Gay & Bisex
031 ETEROSEXUAL
di CUMCONTROL
27.10.2024 |
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"Allora misi la mano di contro, per pararmi lo sguardo da quella luna impertinente..."
Nel giro di pochi giorni il mio ruolo fu chiaro. Dalla prospettiva del mio matrimonio non si sfuggiva.
Si viveva tutto insieme fino al giorno delle nozze. Si viveva con la mia futura moglie, mia cognata, e mio suocero che , per accordi "segreti" a suo dire, dovevo chiavare tutti i pomeriggi.
Ok dovevo sposare sua figlia ma nel frattempo, prima delle nozze, era il suo culo che dovevo bucare.
Non c'erano cazzi. Inoltre pareva che io in quella casa non avessi diritti né vita privata.
Provo a spiegare, sia pure velocemente, in che cosa consistesse questa mia vita di cazzo.
Ogni mattina sveglia alle 5. Un fresco lavaggio del viso perché mio suocero detestava la faccia stropicciata.
Scendevo in cucina, un caffè che dovevo prepararmi da solo. Poi ritornavo in camera, una bella cacata e una bella doccia, e poi di là nella stanza accanto.
In quella stanza dovevo entrarvi senza fare troppo rumore, dovevo inoltre accostarmi al grande baldacchino e pormi di fianco al viso di mio suocero, che dormiva e russava.
Quindi mi calavo le mutande e ci mettevo una caterva di tempo prima di andare in erezione e schizzargli sulla faccia come lui voleva.
Era così che voleva che fossero i suoi buongiorno. A pugnette dovevo andare, capisci? A pugnette.
Ammetto che i primi tempi non era per nulla facile per me andare in erezione e accostarmi al suo viso nella sborrata.
I primi tempi ero come inibito. Ecco perché mio suocero mi picchiava con violenza e ricordo che un giorno estrasse il tizzone dal camino e mi marchiò sul braccio. Ero reo di non essere sufficientemente uomo da andare in erezione e sborrargli sulla faccia nel pieno del suo sonno.
Così mi industriai rubando ora un cetriolo e ora zucchino di serra dalla dispensa. Solo con un ortaggio in culo il mio pisello dava segnali di vita. Lui non lo sapeva che ricorressi a tanto espediente per farmelo venire duro. Lo avesse saputo credo che mi avrebbe bastonato con la scopa.
Andavano così le cose. Egli era il gerarca e il patriarca in quella casa e ogni cosa che respirasse o meno, era assoggettata alla sua prepotenza.
Dopo lo schizzo, mio suocero si stiracchiava felice e sborrata. Poi si alzava, ciondolava, e senza dire una parola se ne andava di là nel suo bagnetto.. I primi tempi mi urlava di togliermi dai coglioni dopo la schizzata, e così dovevo ritirarmi nella mia stanza per prepararmi alla colazione da fare tutti insieme come una bella famigliola.
A colazione dovevo sorbirmi gli sguardi maliziosi della mia futura moglie, Ametista, e di sua sorella, Aglaia.
Entrambe erano nane, e potete capire quanto fosse penosa la mia condizione di sposare una cazzo di nana.
Le due mi guardavano fisso. Si doveva far silenzio perché tutte le mattine mio suocero era piuttosto di cattivo umore.
Una mattina mio suocero tardò - e di molto - dal venire a fare colazione.
Era andato alle "baracche", disse la governante trattenendo a fatica una certa ilarità. Questa cosa delle baracche la sentivo sussurrare ricorrentemente in quella casa e spesso non senza una certa ilarità da parte dei domestici.
Anche le due nane parevano ridersela un pochino, ma approfittarono dell'assenza del padre per dissuadermi dai miei tanti interrogativi, invitandomi di lasciare stare il pane tostato della colazione e seguirle fin verso lo sgabuzzino delle scope.
Mi dissero che avevano trovato una cesta di micini ed io, sempre amante delle bestiole, fui molto incuriosito da quel loro segreto.
