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002 TUTTO SU MIA MADRE - [ HUNGARIAN RHAPSODY ]
di CUMCONTROL
20.07.2019 |
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"Si riprendeva dopo un quarto d'ora, e il culetto geloso di ogni sua sostanza, mi squittiva dopo la fuoriuscita di quel vigoroso maglio di carne..."
Sbocchinare papà fu la mia autentica passione. Un primo tiro di bocca al proprio padre sul barcone di famiglia davanti a tanti invitati proprio giorno del mio compleanno, ammetto che non sia stata una cosa da tutti ed io ne sono consapevole. Ma ammetto anche, col senno del poi, di aver avuto una esperienza tanto squallida si certo ma assai esaltante per la mia personalità divenuta libera e senza tabu di sorta.
Dopo la mia prima bocca piuttosto incerta dunque, mi fu in seguito più facile fare di papà l’uomo più felice del mondo.
Da sempre mio padre desiderava assoggettare alla propria lussuria la bocca di suo figlio. Talvolta dal modo con cui papà mi sfasciava la gola a colpi di quel suo grosso maglio di carne, io mi chiedevo non fossi stato concepito proprio per un occulto disegno tracciato a quattro mani: quelle di mio padre, e quelle di mia madre.
Si perché altrimenti non si spiegherebbe l’acquiescenza della genitrice madre verso gli atti immorali del figlio e del legittimo consorte. Io credo che mamà avesse fatto di tutto perché potessi entrare in intimità carnale con papà.
Avvolte mia madre passava per il corridoio e sbirciava sogghignando mentre sbocchinavo papà sul talamo nuziale. Sbocchinavo per ore e mi aiutavo con la mano chiusa su e giù poiché papà era assai tenace a sborrare. Capitava che lei esitasse un attimo prima di entrare in camera la cui porta guarda caso era lasciata sempre semiaperta. Capitava che entrasse per ritirare qualcosa dal guardaroba e si muoveva a passo felpato per non disturbarci facendo cenno di scusarsi e di proseguire il lavoro ignorando la seccatura arrecata.
All'epoca mi pareva del tutto normale che un figlio potesse portare gioia ad un padre per via orale perché nella mia infanzia non avevo interagito se non che con lui, con mia madre, con i domestici e con le numerose istitutrici che si avvicendavano in villa per la mia “educazione”. Null'altro. Non mi era consentito il confronto con gli amichetti, mi era vietato guardare la tele e vivevo nell'isolamento più completo.
Le istitutrici - molto erudite e di ottima levatura – ostentavano freddezza e trattenevano ogni materno istinto di ogni forma di affezione nei miei riguardi. Eppure ero un ragazzo buono e dolcissimo, ma queste si ostinavano a mantenere un sussiego impostele da mia madre. Eppure era chiaro che queste signore provassero per me una certa pena ma su di loro aleggiava mamma. Le istitutrici – tutte rigorosamente di sesso femminile – mi riempivano la testa con concetti per i quali un figlio dedito doveva sempre compiacere le brame di un padre, anche quando questo ha delle richieste particolari.
A me tutti questi insegnamenti avevano finito col convincermi che non v’era nulla di contro natura nel toccarmi solitario il pisello quando ero nel mio letto, e sognare di essere fra le braccia di papà e farci l’amore.
Mi toccavo e sognavo di essere tenuto stretto stretto tra le braccia forti di mio padre, al riparo da tutto.
Sulle prime i miei desideri erano mistificati della luce candida dell’innocenza. Anelavo le sue carezze, le attenzioni ed il massimo pensiero più spinto che la mia mente potesse formulare in quelle solitudini tutte mie tra le lenzuola, era di riscuotere da lui un dolce bacio sulle labbra.
In tutto questo, l’ardente bisogno di innocenti attenzioni da parte di mio padre non rivaleggiava affatto con la figura di mia madre che invece mi esortava coi suoi discorsi a fare in modo che io potessi in ogni modo entrare nelle sue grazie. Non vi era antagonismo con mia madre, anzi, vi era concordia. Una concordia preparatoria ai miei diciotto anni e non prima, perché mamà temeva scandali che potessero compromettere lo status di famiglia.
