Gay & Bisex
L'amore e la violenza - 1986
di HegelStrikesBack
17.01.2022 |
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"Il figlio dell’avvocato Danese che fa pompini per soldi..."
L’11 febbraio del 1986, non avevo ancora compiuto 22 anni eppure ero già riuscito a farmi sbattere fuori di casa. Circa un anno prima c’era già stata una litigata furibonda tra me e mio padre: avevo speso 750.000 lire della cospicua paghetta che mi veniva elargita per comprarmi un abitino da cocktail di Thierry Mugler in paillettes argentate. Dio quanto mi piaceva! Lo avevo visto in vetrina da Rivola, in Piazza Dima. Dovevo averlo. Lo comprai e in omaggio presi anche una serie di schiaffi da mio padre. Mi diede dell’invertito, del malato, del ricchione. E sa perché? Perché mi mettevo un vestito di paillettes per stare in camera mia la sera a fare il karaoke delle canzoni che mi piacevano davanti allo specchio.
Disse che non avrei avuto più un soldo finché non avessi ripreso uno stile di vita moralmente retto e consono al figlio di un avvocato dei più rispettabili e in vista della città, come quello di mio fratello Nicola. Il quale non ebbe mai una parola fuoriposto nei miei confronti. E la sera degli schiaffi si limitò a venire in camera mia ad abbracciarmi e a dirmi, non senza una certa fatica, che mi voleva bene così com’ero. Fu un sollievo ma i soldi mi servivano. Decisi dunque di investire su di me e mi feci imprenditore di me stesso. E diventai un marchettaro.
Sì, sì ha capito bene. Il figlio dell’avvocato Danese che fa pompini per soldi.
Tanti soldi per dirla tutta. Il primo a cadere nella trappola fu il Notaio Gualandi, che proprio di fronte a Rivola aveva lo studio notarile. Di lui si diceva che avesse vizi privati e pubbliche virtù. Non fu difficile irretirlo. Bastò prendere due aperitivi nel bar sotto il suo studio, ostentando il mio lato femminile. Cominciammo a vederci di nascosto. Io mi parcheggiavo con l’auto in Viale Cagliari, lui mi passava accanto con la sua Jaguar bianca, mi dava un colpo di fari ed era il suo segnale per dirmi di seguirlo. In circa quindici minuti arrivavamo dietro ai cantieri nautici ormai abbandonati, dove possedeva una rimessa invernale per il suo Yacht. Il posto perfetto per non essere visti da nessuno. Il Notaio Gualandi era tanto brutto quanto generoso, assomigliava a… si ricorda quel comico pugliese, quello delle orecchiette con le cime di rapa, scusi se non mi ricordo il nome ma ho sempre trovato la televisione così volgare da essermi insostenibile… ad ogni buon conto lui ecco. Un uomo viscido, dalle mani piccole e sempre sudaticce, mani che bramavano le mie terga più di qualsiasi altra cosa al mondo. Il mio culo era il suo panorama preferito. C’era un tavolo in quel capannone, io mi ci mettevo a pecora sopra, coi pantaloni calati, offrendogli così la sua mezz’ora di paradiso.
Lo ammirava, spalancava le chiappe, leccava il buchino, ci infilava quelle ditacce umide, una volta volle persino che gli scoreggiassi in volto, mi scusi la volgarità, ma tant’è… io ero sconvolto ma pensavo a tutto lo shopping che ciò mi permetteva e per un cappotto doppiopetto di Christian Dior avrei fatto questo e molto altro.
Quando finiva la sua perlustrazione, il giro turistico del mio deretano, tempo tecnico necessario ad avere un erezione degna di tale nome, mi penetrava. Tutto sommato per l’età che aveva il notaio se la cavava ancora bene, parliamo comunque di un uomo di 65/68 anni più o meno… aveva un bel pisellotto a fungo, di quelli con la cappella più grossa del tronco. Era molto dolce nella penetrazione, sempre educato, impostato come in tutte le altre sue azioni. Avevo la sensazione che neanche nel sesso riuscisse più di tanto a sbloccarsi.