Con le nane entrai nello sgabuzzino delle scope, ma non c'era alcuna cazzo di cesta con micini.
Le due si misero palparmi con famelica violenza. Cercai di allontanarle ma erano come cozze.
Nel buio sentivo l'alito di fogna di Aglaia che voleva baciarmi e non capivo dove cazzo più fosse la porta d'uscita.
Ametista, la mia futura moglie, si sbottonò la vestaglia da pazza, e Aglaia, la mia cognata, non esitò ad abbassarmi la patta per praticarmi un bocchino.
Mi agitai. Sparai ceffoni nel buio e le tette di Ametista sulla faccia m’impedirono di urlare. Aglaia passava dal cazzo al culo leccando ogni cosa di me.
Per mia fortuna fummo scovati dalla governante e qualche minuto più tardi, le due nane furono dovutamente massacrate di mazzate da mio suocero.
Era appena risalito dalle "baracche". Era su tutte le furie e infierì su quelle bestie di figlie con una violenza inusitata.
Mio suocero non sopportava quei loro sguardi maliziosi nei miei riguardi. Io rimasi come impietrito e quando ebbe finito, mi risparmiò l'ingiuria e le percosse ma fu molto chiaro.
Fino al giorno del mio matrimonio le nane avrebbero dovuto seguire una rettitudine nei modi e io avrei potuto al massimo fare del petting con la mia futura mogliettina. Nessuna orgia con mia cognata o chiavate con Ametista che era illibata.
Ma la verità è che io ero segretamente di mio suocero. Ero la Sua proprietà fino alle nozze o al suo prossimo capriccio.
A letto, di pomeriggio, voleva che lo bucassi come una femminuccia e pretendeva che lo chiamassi Pupa, no, dico Pupa, mentre io dovevo fare l'uomo con lui. Dire che quel posto fosse un manicomio è un eufemismo.
Dopo la colazione, mio suocero si ritirava nel suo studiolo per curare i suoi affari.
Avevo forse la mattinata libera io?
No. Affatto. Io dovevo “familiarizzare” con la mia futura mogliettina nana secondo i voleri di mio suocero.
A me e alla nana veniva concesso del tempo in solitaria, sempre però sotto l'occhio vigile della governante.
Con la mia futura mogliettina Ametista, di tanto in tanto, si faceva un piccolo corso pre matrimoniale, col parroco del villaggio.
Il parroco era un uomo dal sorriso vischioso, sulla quarantina, molto carino, biondino, nonostante l'odore di orina profuso dal suo abito scuro.
Durante il corso la scema non capiva una mazza e mi fissava soltanto toccandosi il vestitino da pazza. Poi, dopo il corso per sposini, si passeggiava nei vialetti che stavano intorno alla casa.
Nei vialetti vi era tutto un andirivieni di maschioni che stavano ricostruendo una staccionata, ed io non capivo più un cazzo perché quelle masse prominenti nei loro calzoni mi suscitavano una gran voglia di essere violentata.
Invece dovevo fare da maritino a quella cessa, che tenevo sotto braccio.
La cessa capiva che mi piacevano i maschi e la vedevo industriarsi a rendersi seducente facendo la triste, così che potessi rivolgere su di lei ogni mia attenzione.
La nana faceva la nostalgica. Si fermava, si affacciava al parapetto guardando il profilo dei colli di là del fiume. Una rottura di minchia che non puoi capire.
Poi la guardai bene così, di profilo, e mi pareva che quei suoi occhioni a palla potessero d'un tratto fuoriuscire dalle orbite, come uova dal buco del culo di una gallina.
Cercavo di non pensare alle nostre nozze, e cercavo di non essere troppo caloroso con lei.
Ma lei le mie coccole le pretendeva e richiedeva prodezze come baci e palpatine. Puoi capire. A me.
A me che agognavo la minchia ogni giorno che passava.
