. E se ci avesse visto qualcuno? Se ci avessero di nuovo filmato? Se ci avessero di nuovo fotografato? Troppo rischioso.
Fu così che oltre qualche fugace rapporto estivo, tra me e il mio primo fidanzatino non accadde più nulla di fisico, non ci andava nemmeno più di baciarci sebbene ormai la relazione fosse alla luce del sole. E così, vuoi o non vuoi gli incontri si diradavano sempre di più, l’ardore dei sentimenti – semmai davvero ce ne fossero stati, chi può dirlo? – s’affievolì anch’esso e finimmo per lasciarci definitivamente qualche giorno prima delle vacanze di Natale di quell’anno.
Negli stessi mesi, Carlo non se la passava certo meglio, la sua relazione con Benedetta (ma che io chiamavo sovente Maledetta), aveva subito loro malgrado il contraccolpo di quella storia del video.
Carlo la prese malissimo, era pur sempre il fidanzato della sorella di chi aveva girato quel contenuto osceno e per lui, sebbene non fosse un prodigio nel dimostrarlo, ero ancora un amico. Il più caro, forse l’unico. Quello che l’ha abbracciato nella notte più terribile della sua vita, quello che – anche se era difficilissimo, quasi impossibile ammetterlo – avrebbe avuto tanta voglia di baciare durante quella sega a vicenda nel suo letto e che la sera del ballo della scuola avrebbe invitato a ballare.
“Dio, ma che cazzo mi viene in mente? Ma che cazzo sto pensando?”, si ripeteva tra sé quando il mio pensiero gli faceva capolino nei ricordi di quella serata di festa. Si ricordava dei miei capelli spettinati, della cravatta allentata e la camicia un po’ aperta, dei miei occhi tristi e spenti dai troppi shottini di vodka alla pesca buttati giù come i malumori di quel periodo.
“Se solo mi fossi comportato meglio, forse a Chicco gli avrei evitato tutto questo”. Eccolo il pensiero ricorrente, la goccia che scava una galleria senza fine, piano, con un solo clic alla volta.
A parole li aveva perdonati Dado e Benedetta, ma nei fatti non ci era tanto riuscito.
Finì così a trattare quella ragazza come si tratta un oggetto tanto desiderato e poi buttato lì, in un cassetto a marcire di nostalgia, a infeltrirsi dell’odore di chiuso nella speranza di ritornare chissà, un giorno, ad essere la cosa preferita.
Benedetta sperava e sperava, ma quel giorno tardava ad arrivare e più Benedetta cercava di recuperare, più Carlo sembrava naufrago in un altro lontanissimo oceano. Acque in cui lei non solo non sapeva nuotare ma che non avrebbe mai nemmeno saputo raggiungere.
Scopavano, quello sì. Lei, prodigandosi in tutte le fantasie erotiche possibili ed immaginabili pur di elemosinare un’attenzione distratta, arrivò persino ad offrirgli il culo. Carlo, invece, scopava di malavoglia, giusto perché oh, insomma, a sedici anni il cazzo è sempre duro e bisogna svuotarlo, no?
Ma di Benedetta ormai non gli fregava più niente, anzi, gli suscitava quasi fastidio.
Finché una sera, verso la fine dell’anno scolastico, Benedetta all’apice della frustrazione confessò. Sì, era stata lei ad accorgersi per prima che io e Stefano stavamo scopando sul suo letto e sì, era stata lei a chiedere al fratello di filmarci per sputtanarmi per bene. Era gelosa, terribilmente gelosa.
Gelosa perché capiva che a Carlo mancavo, che avrebbe voluto passare più tempo con me. E invece no, quel ragazzo era cosa sua. E se con le altre ragazze era un trofeo da esibire un fidanzato così, e quelle cagnette avrebbero solo potuto guardare ed invidiarla, ma senza mai il coraggio di allungare le zampe scondinzolando, con me era inevitabilmente diverso. E quella sera, quella della festa, Benedetta se ne accorse benissimo. Le bastò intercettare uno sguardo: quello di Carlo, che lei uno sguardo così non lo aveva mai avuto e il mio, di rimpallo, implorante di una mano tesa e di una sola, stupidissima domanda: “Balliamo?”.
Io quell’estate, quella del 2007, la passai in vacanza al mare coi miei in Riviera, finalmente degno della mia libertà personale, così faticosamente riconquistata. Potevo tornare finalmente a girare con la Vespa da solo per poter incontrare gli amici. E non solo.
Quell’estate, infatti, durante una partita a pallavolo al Bagno Mariele, conobbi Matteo.
Alto, bello, più grande di me, con i capelli castani e gli occhi azzurrissimi e un filo di barbetta.
