Gay & Bisex
032 MASCHI E MUSCOLI
di CUMCONTROL
05.11.2024 |
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"Un gusto robusto, lievemente piccante direi, quindi accessibile a tutti, con delicato retrogusto amarognolo..."
Mi voltai. Ed io, vidi un uomo, che dal sottobosco veniva giù in gran fretta e con in mano una grossa torcia.
Con sé c’era un cane sciolto che latrava rabbioso, ed io mi sentii totalmente paralizzato, come di chi non trova scampo e si prepara a essere straziato. Il cane latrava.
Non abbaiava, no, questo no, ma la sua coda rigida non si muoveva e veniva giù con quell’uomo. La bestia non si allontanava di molto da quell’individuo con il passo deciso, ed entrambi venivano verso di me.
Quell’animale, scuro, rabbioso, pareva essere ammaestrato a non spandere troppo nell’aria il suo ringhio, così non da disturbare l’ambiente in cui si muoveva col suo padrone.
Fu quell’incedere così poco naturale di quella bestia che mi fece pensare di essermi sospinto oltre i limiti del conoscibile. Andavo riportato indietro.
L’uomo, giuntomi a pochi passi, mi rimproverava rabbioso ma sussurrando, come a non voler destare il sonno di chi riposava a pochi passi da noi.
Mi ruggiva in faccia delle parole in ungherese e potete capire che davvero io non capivo un cazzo.
Capivo soltanto di aver compiuto un grosso errore nell’essermi allontanato dalla casa di notte, ed essermi così inoltrato nel bosco fino a scoprire l’esistenza di quelle due grosse baracche di legno.
Ritornai con lui sulla sommità della collina, tenuto d’occhio da quel pastore che ci girava intorno.
Risalimmo fino al pianoro che spianava la cima del colle e su cui si stagliava, solenne e orgogliosa, la mole oscura della grande casa.
A quella quota spiravano venti da ogni direzione. Era sempre così di notte, e certe notti, dalla mia stanza, vedevo le ombre dei rami mossi in contro luce sui vetri.
Quella casa sferzata dai venti mi pareva fosse un veliero solitario, dalle vele lacere, senza equipaggio, mandato a naufragare nel buio della vastità degli oceani.
Sul pianoro la luce dei lampioni illuminò l’uomo che mi stava riportando a casa.
Non era male, ma puzzava di vino.
Quando giungemmo sulle scale dell’ingresso, egli frugò nei calzoni e cavò fuori la chiave con cui aprì la porta. Mi comandò di entrarvi e non rifarlo mai più.
Con l’indice della mano segnò netto una linea orizzontale sotto sulla giugulare.
Era chiaro la fine che avrei dovuto fare se solo avessi ritentato la sorte di quella notte.
Io gli sorrisi, quasi a ringraziarlo per non aver infierito oltremodo sulla mia persona, e così rientrai.
Chiusi la porta, per un attimo mi accostai ad essa facendo dei lunghi respiri a occhi chiusi.
Ciò che avevo intravisto in una delle due baracche mi aveva sconcertato. La luce lattescente della luna aveva illuminato il fondo di quelle stanze di quella baracca, di là dai vetri, ed avevo scorto dei corpi di maschi dalla struttura robusta che dormivano a due a due in amache di tela, che come bozzoli erano a decine appese alle travi del capanno.
Maschi capisci? Maschi, formati dai muscoli dalle fatiche, e nudi. Tutti nudi, così, a dormire, a due a due nelle amache.
Ciascuno dormiva poggiato ai piedi dell’altro. Com’erano belli quegli angeli e quei piedi poi, amabilmente sudici e forti.
Dio come avrei voluto solo succhiare anche solo un alluce di quelli. Ripulire i maschi dalla sporcizia del mondo era sempre stata per me una autentica vocazione.
Lo sentivo come una santità, una forma tutta cristiana di sacrificio per il piacere della redenzione altrui.
Quanto avrei voluto baciare le loro bocche e tenermi stretto alle loro braccia virili, mentre come femmina io mi sarei fatta svuotare il retto dalle loro mazze.