Quindi trascorsi l’adolescenza sognando. Quando si parlava di mio padre, mia madre mi concedeva carezze e si mostrava una donna dolcissima. In tutti gli altri affari della mia prima esistenza, ella dimostrò di contro disattenzioni ed una penosa indifferenza. Ammetto che nella mia ingenuità non mi spiegavo affatto le ragioni di questa sua altalenante condotta affettiva tra amorevoli discorsi su papà e una più totale indifferenza per i miei studi, le mie insicurezze adolescenziali, i miei umori che non fossero riconducibili al genitore.
Gli anni della mia adolescenza furono tuttavia davvero beati. Ero attorniato dai domestici e da sole figure femminili, ad eccezione di mio padre, che più tardi scoprii essere un uomo dagli inappagabili istinti.
Ora che ci penso vi era una seconda figura maschile.
Avevo avuto un precettore. Era un uomo di chiesa che tutte le mattine veniva presso la nostra grande villa alle porte di Roma e mi istruiva sulle cose del mondo. Ora che ci penso, con la mente ormai distante da quel tempo della mia giovinezza così volutamente isolata da tutto e da tutti, ora che ci penso anche il mio precettore fu evidentemente istruito ai dettami di quello scellerato progetto genitoriale di concepire e allevare un cucciolo di uomo, da gettare in seguito nel talamo nuziale per divenire infine il giocattolo di un padre dionisiaco.
Dico questo perché il mio precettore in quelle sue lezioni private si dilungava sovente nelle cronache pedestri tra Adriano ed Antino, Achille e Patroclo, per non parlare delle sodomie di Giulio Cesare, da sempre simbolo del vigore romano, che pure accordava il proprio buco del culo alle brame del monarca di Bitinia.
Quell'uomo mi lavorò i fianchi come si dice, e mi sospinse verso direzioni della mente assai opportune per i miei genitori.
Mia madre e mio padre erano poi autentici megalomani. Sulla spianata retrostante la nostra grande villa costruita nel ventennio fascista, avevano fatto costruire un lungo specchio d’acqua incuranti di una preesistente necropoli etrusca. Questo specchio d’acqua pareva atterrato da una lontana Arcadia su quel prato verdissimo della campagna romana. Attorno a questo invaso dalla forma squadrata avevano fatto costruire un porticato, sul modello di villa Adriana a Tivoli e sotto ogni arco a tutto sesto campeggiavano le statue virili di atleti e dei.
Sui basamenti in marmo erano scolpiti satiri voraci che trascinavano nel fogliame giovani uomini da violare.
Le lezioni del mio precettore, nelle belle giornate d’estate, avevano luogo proprio passeggiando sotto quello splendido porticato. I miei occhi venivano tormentati dalle forme dei glutei scolpiti di quelle statue, dalle schiene tese, dai lombi poderosi, dai polpacci possenti, dal prominente gioco di vene rigonfie sui piedi saldati ai blocchi di granito, e la mia attenzione dal mio precettore era indirizzata sovente anche sulle masse testicolari di vigorosi atleti ellenici, e dalle grandi cosce liberate dai blocchi bianchi del marmo di Carrara.
Alcuni simulacri recavano i tratti somatici che talvolta richiamavano il volto di mio padre. Era forse solo una mia suggestione, o una sinistra intenzione, ma se oggi potrò dire che l’uomo bramato per primo ebbe il nome di mio padre, lo devo proprio alla fisiognomica e alle figure di quel colonnato della mia tarda infanzia.
L’isolamento fu la cifra di quegli anni. I miei genitori potevano permettersi e comprare quella mia condizione.
Vissi negli agi grazie alle rendite cospicue di entrambi i genitori.
Terre, casolari, castelli e perfino mulini, palazzi e una intera catena di alberghi in Sud Africa.