Ma non c'era verso di procurarsene in nessun modo. Mio suocero badava a non farmi avvicinare da quelle torme di maschi che frequentavano la villa come operai.
A pranzo, mio suocero e le due cesse mangiavano l'impossibile, ed io non mi capacitavo come quelle tre bestie potessero mangiare e infestare la sala da pranzo con le loro indifferenti scorreggiate.
Poi mio suocero si ritirava, e mi ricordava di raggiungerlo al più presto se no mazzate.
Prima però dovevo sentire il giradischi con canti lirici russi di cui non capivo una mazza. Le due facevano le frignone borghesi standosene sul divano con l'aria sfuggente. Ora secondo loro avrei dovuto mettermici di mezzo e trastullare le loro passere che sapevano di broccoletto.
Quando le due dementi si appisolavano sul sofà, sopraffatte dal carico glicemico, potevo dunque congedarmi.
Quindi andavo in camera di mio suocero.
Quella era la fase del giorno più penosa per me perché dovevo "accompagnare" mio suocero nella pennichella pomeridiana.
Voi potete capire. Entravo nella camera quatto quatto. Mio suocero russava ma si faceva trovare col suo pigiamone stinto abbracciato ai suoi cuscini.
Aveva l'elastico dei pantaloni tesi sotto la linea dei glutei, così che secondo lui io potessi ammirarne le sue chiappine.
In camera v'era sempre un certo lezzo di scorreggia così, che fosse inverno oppure d'estate, aprivo di poco le finestre. Poi nel silenzio facevo il mio segno della croce e dovevo iniziare con il "rito".
I primi tempi fu davvero difficile mettere in atto quel "rito" ma poi fui "raddrizzato" da mio suocero a botte di mazza della scopa.
Guai a stare moscio dopo il pranzo. Egli dopo il pranzo richiedeva il trastullo del culo punto e basta.
Secondo lui, il rito, sarebbe stato basilare per l'esercizio del mestiere coniugale con la mia futura moglie nana.
Insomma, dovevo salire sul letto e come un cagnolino, dovevo sistemarmi in un incontro frontale con il suo culetto, con tanto di annusata generale prima di cominciare.
Lui russava. Quindi dovevo docilmente leccargli il buco del culo così a lungo da sentire sulla mia lingua tutta la cena del giorno prima.
Era certo pulito ma era anche uno dallo scorreggione facile. Quindi in quella pratica c'era sempre un non so che di pecoreccio.
Poi il pachiderma si metteva di pancia e mi lasciava dunque capire che era il caso di montargli sopra e chiavare, dapprima docilmente così da non turbarlo nei sogni, e solo ai suoi rantolii da maialona avrei dovuto incalzare a sbatterlo.
Il retto di mio suocero, vai a capire perché, era sempre oleato, forse per via di quella sua dieta fatta di arrosti e burro di vacca.
Era però importante entrargli docilmente, fargli capire che gli ero dentro e occorreva muovere il bacino in piccole spinte e rotazioni così che la trippa accogliesse il mio pisello sentendolo fino ai brividi.
Quando prendevo il ritmo lui si destava, e stando sempre abbracciato al cuscino mi ordinava di fottergli il culo più pesantemente. Lo faceva con ordini precisi, scandendomi il ritmo come in una marcia militare.
Dovevo fare cardio dunque per trapanargli a dovere il culo.
Poi sentivo le contrazioni dell'ano, e sentivo tutto il corpo di mio suocero sudare in preda agli stimoli della cacarella.
Chiavandolo forte, io cercavo di non pensare, e pregavo la Beata e Sempre Vergine Maria perché quel supplizio finisse nel breve tempo possibile.
Ma guai a venire presto. Il gerarca dettava la regola aurea di non fermarsi se non al suo ordine che non arrivava mai.
Certe volte con la mano mi spingeva via, lasciandomi intendere che dovevo uscire dal culo, e i primi tempi intesi che si trattasse di una tregua nel rispetto della mia ginnastica.