La domanda era... Perché tutti quegli uomini?
Dovevano esserci almeno un centinaio in quella baracca, senza contare l’altro ricovero affiancato, di pari dimensioni e forma, che ne avrebbe ospitati di pari numero. Cosa ci facevano tutti quei maschi dentro due baracche nascoste in fondo al bosco della tenuta?
Possibile mai che ce ne fossero così tanti?
Certamente attorno alla grande casa avevo visto una dozzina di loro impegnati a riaccomodare l’acciottolato o la staccionata, ma tanti così? Cosa ci facevano? Dove andavano ogni mattina perché io non li vedessi?
Poteva trattarsi di una vera scuderia di maschi impiegati nei campi o nelle miniere della zona. E poi, perché tutto questo loro esserci in silenzio? Dove andavano di giorno così di nascosto?
Ma per quella sera mi bastò. Sentivo dentro di me la sicurezza di non essere “solo” in quella tenuta. Che forse, con un po’ d’ingegno, sarei riuscito a conoscere uno di “loro”, e finalmente, forse, non occorreva scappare via da quella landa impervia per trovare un mezzo chilo di cazzo tutto per me, no?
Tutti quegli uomini….No ma io stavo al settimo cielo.
Corsi silenzioso in camera mia e in quel luogo mi lanciai a pesce nel lettone.
Ero eccitatissimo per quella scoperta. Era un sogno a portata di mano. Era un sogno che stava a meno di cento metri dal mio lettone.
Mi misi a sditalinarmi il buco del culo manco si trattasse di una fregna irrigata, e di tanto in tanto, giusto per pjià aria, mi respiravo forte le dita fragranti di me e della mia lussuria, mentre con l’altra mano seguitavo nell’arte sordida di spampanarsi la trippa fino agli stimoli della cacarella.
Quella notte dovetti assassinarmi il buco del culo.
Ero stufo delle mani. Stavo troppo eccitato.
E allora mi ficcai dentro lo zucchino di serra, rubato in tutta segretezza dalla dispensa la settimana prima.
M’immaginai di star nella baracca con loro in quella notte di plenilunio, alla mercé di un esercito di maschioni ingrifati. Mi spappolai la trippa per tutta la notte, m’immaginai orde di maschi accorrere nella landa nebbiosa verso di me, per essere smontata pezzo dopo pezzo.
Poi sfinito da tanti pensieri mi addormentai all’albeggiare del nuovo giorno.
…..
Mi svegliai.
Mi destai appena solo dopo la colazione che avevo dunque saltato.
Dalla stanza vicina, sfidando la sorveglianza di mio suocero, la mia futura mogliettina s’era ficcata in camera.
S’era intrufolata sotto il trapuntone e abbassatomi la tuta raggiunse il cotone delle mie mutande.
Abbassò quindi anche quelle e lo fece docilmente, perché io potessi svegliarmi solo sul più bello.
La vista del mio pisello che dormiva doveva incuriosirla molto, e così, forse mettendo in atto i consigli di mia cognata, la tipa s’era messa a succhiarmi deliberatamente, senza principio di gradualità.
Mi risvegliai infastidito assai da quella tenace pompa mal riuscita, a rigatone diciamo così. Ella procedeva senza curarsi minimamente di levarsi via quella sua cazzo di dentiera.
Si, oltre ad essere nana, la mia promessa sposa, imposta come compagna di vita da mia madre e da mio suocero, ci aveva pure la dentiera.
Quella demente non aveva curato a suo tempo la sua severa parodontite, né quell’ignorante del padre era corso ai ripari per le cure di una figlia da maritare.
Quel problema, preciso io, era di famiglia e spiegava le ragioni di quella fiatella assassina comune alla sua sorellina, mia cognata, pure lei nana.
Insomma la mia futura moglie mi stava a spompinare.
Quindi sussultai e la allontanai immediatamente dal letto con così tanta vemenza che lo zucchino di serra della notte prima scivolò per terra.