Un paio di incontri a settimana con lui mi garantivano un conto aperto da quasi due milioni di lire al mese da Rivola, di cui ero diventato affezionato cliente. A volte poi, era lui a passare in negozio a comprarmi qualche regalo costoso che amava vedermi togliere. Cominciammo dopo qualche mese il gioco dello strip-tease. Mi comprava vestiti molto audaci: camicie in pizzo, pantaloni aderenti in pelle, shorts inguinali e lo eccitava immensamente vedermi spogliare in maniera così femminile fino a poi mostrargli in stato di semierezione il mio membro così grosso e maschile. Lo faceva impazzire questo mio essere contemporaneamente così maschile e femminile nei modi. Cominciò a volere anche le coccole, i baci… sono passati più di trent’anni ma ricordo ancora il disgusto che provavo a quelle sue richieste, peggio di quello che avevo quando mia nonna preparava il cervello fritto, quindi decisi di alzare il tiro. La faccia come il culo l’ho sempre avuta. Bellissimi entrambi, a dirla tutta. Per le coccole chiesi un supplemento. Il notaio impallidì. Gli costavo già una fortuna, avevo un guardaroba che neanche Madonna. No, no. Non volevo soldi da lui. Volevo altri clienti. Che mi dessero altri soldi, naturalmente. Mi raccontò allora del “Sassofono blu”, un night club che aveva aperto l’anno prima sulla provinciale da Notori a Pontinello. Ne avevo sentito parlare ma non sapevo di cosa si trattasse. Mi disse che era frequentato da gente facoltosa, soprattutto della ricca provincia, magari non gente elegante ma gente sicuramente danarosa, disposta a spendere patrimoni per alcool, droghe, gioco d’azzardo e ragazze o ragazzi come me. Mi sembrava l’assist giusto. Feci il mio dovere. Lo baciai, gli sbottonai la camicia, gli leccai un po’ i capezzoli, scesi sempre più giù fino al suo membro, succhiai con la diligenza della brava cagna di famiglia e poi mi feci sborrare in volto. Mi guardò dicendomi “Sei un angelo” e cominciò a leccare via lo sperma dalla mia faccia. Qualche settimana dopo interrompemmo bruscamente i rapporti: la signora Gualandi, quella vera, era andata a comprare un tailleur di Chanel da Rivola per la laurea del figliolo e una commessa sprovveduta, che ora immagino pulisca le scale al Burghy della stazione centrale di Notori, chiese se quell’acquisto fosse da mettere sul conto del Notaio. A-pri-ti-cie-lo! Mise su un teatro incredibile fino a scoprire, non so come - probabilmente da qualche viperella linguacciuta del negozio - che la bella bionda che faceva acquisti con i soldi del marito ero proprio io. Telefonò a mio padre, cieca dalla rabbia. Il quale senza battere ciglio mi sbatté fuori di casa per la vergogna. Ebbi a malapena tempo e modo di mettere tutti i miei vestiti dentro le valigie e di caricarli sulla Dyane. Non sapevo nemmeno dove andare a dormire. Mi ospitò per qualche settimana un amico del liceo, centravanti della squadra calcistica del Notori. Dovevo andarmene in fretta, per poter riavere la mia vita e farla pagare a mio padre.
Con questo non pensi che la mia relazione con Bernardo sia stata una ripicca, no no. È stato amore vero.
Mentre vivevo da Saverio, il calciatore, a cui pagavo la mia permanenza offrendo la mia bocca e il mio culo secondo necessità, cominciai a frequentare il “Sassofono blu”, come mi aveva indicato il Notaio Gualandi.
Venni a conoscenza della loro serata di carnevale. I buttafuori - come li chiamavamo allora - non facevano entrare nessuno se non perfettamente vestito e agghindato per la serata. Dovevo inventarmi qualcosa di grandioso per mettere in mostra le curve e le gambe da soubrette per invogliare qualcuno a pagare profumatamente per la mia compagnia. Era l’occasione perfetta. Indossai quel body nero di Azzaro che avevo comprato per andare a danza, un paio di scaldamuscoli neri, arricciai i capelli ed ecco a voi direttamente da Flashdance Alex Owens. Però biondo e con venti centimetri di tarello tra le gambe. Un trucco leggero, appena accennato ed ero pronto. Saverio rientrò da un allenamento appena finito di prepararmi. Mi guardò, mi fece fare una pirouette, mi baciò e mi disse: “Cazzo che voglia di sborrarti su quel body nero..."
“Ehi, ehi… vacci piano maschione, nessuno pagherebbe per una puttana già sborrata, devo arrivarci like a virgin… touched for the very first timeeeee…” canticchiando imitai Madonna. La sua erezione premeva sotto i pantaloni della tuta, la sfiorai con le dita.