Ci bastò uno sguardo a capirci, mi invitò a mangiare un gelato dopo il mare, poi seduti su un pedalò immaginammo il tramonto, perché in Riviera non si vede mai. Disegnavamo con gli indici città oltre gli scogli, oltre le piattaforme petrolifere, oltre il mare. Chissà se c’erano altri ragazzi come noi dall’altra parte del mare, seduti su un altro pedalo ad aspettare che facesse buio mangiando un gelato?
Il buio ci trovò vicini e con le labbra che sanno ancora di sale scattò il primo bacio, poi due, poi cinque, undici, centotrentasei che poi alla fine chi cazzo li conta i baci? Non riuscivamo a staccarci e quando lo facevamo era per ridere e ricominciare.
Cominciava a fare freddo e mi propose un giro in Pineta, magari avremmo potuto fare qualcosa di più di baciarci.
Non potevo desiderare di meglio. Raggiungemmo di corsa la sua Polo nuova di pacca, regalo della maturità appena conclusa con 110 e lode, e lì una volta raggiunta la pineta coi suoi silenzi e le sue ombre, ci abbandonammo al ritmo del successo dell’estate.
“Bruci la città e crolli il grattacielo, rimani tu da solo nudo sul mio letto”, cantava Irene Grandi mentre le lingue si incrociavano, le mani perquisivano i nostri corpi, le dita sbottonavano quella camicia Ralph Lauren turchese a righe bianche e la mia t-shirt bianca volava sul cruscotto per poi atterrare sui tappetini. Il segno dell’abbronzatura faceva capolino da sotto il costume da bagno che scese con un colpo solo. Ne uscì un bel cazzone, decisamente più lungo di quello di Stefano, forse un po’ più fine di spessore ma che importa? Guarda che bello che è Matteo, è un semidio. Seminudo. Qui per me.
Muoia quello che è altro da noi due, almeno per un poco, almeno per errore. Le parole si fanno mantra mentre quella Polo è come immersa nell’iperspazio ed io chino prendo in bocca il cazzo di Matteo, che brancola nel buio svaccato di tre quarti sul divanetto posteriore, geme, dice frasi sconnesse: “Mi fai impazzire porco***” quella che ripete più spesso quando la punta del mio naso arriva a toccare il suo pube e il suo cazzone mi è tutto in gola. Si strofina la faccia con le mani e strabuzza gli occhi, basta altrimenti vengo, cazzo.
E allora mi adagio su di lui, a baciargli il collo e mordergli le orecchie. Lui mi afferra per il collo, mi porta le labbra sulle sue e mentre mi palpa il culo e il dito indice va a perquisire il solco delle mie chiappe, mi bacia con una foga incredibile, perdiamo la cognizione del tempo e chissà che ore sono e dove siamo e in che galassia la Polo sta viaggiando, e tutti quei ragazzi come te non hanno niente, come te ed io non posso che adorare, non posso non leccare questo tuo profondo amore. “Girati”, non è una domanda, è un ordine. E questo mi fa impazzire di Matteo, come sa farmi fare quello che vuole esattamente quando vuole. È un ordine ma non è mai coercitivo, mi fa fare esattamente quello che voglio quando sente che sono pronto a darglielo ed è esattamente quello che vuole lui.
Lo rassicuro sull’averlo già preso, anche se ormai è passato un anno dall’ultima volta.
“Faccio piano, promesso”. E il ragazzo è di parola. Prima mi mangia il buco con la lingua, poi tira fuori il preservativo dal suo involucro, lo infila ed entra con estrema dolcezza dentro di me. Basta il tempo di acclimatarsi al nuovo invasore delle mie interiora che quell’estrema dolcezza a me comincia a non bastare più e in un nonnulla lascia il posto a quel vigore che caratterizza una vera scopata, una vera monta.
La mia faccia schiacciata sul finestrino leggermente aperto per far passare un po’ d’aria implora tutte le divinità di tutte le religioni esistenti di fermare il tempo a quell’attimo di piccola, effimera, misera felicità che mi riempie il corpo e la mente.
La preghiera però non è stata ascoltata.
“Sto per venire, dove vuoi che ti sborri?”
"In faccia" rispondo senza nemmeno pensarci e mentre uno schizzo colpisce la tappezzeria del pannello porta posteriore, altri cinque o sei schizzi colpiscono il mio viso. Dopo una ripulita veloce con le salviette umidificate, scendiamo dall’auto ancora mezzi nudi e fumiamo una sigaretta appoggiati al cofano.
La radio ha cambiato canzone varie volte, ora passa i Delta V.
“Un’estate fa non c’eri che tu, ma l’estate somiglia a un gioco: è stupenda ma dura poco.”
Dall’altra parte di un altro mare, in Costa Smeralda, la stessa canzone esce dalla radiolina della camera della di Carlo, in villeggiatura nella casa al mare di sua madre. Dentro la sua camicia bianca guarda malinconico la foto di classe dove siamo ai due lati opposti e su una cartolina a me indirizzata scrive: “Hello Bastardo, ci vediamo a settembre”.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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