Lei allora volle raccoglierlo. Le chiesi di no, di non…..
E niente. Lei si mise a maneggiare delicatamente lo zucchino con le dita, quasi si trattasse di una reliquia, e si mise a percepire con l'olfatto tutta la mia fragranza, non senza quella sua solita aria da pazza.
Le piaceva l’odore recondito della mia trippa.
Poi mi guardò, affascinata, e buttò via lo succhino lanciandosi a pesce su di me.
Ricordo che con la satanassa io intrapresi una manesca zuffa, ma la nana non demordeva, voleva il cazzo.
Le urla e i tonfi allertarono sicuramente la governante che si trovava a passare di là, in corridoio, altrimenti non si spiega perché due minuti dopo la porta si aprì risucchiando tutta l’aria agitata della mia cameretta.
Infatti.
Come volevasi dimostrare.
Sotto l’uscio vidi la corpulenza titanica di mio suocero. Egli era vestito con una calzamaglia di raso lilla e un tutù fucsia.
No vabbè mi chiesi perché cazzo si fosse conciato in quel modo.
Solo più tardi capii che egli stava prendendo ripetizioni di danza da un insegnante russo.
S’era messo in testa di diventare ballerina. La figlia non badò all’outfit, e si prese tante di quelle mazzate dal padre che io mi raggomitolai sul letto a ginocchia unite, e proteggendomi con il lenzuolo stropicciato.
- Ma brutta pezza da culo, quante volte ti devo dire che devi aspettare, ah? Quante volte!!
- Papà basta, ti prego.
La cessa riuscì a scappar via nella camera di fronte ma fu presto rincorsa dal padre. Di là, da quella prospettiva intravidi solo mio suocero col tutù fuxia che malmenava la figlia senza posa.
In quella casa, che era un vero teatro degli orrori, si superò il colmo. In preda all’ira disumana, mio suocero devastò di mazzate la figliola.
Poi, non contento, sbucò ansimante in corridoio, sempre incazzato da bestia, afferrò un portaombrelli di ottone e tornò di là, le urlò “Cessa!” e lo scaraventò in testa quella nana demmerda.
Cioè, ma hai visto che situazione?
Poi venne da me.
Si sedette distrutto sulla sedia. Ansimava.
Poi fece un lungo sospiro e disse:
- Ti ha toccato?
- Poco
- Hai sborrato?
- No.
- Giura!!
- Giuro.
- Se oggi pomeriggio non mi scarichi in culo la sbobba come la voglio io, non passerà il tramonto che tu ciondolerai alla trave della soffitta.
Fui raggelato. Annuii terrorizzato .
Poi andò via, strillando con le scarpette da prima ballerina “Dimitry, Dimitry sono da teeeee”.
Capito?
In quella casa erano tutti pazzi.
Poi il silenzio.
Sì che a un certo punto mi chiesi come trascorrere la mattinata.
Secondo la regola di casa io e la mia futura moglie avremmo dovuto fare la nostra passeggiatina intorno alla magione, “per far la conoscenza”.
Ora però la nana stava chi sa dove a farsi medicare la testa sfasciata dal bidone portaombrelli.
Quindi?
Quindi decisi di andar di sotto, nel parco attorno alla casa, da solo, così da gustarmi in santa pace la mia libertà dalla nana.
Uscii. La giornata era azzurra. Avevo voglia di tentare la fortuna, di crearmi da me le mie occasioni.
E chi me la dava più un’occasione così, di stare senza quella cessa davanti alle palle.
Così passai davanti alla citroniera (luogo porticato di ricovero degli agrumi in inverno), dai cui vetri vedevo mio suocero piroettare col suo maestro russo della danza.
Mi diressi soave verso la staccionata che una dozzina di maschioni stavano perlappunto ultimando.
Di là vi era il fiume in lontananza che serpeggiava d’argento tra i boschi quieti ed io mi sentii sereno.
Volli non pensare al pomeriggio e alle estenuanti chiavate per soddisfare i pruriti anali di mio suocero.