“Dai, per favore… fammi contento, succhiamelo prima di uscire…” mi implorò Saverio.
“E va bene, va bene… ma se mi sporchi… porco*** se ti ammazzo!”
“Basta che ingoi senza fare storie, zoccolona che non sei altro…”
Mi prese in braccio e mi lanciò sul divano, poi mi venne sopra. Gli calai i pantaloni della tuta in acetato, estrasse la verga dura e pronta all’uso e me la mise in bocca facendomi praticamente le flessioni sulla faccia. “Ti piace così eh, puttana? Dai, succhiami il cazzo troia di merda…” S’impegnava tantissimo nel compiacermi con questo linguaggio volgare che tanto mi eccitava, ma so che quelle parole gli costavano davvero care. Era pazzo di me, questa cosa che io mi prostituissi per altri lo mandava fuori di testa. Lo avessero pagato abbastanza mi avrebbe mantenuto lui, mi avrebbe salvato lui. Ma io non volevo avere chi mi salvasse. Volevo salvarmi da solo e già questo era un ottimo motivo per andarmene in fretta da quella casa. Era eccitatissimo Saverio, sentivo la sua asta pulsare nella mia bocca. Vedermi così, in quella tutina così stretta che mi fasciava ogni singolo muscolo e ogni singola curva del culo, dei fianchi e del cazzo lo aveva mandato in estasi. Venne in pochi minuti dentro la mia bocca e ingoiai alla svelta, avevo un obiettivo quella sera: avere nuovi clienti. Anche perché quell’arpia della signora Gualandi oltre a farmi cacciare di casa mi aveva lasciato senza un soldo per lo shopping e quello era un affronto intollerabile.
“Ivan, sei sicuro che non vuoi che ti accompagni? Non è che ti ficchi in qualche casino vero?” “Io spero che qualche casino me lo ficchino… su per il culo però.”
Mi guardai ancora nello specchio. Ero veramente bellissimo come dicevano tutti, beh, molto diverso da come mi vede adesso… sa, gli anni che passano, i dolori, la malattia… il corpo cambia. Ma allora no, allora ero uno schianto. Un vero schianto. Alto un metro e ottantacinque, pesavo meno di sessanta chili. E che gambe che avevo. Saverio diceva che quando ballavo sembravo la Parisi. Alta, bionda, con quelle gambe strepitose. Mi resi conto che la bellezza è un privilegio e come tale non è per tutti. E da quella sera nemmeno io lo sarei più stato.
Circa 30 chilometri separavano casa di Saverio dal “Sassofono blu”, locale da poco inaugurato e con un simpatico nome omaggio alla hit di Nada “Amore disperato”: io li percorsi cantando come una pazza le canzoni di Grace Jones che uscivano dal mangianastri della mia Dyane. Arrivato al “Sassofono blu” i buttafuori mi fecero entrare sgranando gli occhi, probabilmente non avevano mai visto una creatura simile entrare.
Non era ancora tardissimo e non s’era fatta ancora tanta gente quindi riuscii ad accaparrarmi un cubo senza grosse difficoltà. Avevo gli occhi di tutti addosso, alcuni si chiedevano se fossi maschio o femmina, altri si avvicinavano per accertare, molti mi volevano e basta. Fu in un movimento di testa che lo vidi, seduto su un divanetto di pelle nera di una volgarità disarmante. Con lui c’erano altre persone. Cinque forse, o anche di più, forse sette chi si ricorda.
Indossava un completo grigio scuro a quadri e un lupetto nero. Carnagione scura, occhi neri come la notte più buia. Capelli ricci un po’ lunghi. Fumava.
I nostri occhi si incrociarono, prese una flûte di champagne e la portò verso la bocca per bere. I miei movimenti rallentarono. Mai avevo desiderato qualcosa così ardentemente come di essere quel bicchiere o quella Nazionale senza filtro ed avvicinarmi a quelle labbra. Accentuai ogni movimento, ogni gesto. Sembrava ballassi al rallenty.
Non mi toglieva gli occhi di dosso, s’avvicinò all’orecchio di un altro ragazzo. Col tempo avrei imparato che era suo fratello Donato. Gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, Donato s’allontanò.
Dopo quattro o cinque canzoni ancora scesi dal cubo, per andare in bagno a sistemarmi il trucco e bere qualcosa.