Ma in realtà quella tregua serviva solo per permettergli una sessione di scorreggiata e poi di nuovo dentro.
Era orribile, credetemi, orribile e confesso che il mio pisellino spesso andava giù per colmo di disappunto.
Mio suocero, di tanto in tanto, permetteva che Aglaia, la sua figliola nana prediletta, di entrare in camera e assistere al sollazzo del papà.
In quei casi Aglaia si dimostrava una formidabile leccatrice di culo. Mi leccava testicoli e il culo senza soluzione di continuità. Non dimenticava di onorare il deretano del padre quando di tanto in tanto sfilavo il mio pisello da quella cloacona.
Aglaia leccava ogni cosa. Persino i piedi ci leccava mentre io restavo sopra papà a fare l'uomo di casa.
Quando finalmente mio suocero mi ordinava di schizzare dovevo farlo subito senza sfilar via il pisello.
E lui, stringendosi le tettine, belava a pecorella felice.
Alla fine giacevamo tutti e tre sfiniti in fondo a quel baldacchino, ad ansimare nella puzza di culo che nel frattempo aveva saturato ogni angolo di quella stanza.
Aglaia era quella che però non si dava pace e mi molestava. Mi molestava il pisello allungando la lingua per sapere di che cosa potesse sapere l'intestino del papà.
Io con garbo la allontanavo e così la pervertita si buttava nelle natiche del padre, a leccar via le mie sementi espulse da quella panza.
Poi l’ora di cena. Le bestie mangiavano a sette ganasce. Nessuno proferiva parola. Solo sguardi e io dentro di me piangevo. Poi tutti a nanna. Il giorno dopo sarebbe stato come il giorno prima.
Ma io mi stavo ammalando. Iniziai a sentire dentro di me un desiderio folle di minchia. Io stavo morendo. Non si può lasciare un omosessuale senza minchia per troppo tempo.
Levate una minchia a una rottainculo ed ella si lascerà morire, come un cardellino in gabbia.
Così, nel pieno della notte, nei sussulti della sopravvivenza, correvo di fuori nel boschetto.
Decisi si di andare a cazzi. Scendevo il vialetto di quella tenuta isolata dal mondo e imboccai una deviazione che non avevo mai veduto prima.
Di giorno quella grande casa era frequentata da grandi maschioni impiegati in ogni genere di lavoro. Vagando, nel pieno della notte, mi domandavo dove andassero a dormire.
Vagavo nel buio e anche un pochino terrorizzato ma la sola idea di incontrare un operaio nel boschetto che potesse ficcarmi a novanta, mi faceva passare ogni genere di cacarella.
Avevo intuito giusto.
Nel pieno della notte, scendendo la collina, tra gli alberi io scorsi due grandi capanni nascosti dalle folte fronde di alberi secolari. Erano le “baracche”.
Mi avvicinai. Era il gran dormitorio. Tutti quei maschi operai del mattino era lì che dimoravano nelle ore quiete della notte.
Sentii dentro di me tutti i brividi del mondo come cantava quellalà.
Quindi, misi tutti i cinque polpastrelli sul mio petto ansimante, e avanzai felpato sulle foglie morte del bosco.
E nell’avvicinarmi, a quelle due baracche, incominciai a sentirmi una mucca. Davvero una mucca.
Accostai a una finestra.
Ebbi un brivido che sopraggiunse dall'umido incubare del bosco.
Tutto in quel luogo era spento.
V'era solo la luce della luna filtrata dalle fronde del bosco, e che mi mostrò però qualcosa lì dentro, appena dietro il vetro.
Allora misi la mano di contro, per pararmi lo sguardo da quella luna impertinente.
E vidi...
Allora vidi qualcosa, che mi lasciò senza più fiato.
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Questo racconto è tratto dalla saga
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
CUMCONTROL 2024
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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