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Gay & Bisex

Heimat - 3


di HegelStrikesBack
05.07.2024    |    7.730    |    12 9.8
"“Ti ho visto come mi guardavi l’altro giorno alle prove, speravo proprio di non sbagliarmi su di te” “Ti guardavo perché sei bono” “Ho voglia di una..."
Il secondo quadrimestre, nostro malgrado, volò.
E un sacco di cose a ben vedere cambiarono: il rapporto tra me e Carlo subì una brusca frenata, dovuta anche all’entrata a gamba tesa di Benedetta che era gelosissima del tempo che io passavo con il suo fidanzato e che forse sospettava pure qualcosa. Fatto sta che i pomeriggi di studio con Carlo diventarono sempre meno, fino a non esserci quasi più, a ricreazione appena suonava la campanella volava a tubare con quella là, così perfetta, così noiosa. I jeans della Cycle, gli UGG marroncini, il piumino Moncler in tinta tenue, la coda alta. Un tono di voce pacato, mai una parolaccia, sempre sorridente, la più brava della classe. Carlo si era proprio rincoglionito dietro di lei e io ero rimasto al palo. Fui sciocco, non rivendicai i miei diritti di amico e semplicemente lo lasciai andare, troppo orgoglioso per mostrarmi ferito e geloso, troppo stupido per non affrontare la cosa con maturità. Santa Valeria subito se ne accorse e mi fece il cazziatone, lo avrebbe fatto anche a lui se solo avesse avuto più confidenza, ma, ahimè, fui l’unica vittima della sua sincerità e del suo buonsenso. Mi consigliò di trovarmi, almeno, un hobby, una distrazione, se non un fidanzato.
Non aveva tutti i torti. Ci avrei pensato dopo la gita scolastica, che quest’anno prevedeva cinque giorni in Sicilia sulle tracce della civiltà greca. La cosa ancora più eccitante di questo viaggio è che, essendo noi della sezione “B” stati accoppiati con la sezione “A”, almeno per quei giorni avrei, se non recuperato un po’ di rapporto con Carlo, avuto il privilegio di avere davanti quella faccia da stronza di Benedetta.
Atterrito dalla paura di volare, una volta saliti sul volo Alitalia in direzione Palermo Punta Raisi, cercai di guadagnarmi immediatamente un posto finestrino: almeno avrei visto dove - nella mia testa - saremmo precipitati.
“Posso?”
“Sì, certo, accomodati”.
Carlo si sedette nel posto centrale accanto al mio con il sorriso smagliante di sempre, come se nulla fosse successo. Fu difficile rimanere impassibili, ma ero arrabbiato e quindi di certo non avrei fatto finta di niente.
Al di là di Carlo si sedette il professor Cova, che neanche il tempo di allacciare le cinture s’era già addormentato.
Nel momento del decollo, con la mano destra ficcai le unghie dritte nella similpelle che foderava il bracciolo, con la sinistra stritolai la mano del povero Carlo, che, mosso a compassione per il mio terrore, non ebbe l’ardire di emettere un solo fiato nonostante la mano bordeaux.
Durante il volo che mi parve eterno, Carlo tentò più volte di attaccare bottone con frasi di circostanza a cui vennero date risposte monosillabiche. Una in particolare fu particolarmente fuori luogo.
“È da tanto che non parliamo un po’ noi due”
“Di certo non per colpa mia”, risposi voltando le pagine della copia di Vanity Fair che avevo acquistato in aeroporto.
Carlo, colpito e affondato, capì che non era cosa, che un bel tacer non fu mai scritto e forse un po’ si pentì pure dell’idea di sedersi accanto a me. Arrivati a terra ci aspettava un pullman che ci avrebbe portati in giro per l’isola, nel terrore che Carlo potesse non aver capito la poca voglia che avevo di parlare con lui presi la Vale per mano e la piazzai nel sedile accanto a me come fosse stata un Furby.
Cenammo a Palermo e poi ci dividemmo le stanze, che sarebbero rimaste le medesime per tutte le vacanze. Cova, stentoreo, annunciava le triplette e le coppie come si annunciano gli abbinamenti della Champions League, nel malcontento generale perché non ci fu una coppia contenta di essere messa insieme, compresi Enrico Taramelli e Carlo Carano, che eravamo noi appunto.