Mio padre vantava inoltre aderenze importanti con uomini di potere con cui faceva affari. Forniture belliche da valergli guadagni miliardari da permetterci ogni genere di lusso.
Mia madre indossava diamanti raccapriccianti per il loro valore e che esibiva nelle occasioni mondane alle sue mostre fotografiche di Parigi, nella Grande Mela o a Tokyo. Aveva l’hobby della fotografia. Fotografava stupri, torture e povertà. Si dice che pagasse lei stessa certe messe in scena nei suoi ricorrenti viaggi, ma queste sono solo menzogne costruite ad arte attorno ad una donna malata su cui si è in seguito voluto costruire il mostro.
Non aveva un buon carattere mamma, e bramava soldi e potere.
Litigava spesso con mio padre dandogli dello “zuccone” perché lui, mio padre, il mio uomo, si rifiutava di investire nella ricerca sul gas Napalm-B.
Mia madre pretendeva l’introduzione del Napalm nella produzione bellica di famiglia. Mio padre non se la sentiva di introdurre il fosforo bianco nei nostri stabilimenti in Indocina perché le ferite cagionate dall'ordigno cagionavano ustioni da divorare le carni ai poveri malcapitati civili vittime in una guerra tra superpotenze.
Mia madre di contro era decisa a tutto.
Una sera aveva cenato col sottosegretario del ministero alla difesa del Pentagono venuto a Roma mentre mio padre aveva preferito accordare l’invito di alcuni uomini d’affari ad un torneo di tennis presso Saturnia. Io ricordo poco di quella sera a casa, ma ricordo bene il pacco di quel bell'uomo calvo venuto da oltreoceano dalla mascella forte, e ricordo bene ancora il culo, fasciato in abito scuro, con cui scorreggiava sovente nelle pause in terrazzo tra una portata e l’altra.
Mia madre tentò in tutti i modi di persuadere il diplomatico americano affinché si lasciasse tirare una pugnetta da me dopo il dessert. Ma il tale non ne voleva sapere di corruzioni carnali a matrice omosessuale, ritenendo più sessualmente appetibile la mia genitrice madre, che dovette assoggettarvisi alla fine di lunghe trattative pur di concludere il contratto sulle forniture belliche.
Mia madre era letteralmente spaventata dal rischio del comunismo e si decise di appartarsi in camera da letto col ministro, disponendo a che io dessi una mano ai domestici nello sbaraccare tavola.
Uscì un’ora dopo dalla camera da letto, stravolta, nervosa come non mai, disgustata, ma il diplomatico aveva firmato.
Quando papà fece ritorno a casa, intrattenne una conversazione piuttosto concitata con mamà, che lo mise difronte al fatto compiuto. Il Napalm-B era ormai un affare di famiglia.
Litigarono fino a notte fonda ed udii schiaffi a tutt’andare al di là del tramezzo che divideva la mia dalla loro stanza da letto.
Mio padre odiava mia madre. Lo faceva star male, una donna superba che agognava ogni ricchezza, e tuttavia infelice. E se la sua felicità chiedeva per diritto il prezzo di morti spaventose da fosforo bianco in Indocina, per lei pazienza, tutto questo non contava un bel nulla al cospetto della sua vanità e della sua onnipotenza.
Mia madre bramava un posto in prima fila nel palcoscenico della sua vita.
Poi nessun rumore. Silenzio. Poi un boato e il risucchio d’aria. Mio padre spalancò la porta della mia stanza, si grattava le mani, era su tutte le furie, gli occhi in fiamme e avrebbe voluto strozzare mia madre… ma ….
Ma invece mi saltò addosso, mi svestì disumanamente, ed io, discinta sabina del bosco nel rapimento brutale, mimai una fuga mendace tra i panneggi dell’alcova filiale. Dopo il pompino nel giorno del mio diciottesimo anno a mio padre sul panfilo ebbi ciò che già da qualche tempo agognavo, io, desnuda primigenia, lasciai che Lui, il mio uomo, strappasse via il pigiama e le mutandine, che stringesse le mie natiche, che me le percuotesse, per poi voltarmi sotto di lui, ad obbligarmi ad aprire le mie cosce, per scoparmi davvero. Fottutamente.