Ero stufo del suo culo, del culo più in generale. Io volevo il cazzo. Poi voglio dire mi sentivo bello, fresco, turgido e irrorato di una gran voglia di essere preso come un polipo e sbattuta fino alla morte contro uno scoglio da un esercito di maschioni.
Se sei brutta devi stare a casa. Proprio ti devi chiudere a chiave; ma se sei bella, è giusto che devi uscire, e procurarti la tua fortuna, buttarti a pesce in mezzo ai maschi. Qualche cosa esce sempre.
Quindi passai per i maschioni operosi, mi voltai e appoggiai le mie reni alla staccionata, dandomi di spalle al fiume la sotto, e con un filo di fieno tra le labbra mi feci audace.
- Ehm. Non trovate magnifica questa giornata?
Loro non mi cacarono di pezza. Allora io..
- Ho udito che nella casa vi è un ragazzo molto triste, un italiano, dato in sposa a una nana, vi risulta?
Niente.
Si che mi proposi l’audacia. Mi voltai verso il dirupo, mi piegai un pochettino sulla staccionata e approfittai della posa per calar giù il mio calzone insieme alle mutande. Un poco, non tutto.
Mostrai loro il mio culettino che a quel tempo recava una fessurina assai gentile. Feci miao miao con il culetto a tutti quei maschioni impegnati a trascinare assi, attrezzi e cose così.
Credete mi avessero cacato?
Allora mi protesi a pecora proprio, dicendo costernata:
- Oddio ma dove sono finite le chiavi. Scusino, ma mica per caso qualcuno mi può dare una mano?
Niente
- No, dico! scusino!??
Niente. Hai presente quando sei d’aria proprio?
Ma com’era possibile. A me?
Possibile mai che d’un tratto fossi stata brutta e trasparente?
No aspetta. Forse qui c’era lo zampino di mio suocero che aveva vietato a tutti quegli operai di rivolgermi minimamente la parola.
Stavano così le cose. Ma sicuro proprio.
Quindi mi ricomposi. Divenni serio. Avanzai deciso verso uno di loro con i pugni stretti come a volergli rompere la faccia.
- Senta lei, io lo so che siete tutti ungheresi e tenete la coccia di cazz.
- ?
- Ma si dà il caso che io sia una assai …. Insomma credi che io sia di legno?
Mi mostrai fiera, scoprii la camicetta facendo saltare tutti i bottoncini e mostrandogli il petto dissi:
- Che cosa ti credi che io sia di legno? Anch’io ho delle necessità, la prego mi stringa forte le tettine, oh si, sono la lupa, si? La prego mi dia della sgualdrina subito o mi metto a strillare così, davanti a tutti.
Il tipo scoppiò a ridere, ma seguitava a svolgere il suo lavorò. Poi, in perfetto italiano mi disse:
- Vai giù nel vialetto. Ci sta uno come te.
- Come te? In che senZo? Scus'lei è italiano?? In che senZo come me?
- Ricchione insomma.
- Bè?
- Bè. Se gli procuri qualcosa potrà accontentarti, ma sta attento. Noi abbiamo l’ordine preciso di non parlare.
Al che lo guardai a occhi sgranati.
- Ascò.. Ascolta, come si fa ad andar via da qui?
- Non c’è modo di andar via da qui.
- Co… Come scusi?
Sennonché vidi arrivare il tale con il cane che avevo visto la notte prima alle baracche.
Quel tale si mise a sbraitare con qual ragazzone, e fu così che io capii che la nostra conversazione era finita. Mi misi sulla difensiva tipo la venere al bagno e lo guardai perplesso.
Ma capii anche che tutta quella situazione non aveva nulla di normale, e che al vertice di quella gerarchia di luoghi, e di corpi, c’era un'unica entità: mio suocero.
Mio suocero governava sulle vite di tutti, e sui loro destini.
Intanto quello sbraitava con il ragazzone e il cane gli abbaiava contro. Mi riavvolsi la camicia. Mi disposi di profilo e mi guardai la spallina standomene con le braccine incrociate a proteggendomi dal freddo. Ma superato il primo momento di sconcerto, intesi di andare comunque fino in fondo.