Mi chiamarono dal bar con un cenno.
M’avvicinai scocciato, che cazzo volevano? A me, con un cenno? Volgari. Cosa sono? Un cane?
“Beh? Che c’è?”
“Il signore là in fondo avrebbe piacere di averla ospite al suo tavolo.”
Mi girai e Bernardo, per la prima volta, mi salutò alzando verso di me la flûte di champagne.
“Grazie. Ci porti un Dom Perignon per favore. Ho la gola secca.”
Percorsi i venti, forse quindici, metri che ci dividevano col cuore in gola.
Era sicuro di sé, rideva con gli altri, beveva e fumava e mi sembrava così diverso. Incarnava tutti i vizi delle cattive compagnie che per anni mi avevano insegnato a non frequentare. E invece eccomi qui, praticamente seduto sulle sue ginocchia al tavolo di un night club dove non ero mai stato con gente che non avevo mai visto.
Scolammo il Dom Perignon molto velocemente, il volume della musica non permetteva grandi conversazioni.
Gli amici mi guardavano con un misto di stupore, ammirazione e curiosità: magari ero il primo ragazzo che veniva invitato a quelle serate. Bernardo non sembrava il tipo che va a uomini.
Si avvicinò, il suo naso sfiorava le mie orecchie, le labbra vicinissime ai miei lobi adornati dalle anelle dorate.
“Ti va di bere qualcosa in un posto più tranquillo?”
Mi limitai ad annuire e la sua bocca così bella e virile si schiuse in un sorriso che aveva qualcosa di diabolico.
Recuperammo i cappotti al guardaroba e uscimmo nel parcheggio.
Ci guardavano tutti, la diva e il delinquente.
Con garbo e forza al contempo mi sbatté contro la portiera della sua Maserati.
“Ti voglio.”
“Anche se non ho le tette? Anche se ho l’uccello?”
“Sì, ma senti che culo che hai…” rispose ridendo e palpandomi.
“…dai, seguimi.”
Non fu facile seguire una Maserati con una Dyane ma feci del mio meglio.
Bernardo viveva alle porte della città, in un comprensorio privato chiamato “Lo Zodiaco”, molto amato dalle personalità in vista di Notori. Ci fermammo davanti a una villa in beton brut, il classico esempio di brutalismo post-razionalista tanto in voga in quegli anni.
Non appena scendemmo dalle automobili, Bernardo mi prese in braccio e mi portò dentro casa. Io, ubriaco e garrulo, sgambettavo implorando di mettermi giù. Lui rideva perché sapeva benissimo che mi piaceva stare in braccio a lui.
Mi mise giù una volta entrati in casa, riempendomi di baci sul collo. Mi prese il cappotto in volpe che indossavo per coprire il body, scese i due gradini che dividevano l’ingresso dall’ampio salone e con fermezza e bramosia mi ordinò di spogliarmi per lui.
Quanti strip-tease che avevo fatto davanti allo specchio, immaginando di spogliarmi per un uomo come lui. Ci misi tutto me stesso. Impiegai un tempo eterno a levarmi i quattro indumenti che avevo addosso, un tempo infinito fatto di gesti enfatizzati all’ennesima potenza. Lui, sul divano s’era tolto la giacca e sbottonato la camicia e mi guardava inebetito toccandosi il pacco. Un defilé in punta di piedi come se avessi i tacchi addosso mi portò fino a lui, gli montai sopra a cavalcioni e gli sussurrai all’orecchio “…e adesso?”
“E adesso ti sfondo, puttana.”
Si rivelò di parola. Non si spogliò nemmeno. Tirò solo fuori il cazzo già durissimo dai pantaloni. Nella penombra non lo vedevo benissimo ma sembrava davvero grosso. Mi sdraiò sul divano a pancia su, mi divaricò e alzò le gambe. Sputò sulla cappella e me la infilò tutta dentro in un colpo solo. Sentii mancare l’aria, come quella volta che alle scuole elementari un mio compagno così piccolo e già bullo mi strizzò le palle fortissimo per vedere se le avessi o meno e urlando a tutti “È una femmina, non le ha le palle”. Il dolore di quella penetrazione mi destabilizzò ma si trasformò in pochi istanti in piacere. La luce che filtrava dalle enormi vetrate del salone mi permetteva di godermi come in cinemascope tutte le sue infinite espressioni di piacere. Ero in estasi. Un’estasi che non durò però tantissimo.