Lo accolsi nel mio ventre nella posa del missionario e nonostante mi scopò duramente, nonostante i miei sommessi singhiozzi e lacrime di dolore, placai la sua rabbia lasciando che sul mio collo sfogasse improperi indicibili all'indirizzo di mia madre.
Ed io? Povera me. Io a gambe completamente aperte incassavo i colpi di reni e le molestie verbali. Mi consolai nella consapevolezza che tutto questo era contro mia madre, e che in nulla, proprio in nulla, potevo centrarci io.
Si calmò dopo l'inseminata del mio retto e rimase nel mio budello fin quasi ad addormentarsi su di me.
Era sfinito. Respirava contro il cuscino mentre restava sopra di me ansimante, e nonostante in quegli attimi restasse ancora su di me, io gli accarezzavo la nuca.
Poi venne il silenzioso insufflaggio urinario, inesorabile, e in breve tempo quella pratica post coito divenne per noi un docile rituale, con il quale egli vuotava del tutto il suo ventre, gonfiandone il mio.
Si riprendeva dopo un quarto d'ora, e il culetto geloso di ogni sua sostanza, mi squittiva dopo la fuoriuscita di quel vigoroso maglio di carne. Balzava in piedi con l’agilità di un satiro prodigioso mentre come acque sorgive i liquidi di papà dilagavano sul mio lenzuolo bianco.
Mi disse "va a lavarti il culo, piccolo".
“Piccolo”.
La prima parola d'affetto udita da mio padre.
Forse fu quello il momento in cui mi persuasi che per mio padre fossi qualcosa di più di un miserabile cesso.
Quella sera me ne innamorai. Da quella notte presi a scopare con lui quattro volte al giorno, mentre mia madre gli teneva il broncio cercando di occuparsi in prima persona di concludere i contratti di fornitura del suo fosforo bianco con il ministero della difesa americano.
Più mi chiavava papà, e più bruciavo di passione sotto di lui. Com'era bello sentirlo tutto sudato su di me. Dentro di me mio padre si incuneava in sessioni stupefacenti.
In principio dunque fu con papà che mi iniziai ai piaceri anali e divennero negli anni lo scopo della mia vita.
In quegli anni, nulla per me era così strettamente legato alla mia sopravvivenza su questa terra come lo svangapassere di mio padre. Urlavo di piacere, e di dolore, fino a mettere d’imbarazzo gli stessi domestici di casa.
Ma non mi importava un bel nulla di nulla.
E nemmeno quando mi chiavò in piscina mi importò di nulla, quando sotto gli occhi disgustati dei domestici io me ne stavo aggrappato al cordolo lasciandomi sturare da papà con forte decisione. In essi – i domestici - io suscitai una sentita ripugnanza nel vedere me dispiegare nell'acqua i torbidi fluenti del mio intestino, e godere alacremente e senza posa di una finalmente raggiunta libertà anale.
Ammetto che il mio sollazzo fosse spesso sopra le righe, non facendomi alcun riguardo circa le modalità con cui lo manifestavo, salvo magari nelle pause in cui restavo senza cazzo, allora sì che in quei momenti venivo assalito dal rimorso e dal pudore.
Quando mio padre era via, io mi annoiavo molto in quella grande casa. Abbassavo gli occhi davanti alla servitù e trascorrevo molto tempo al piano di sotto con la vecchia lavandaia di famiglia, Edina, grassa massaia ungherese che mi preparava degli impacchi emollienti per il deretano.
Avevo con lei un clandestino rapporto di confidenza e la donna non vedeva affatto di buon occhio quanto accadeva nella nostra grande casa. Era amorevole con me ma severa nel giudizio. Per lei ero docile vittima dell’educazione di due invertiti, e per questo li biasimava.