Mi limitai a sbuffare e a fargli un cenno del capo come dire “andiamo”.
Arrivati in stanza, una stanza di una bruttezza rara, con un bagno dalla luce deprimente e un letto che urlava “acari” con tutta la voce che - in quanto inanimato - non possedeva, Carlo ruppe il silenzio.
“Non ti vedo contento di stare con me. Ma non eravamo amici noi due?”
“Potrei farti la stessa domanda. Non eravamo amici noi due?”
“Ma lo siamo ancora, per me lo siamo sempre stati”
“Ah si!? E allora perché non ci vediamo mai, non ci sentiamo mai, a ricreazione non facciamo mai merenda o pausa sigaretta insieme?”
“Eh Chicco, lo sai che mi sono fidanzato con Benedetta, cerco di stare con lei il più possibile. Mi piace tanto, penso di essere innamorato…”
“E Benedetta è gelosa. Perché ovviamente non sarai riuscito a tenerle un segreto immagino…”
Carlo, colpevole, si guardò la punta delle All-Star per non guardare me, si contava le parole in tasca, sperando fossero quelle giuste, poi con la voce come dietro a un vetro disse:
“Non mi va di dirle bugie o tenerle nascoste le cose. Scusami.”
“Carlo, ma vaffanculo!”
Sbattei la porta del bagno, accesi la doccia e mi feci un pianto mentre Carlo bussava e chiedeva di entrare per parlare. Uscii già col pigiama che mi ero portato in bagno, mi infilai nel letto, spensi la luce e mi girai con la faccia verso l’armadio.
Da quel momento fino a fine gita calò il gelo più totale.
Al rientro, seguii il consiglio della Vale, mi trovai un hobby. Lessi che la band della scuola cercava un nuovo tastierista per l’anno scolastico successivo visto che l’attuale era uno dei maturandi. Feci domanda, fui provinato dal resto della band e, infine, scelto.
La formazione era basica: basso, batteria, due chitarre e una voce femminile, più, appunto, un tastierista.
Erano tutti carini ma uno di loro lo era più degli altri. Si chiamava Stefano, era del terzo anno e suonava la batteria.
Avevo già avuto modo di sentirlo suonare all’Open Day e cazzo, era davvero di un livello nettamente superiore agli altri. Nella band era una sorta di leader, ma nel senso buono del termine: era il più preparato tecnicamente ma anche quello che sapeva fare da collante tra i membri del gruppo. E poi era bello, con la carnagione olivastra, gli occhi verdissimi, il viso squadrato e una bella muscolatura che emergeva dalle t-shirt sempre un po’ attillate che indossava. Si dimostrò immediatamente molto predisposto nei miei confronti, di una gentilezza disarmante, offrendosi di aiutarmi a studiare i pezzi durante i pomeriggi estivi, che tanto fino a fine luglio la scuola era comunque aperta e si poteva usare il laboratorio di musica in accordo con la Dirigente Scolastico. L’idea mi parve molto valida. Avrei avuto modo per approfondire la conoscenza e forse anche togliermi un dubbio, perché se è vero che il simile riconosce il simile, come avrei imparato da Empedocle due anni dopo, Stefano poteva benissimo essere gay. Se solo ne avessi conosciuti altri a parte me forse avrei avuto più intuito. Nel frattempo si svolse anche la festa di fine anno, tutti tirati in ghingheri, con la bella abitudine, molto americana invero di invitare un principe o una principessa al ballo. Carlo naturalmente invitò Benedetta e io invitai la Vale: ognuno fa con quel che ha.
Quella sera Carlo era bellissimo, con il completo blu, la camicia bianca e la cravatta. Non lo avevo mai visto elegante ed era davvero un gran bel vedere. Si beveva, si fumava, suonò prima la band della scuola e poi ci fu un dj-set. Al solito per far limonare un po’ la gente il deejay mise su un lento. Un ragazzo di seconda chiese il ballo alla Vale a cui non parve vero di limonare uno più grande ed io, da bravo adolescente sfigato, rimasi a guardare.