Procedetti sulla ghiaia, lasciandomi alle spalle il tale, il cane e il ragazzone.
Procedevo solenne, passando tra gli aitanti operai, e mi ripetevo sussurrando “Sono io la favorita del Re. Sono io la Favorita del Re”.
Io dovevo procurarmi il mio legittimo mezzo chilo di cazzo. Se possibile, io, il mio mezzo chilo di cazzo dovevo ipotecarmelo per mesi, anni, perché tutto potevo sopportare, anche l’insopportabile.
Ma se avessi avuto un cazzo tutto per me, magari avrei spinto la mia sopravvivenza in quel luogo fino al giorno della mia liberazione.
L’istinto della sopravvivenza era fortissimo in me, dovevo solo trovare mezzo chilo di cazzo, e sarei uscito vivo da lì.
Si che mi diressi al vialetto secondario suggeritomi dal tale, e vidi, poco dopo la curva, un ragazzone che stava rastrellando ai piedi delle ortensie. Quindi, mi accostai a quello splendido esemplare di giardiniere.
- La prego buon uomo, la prego.
Sfilai dal taschino della mia tuta una patata che avevo rubato nella dispensa qualche giorno prima e con cui volevo sollazzarmi il deretano nei miei momenti solitari di struggimento.
- La prego è tutto quello che ho per il momento. La prenda. Sarà così affamato.
- ?
- Lei è… Lei è ungherese, si?
- Non, je suis français.
- No vabbè ma veramente? Francese? Adoro questo vostro stile di vita così opzionale per il bidè. Rimming?
- ?
- Guardi io ho una patata ma se ci organizziamo posso darle tutto quello che desidera. Avrà molta fame. Senta le faccio del Rimming di qua, dietro le ortensie. Accetti la prego questa patata e mi dia un po’ del suo cazzo, la prego. Vuole vedermi chiusa in una bara morta senza cazzo?.
- Non merci. Grazie.
- Come scusi allora parla italiano?
- Mia madre era di Torino
- Ma allora perché si mette a parlare in francese. No vabbè. Anche mia madre è di Torino. Comunque fotte sega, tu tira fuori la mazza e salva questa bella signora dal suo fatale destino! Mi faccia sentire una ReGGina la prego, oddio mi sto a sentì male.
Non che ci contassi molto, ma il ragazzone si guardò intorno. Depose quindi il rastrello tra due ligustri, e si dispose dietro l’ortensia. Ergo sfilò fuori il pisellone e mi mostrò tutta la sua ricotta abbassandosi la pellicina.
Io sgranai gli occhi. Sotto le due creste poderose del glande si annidava una vasta produzione casearia.
Quindi gli offrii la patata ma egli la buttò via.
Io guardai la patata ruzzolare e poi lo guardai, con i miei occhietti un po’ tristi.
Allora crollai sulle ginocchia e mi misi a ripulire la casearia sotto le creste del suo bel glande.
Ottima la fragranza. Un gusto robusto, lievemente piccante direi, quindi accessibile a tutti, con delicato retrogusto amarognolo. Odore penetrante e caratteristico di biada, con sentori animali e di sottobosco, note di ammoniaca profuse su tutta la lingua fi su al palato.
Stagionatura da 3 mesi a 6 mesi, sicuro!
Egli parve compiaciuto, sebbene nel suo volto scorgessi un inspiegabile senso di disgusto.
Che ti posso dire. Io però vibravo in quel florilegio di sgombro in scatola e il Puzzone di Moena, conosci? Un formaggio tirolese che sa così di stalla che ti fa sentì Vacca.
Benissimo.
Ultimata la pulizia, mugugnai il mio piacere, seguitando a gustandomi il gelato caldo e gustoso.
Il tale pareva tenero con me, perché mi accompagnava dolcemente tenendomi per le guance. Poi si piegò su di me e volle baciarmi. Prima di farlo si fermò a guardare le mie lacrime che nel frattempo mi erano uscite per il pungente gusto della sua formaggia.