Fu lei a convincermi che tanta scelleratezza e tanto entusiasmo da parte mia nel manifestare la mia goduria rettale mutata in “amore” per mio padre, potesse contrariare mia madre. Mia madre voleva certo allontanare da sé le attenzioni sessuali di mio padre perché le dava nausea fare sesso con chi che sia, e per questo motivo dunque dovevo adempiere io a certi compiti. Tutto questo per mia madre era perfetto, ma mai avrei dovuto osare qualunque coinvolgimento sentimentale per mio padre. Se ciò fosse accaduto, o se peggio mio padre avesse corrisposto un amore estraneo al ruolo di un padre, allora mia madre si sarebbe fatalmente ritorta su noi come Medea.
Il sangue mi si cristallizzò nel ghiaccio tra le vene. Ebbi paura per la prima volta nella mia vita.
Anche Edina aveva paura di mia madre. Aveva visto cose terribili, che non ebbe mai la forza di raccontare ma la sua paura era fondata. Mia madre era davvero una donna pericolosa, e ciò che accadde dopo, ne fu la prova.
Per questo motivo Edina mi esortava ad impegnarmi per cercare occasioni interlocutorie con mia madre, tenere aperto dunque un canale di comunicazione costante per evitare o mitigare inaspettate sue ritorsioni.
Mia madre era imprevedibile.
La realtà era che di fatto mi stavo innamorando di mio padre e dentro di me si scatenarono forze avverse. Non poteva il mio amore per lui devastare il cuore di una donna, mia madre. Questo sì che è contro natura.
Ero un ragazzo buono, e disposto a rinunciare a tutto pur di non devastare l’armonia familiare.
Volevo bene a mia madre.
In quei giorni mia madre era molto irritabile dopo la lite di qualche giorno prima con papà, e credendo di farle del bene mi cimentai ad affrontarla perché capisse che se mi avesse chiesto di astenermi dal far sesso con papà io lo avrei fatto, a partire da quel preciso momento.
Mi feci forza. Accostai a lei mentre era seduta in salotto intenta a visionare diverse fotografie.
Com'era bella la mia mamma, pareva fuoriuscita da un romanzo di Virginia Woolf.
Aveva i capelli raccolti, recava la riga al centro ed indossava una semplice camicia bianca di seta padovana con due orecchini di perle.
Aveva un viso riposato e quasi come assorto nell'estasi di una preghiera mentre se ne stava a guardare quelle fotografie rilegate che sfogliava con cura tra le ginocchia.
Mi avvicinai alla sua figura appena accarezzata dalla luce del sole che giungeva alle spalle. Restava seduta sul divano davanti al tavolino del salotto. Reclinai il viso per mostrarmi partecipe del suo interesse a voler guardare quelle fotografie, ma prima godetti ancora un attimo della sua mitezza del momento, una serenità ed una semplicità come piccola chiesa raccolta su di un sentiero ombreggiato tra i campi di grano.
Mia madre era bella.
Poi guardai le foto che stava rimirando, e ciò che vidi mi gettò nell'angoscia.
Erano gli esiti atroci del fosforo bianco su povere cavie di giovani cerbiatti, scuoiati vivi dal tremendo formulato chimico che era decisa a mettere a disposizione degli americani per il già avviato conflitto bellico in Vietnam..
Sarebbe stata una delle otto donne più ricche al mondo.
Mia madre era Satana.
- Cazzo vuoi, mi disse.
Io cercai di controllare il respiro, molto turbato di quanto avevo appena visto. Ero soffocato dal timore che la collera di mia madre potesse annientarmi del tutto.
Ma riuscii a portare a termine il mio discorso. Insomma io non volevo toglierle l’amore di mio padre, e glie lo dissi a cuore aperto, tremando e poi presi a singhiozzare, intravvedendo forse tra le lacrime tutta l’assurdità della mia storia.
Mamma mi lasciò finire senza distogliere lo sguardo dalle fotografie e poi mi disse,
- Hai rotto il cazzo con ste svenevolezze. Va a lavarti la fica cacante che papà sta tornando dal tennis!