Per un attimo i miei occhi incrociarono quelli di Carlo, rimase un attimo impietrito. Lo guardai involontariamente implorante di un ballo insieme per un secondo che fu capace di durare un’eternità. Benedetta riprese il controllo della situazione e strattonando per un braccio Carlo lo portò a ballare. Andai a farmi un altro gin lemon, il quarto della serata, e poi andai a pisciare. Dal cubicolo davanti a cui attendevo uscì Stefano. Camicia bianca un po’ aperta, occhi truccati. Anche lui ubriaco. Lo guardai come una troia affamata.
Resosi conto che non c’era nessuno intorno, mi spinse dentro il cesso, chiuse la porta e mi mise la lingua in bocca.
Non avevo mai limonato ma il ragazzo era esperto e bastava lasciarsi guidare.
“Ti ho visto come mi guardavi l’altro giorno alle prove, speravo proprio di non sbagliarmi su di te”
“Ti guardavo perché sei bono”
“Ho voglia di una pompa”
Mi abbassai istintivamente anche se non avevo idea di cosa stessi per fare. Improvvisai, pertanto, come sempre nella vita.
I bottoni dei suoi jeans neri saltarono uno dopo l’altro, sotto un paio di slip grigi e dozzinali da supermercato implorava di essere abbassato.
Ne uscì un bel cazzo, durissimo, di lunghezza media ma molto, molto largo. Un cazzo a lattina insomma. Tentai di scappellarlo, ma non ci riuscii del tutto a secco. Le mie narici furono pervase dalla puzza di piscio, in fondo aveva appena finito. Mi fece un po’ schifo ma supposi fosse parte del gioco. Mi tuffai sul cazzo come si fa con gli amori tossici e le scelte sbagliate: a capofitto e con sentimento. Cominciai a succhiare cercando di ripassare al volo le tecniche di Brigitta Bulgari, Eva Henger e gli altri troioni d’assalto che avevo sempre visto nei porno e che avevo sempre invidiato: ora toccava a me e dovevo tenere alta la bandiera. Anche la sua, letteralmente.
Stefano mi aiutò muovendo ritmicamente il bacino avanti e indietro per facilitarmi, non oso immaginare quanta arcata dentale abbia messo ma lui fu gran signore e non si lamentò di nulla, anzi, gemeva e gemeva, finché in un urlo strozzato non mi venne in bocca. Tanta, tantissima sborra, minchia quanta ne fece. Provai a ingoiarla ma non mi riuscì del tutto (col tempo ho affinato la tecnica) e un po’ colò dai lati della bocca sul pavimento del cesso, salvando miracolosamente i miei pantaloni e la mia camicia da una macchia che sarebbe stata davvero difficile da spiegare dopo una sparizione in bagno prolungata. I muscoli facciali di Stefano, tesi per lo sforzo, si sciolsero in un sorriso compiaciuto. Mi aiutò a tirarmi su e ripulendosi alla bene e meglio mi chiese se fosse stata la mia prima volta. Risposi di sì e si complimentò dicendo che avevo una buona tecnica di base.
Mi diede un bacio molto tenero sul collo, mi disse di richiudersi subito dentro e aspettare un paio di minuti a uscire. Seguii le indicazioni, presi un altro drink per pulirmi l’altro dalla sborrata che avevo parzialmente ingoiato e tornai in pista. Vidi la Vale che ballava avvinghiata a quel Riccardo o forse Roberto, chissà, mi venne da ridere e le feci capire con due gesti che me ne stavo andando e che l’avrei chiamata il giorno dopo. Mi mandò un bacio volante, come le annunciatrici della tivù.
Un po’ barcollante e instabile tornai a casa col mio vespino e crollai sul letto ancora praticamente vestito.
La mattina seguente mi ricordai che mentre stavo succhiando il cazzo di Stefano avevo sentito il telefono vibrare tre o quattro volte.
Stiracchiandomi nella luce calda che entrava dalle finestre controllai. Tre chiamate perse di Carlo e due messaggi.
Il primo dell’una e trenta: “Ohi, dove sei finito? Stiamo andando e volevo salutarti”
Il secondo delle due e un quarto: “Scusami per prima, avrei davvero voluto ballare un lento con te. Stavi molto bene ieri sera vestito così. Perdonami ancora.”
Strabuzzai gli occhi, non potevo credere a quello che avevo letto.
Istintivamente lanciai il Nokia 6600 dal letto alla morbida poltrona di camera mia in preda a uno scatto d’ira.
Carlo, ma vaffanculo.
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