Ma ero anche molto emozionata. Egli, carinamente, si mise a raccogliere le mie lacrime con la lingua. Mi sentii una vitella ignominiosa quando volle baciarmi. Un vero francese.
Si perché non si lasciò intimidire dalla mia fiatella di formaggia assassina. Mi baciò a lungo. Io inginocchiato e lui su di me. No vabbè che bello, ed io pigolai di passione battendo i miei avambracci come fossero alucce.
Mi abbracciai alla sua coscia, bagnando di gratitudine la tela dei suoi calzoni con le mie lacrime. Egli, senza dire una sola parola e mitigare i miei singulti di felicità, ebbe cura di prendermi il volto con ambo le mani per affondarmi in gola il suo biscione.
Quando il minchione fu duro, egli sostituì la grazia con la ferocia, e non mi fu dato né scampo, né preavviso.
Tra le lacrime io tossivo dal naso tutte le mie gioiose bave, ed egli, con fare equestre, puntò i piedi, sollevò i talloni e cavalcò la mia gola turandomi le narici con le dita.
Ebbi la gola gonfia. Gli occhi miei si ruppero in mille rivoli di sangue e fui rosso di viso fin che l’uomo non vi scaricò nel mio intestino la sua acida sostanza seminale.
Scoppiettai nei conati e un robusto fascio di bave non volle rompersi quando estrasse la minchia dalla mia boccuccia.
L’uomo fornì prova di gentilezza, perché mi diede tutto il tempo di sbroccare ai suoi piedi, ma poi mi tirò su dal mento e mi fissò dritto negli occhi.
Fu dolce quando volle ripulirsi sulle mie guance, e se mi pisciò in testa lo fece solo con la ritualità tipica del maschio. Cercai con la bocca di intercettare il getto, facendogli intendere che se desiderasse una tazza sanitaria umana per la vita, eccomi qua, sarei stata sua immediatamente. Doveva solo aiutarmi a sbarazzarmi della mia futura moglie, nana, e saremo andati via insieme da quel cazzo di posto, che so, in Francia, in Bretagna. Lui avrebbe acquistato una casetta sull’oceano, ed io gli avrei fatto da mogliettina e da cessa, e voi tutte mi avreste invidiata.
Ma egli trovò evidentemente più divertente non farsi troppe pugnette mentali, e seguitò incessantemente a pisciarmi sulla testa. Volle spruzzarmi di piscio in una recchia. In una recchia, non in tutte e due. In una. Si divertiva così.
Mezza sorda lo guardai dal basso, dio com’era bello, com’era maschio, com’era superiore a me.
Poi con un irresistibile ghigno mi disse:
- Da questo momento, ogni mattina tu mi porterai quattromila fiorini (dieci euro di oggi) e li lascerai ai piedi di questa pianta.
- Co… Come ma io non ho denaro.
- Quattromila fiorini o lo dirò al capo
- Che cosa dirà al capo?
- Ti ha parlato della trave, no?
- Quale trav… la trave dove appende..cioè oggi per la verità mi ha detto della trave
- Non saresti il primo, né sarai l’ultimo.
- Come dice scusi?
- Molti finiscono alla trave del tetto, per tradimento, o quando lui sarà stanco
- Scusi no, questa me la deve assolutamente spiegare.
- Non fare lo gnorri.
- Gnorri? Se’.. Senti io non ho soldi, la prego mi ascolti, io come faccio a ..
- Fotte sega
- Fotte sega? Ma tu non sei francese
- Hahahaha
- Scusi, perché ride?
- Devo andare
- Scus’.. scusi, la prego dove va… e la patata?
Se ne andò..
Mi lasciò. Così.
Sola. Sotto l’ortensia con il labiale pronunziai la parola “trave”
Ero Angosciata.
Sbroccata.
Sbavata.
Atterrita.
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Questo racconto è tratto dalla saga
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
CUMCONTROL 2024
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