Bernardo emise un grugnito e venne copiosamente dentro di me.
Si ri-infilò il cazzo nei pantaloni e andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua e prepararsi una striscia di coca.
Mi rivestii, per quel poco che indossavo, e lo raggiunsi.
“Ne vuoi un po’?” chiese smascellando.
E io, ingenua, non capivo se si riferiva all’acqua o alla cocaina.
Nel dubbio accettai entrambe, lui rise perché si vedeva lontano un chilometro che non avevo mai pippato in vita mia.
Imparai in fretta, ad ogni modo.
Chiacchierammo, mi chiese che cosa facessi nella vita. Bella domanda, non lo sapevo neanche io in realtà. Frequentavo un corso di conservazione e restauro dei beni culturali e poi facevo danza. E amavo lo shopping. E il mare.
Lui con tutta la tranquillità del mondo mi disse che si occupava di import-export. La verità è che era un contrabbandiere di sigarette, ci volle poco a estorcergli la confessione. Era più grande di me, avevamo dieci anni di differenza, eppure parlavamo di tutto. Io ero a mio agio con lui e lui con me.
Mi chiese se avessi freddo e mi prestò un suo maglione. Poi accese il camino nel centro della stanza. Rimasi a dormire con lui, in quella villa spoglia e dalle architetture rigorose e sicure.
Cominciò così la nostra routine di incontri notturni: ci vedevamo alla villa tutte le sere tranne il lunedì, il giovedì e il sabato. Il sabato perché ci trovavamo direttamente al “Sassofono blu”, passava la sera a vedermi ballare poi mi portava a casa e scopavamo. Il lunedì e il giovedì invece erano le serate che dedicava alle bionde.
Quando me lo dissi andai su tutte le furie. Non avrei accettato di dividere quel ragazzo con nessuno, tanto meno con delle bionde!
Ingenuo che ero… le bionde erano le sigarette che Bernardo e i suoi fratelli Donato e Ruggero importavano dalla Grecia. La rabbia cedette il passo alla preoccupazione. Non sapevo bene quali fossero le esatte dinamiche di quelle operazioni ma sapevo che erano rischiose. Quelle notti non dormivo, le passavo sveglio sperando di ricevere al mattino una telefonata di Bernardo. In più vivere a casa di Saverio mi metteva sempre più a disagio: Saverio era sempre più innamorato di me, voleva fare sempre più spesso sesso e io ero sempre più innamorato di Bernardo. Una sera di luglio gli confessai tutto: che Saverio era innamorato di me, che facevo sesso con lui per non pagare l’affitto e che io amavo però lui: il mio Bernardo. Gli dissi che non me ne fregava niente se era un contrabbandiere, se la nostra vita sarebbe stata sempre difficile. A me bastava che fosse insieme. Gli occhi scuri di Bernardo baluginavano nel buio. Mi prese il viso tra le mani e per la prima volta nella sua vita, Bernardo disse ad un altro essere umano quelle due parole così difficili: ti amo.
Si sentì felice, libero come quando da piccolo lui e i suoi fratelli volavano dietro a un pallone leggeri come stracci nel cortile di quelle case popolari di via Genova dov’erano nati. M’invitò a salire in macchina, andammo a casa di Saverio a recuperare le mie cose e mi trasferii ufficialmente da lui.
Il lunedì e il giovedì sera guardavamo insieme la televisione sul divano, poi gli preparavo un caffé e fingevo di andare a dormire nella nostra stanza, al primo piano della villa. Da lì guardavo i lampioncini riflettere la loro luce biancastra sulla lama d’acqua della piscina in giardino. E speravo che altrettanto piatto, ogni notte, fosse il mare fuori dal porto di Morea.
Quando sentivo il motore della Maserati nel vialetto della villa, mi rimettevo velocemente nel letto fingendo di dormire. Bernardo entrava piano: le sue mani e la sua bocca sapevano di mare e di sale. “Sono a casa” sussurrava dandomi un bacio sui capelli. Io emettevo un suono, un mugolio quasi infastidito per essere stato disturbato poi, dopo che si era fatto la doccia ed era entrato nel letto, mi addormentavo davvero.
[Continua]
Disclaimer: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a luoghi e persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale e frutto della fantasia dell'autore.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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