Voi potete capire che mi crollò il mondo. Ma io mi opposi con docilità a tanta crudezza di spirito toccandole la mano dicendole semplicemente,
- mamma io… io vorrei solo…
Si alzò, impugnò dal camino il pesante posacenere di nonno, e feci giusto in tempo a schivarlo che si diresse a fracassare la faccia al dobermann di porcellana proprio di fianco al sofà.
- Mamma io credo che il dialogo tra madre e un figlio sia basilare per stabilire un rapporto di buona comunica’..
- Vatte a lavà sta fregna se no te ficco un dito ner culo che te faccio uscì l’emorroidi dar naso brutta nana demmerda!!
- O.O
Inforcai la maniglia, aprii la porta e mi buttai a pesce nella scala discendente. Poi sbucai in cortile, corsi attorno alla piscina gridando con le mani in testa come una paaaaaazza.
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Ora. Per due settimane mio padre mancò da casa. Era andato in Indocina per impiantare nuovi stabilimenti per la produzione chimica di ordigni nelle retrovie dell’esercito americano.
Mia madre mi faceva paura, perché era allegra e non si faceva riguardo a telefonare con insistenza la giù per richiedere informazioni precise sullo stato di avanzamento della costruzione dei nostri laboratori.
Papà mi mancava. Ma due settimane dopo fece rientro. Ricordo che mamma ed io restammo sulla scalinata del portico di casa ad attendere la berlina di papà. Quando giunse lo vidi più bello del solito. Era tutto abbronzato con camicia, giacca e cravatta col suo soprabito ripiegato sull'avambraccio.
Lo attorniammo festanti come una vera famiglia, con i cani che tutt'attorno accrescevano quegli attimi di felicità.
Papà – lo vedevo – aveva già il cazzo duro, e in quei momenti dovetti contendere con mamma un po’ della sua attenzione. Mamma non faceva che ripetergli sugli esiti degli esperimenti del fosforo bianco, di come la carne abbrustoliva per ore e ore prima che sopraggiungesse la morte dei cerbiatti in via sperimentale, ed era così entusiasta per le imminenti miliardarie commesse provenienti dall'oltreoceano.
Io di contro non sapevo come manifestare la mia gioia, che si sviliva difronte alle esternazioni di gioia di una narrazione così orribile. Mio padre fingeva di ascoltarla, si strizzava il cazzo bevendo il caffè e mi fissava. Avrei voluto chiedergli di andare subito in camera ma papà a quel giro volle scopare prima con mamma.
Dietro la porta della loro camera da letto li sentivo strepitare e ridere, poi più nulla. Solo dopo una buona mezz'ora udii la spalliera del letto sbattere forte contro la parete della camera nuziale. Erano per me gli attimi più terribili.
Papà fotteva forte mia madre e mia madre si lasciava chiavare forte. Con me era diverso, papà mi avrebbe presto fottuto forte, ma io con lui non chiavavo, no, io con lui facevo all'amore.
Mia madre gli degnava le sue dismesse grazie solo una volta al mese e sempre contro voglia. Ma questa volta glie lo doveva. Glie lo doveva per aver acconsentito alla produzione del fosforo bianco e a cosce aperte con la vagina fracassata, già sognava nuove ricchezze incommensurabili.
Quella volta mia madre e mio padre ci misero davvero troppo. Ma poi mia madre finalmente uscì in vestaglia dalla stanza tutta sfatta e struccata, andando ciondolante fino infondo al corridoio svoltando poi per il cesso. Si mise a sputacchiare nel bidè, poi vi si accovacciò sopra, poggiò la testa pesante contro le piastrelle, e si diede alle svogliate abluzioni della sua fregna smontata.
Mio padre restava invece ancora disteso al buio dietro la porta socchiusa, e dalla stanza da letto fuoriuscivano i miasmi di sudore e di ormone a me cosi familiari.
Attesi con ansia che mi chiamasse, ma non mi chiamò. Allora mi misi a passare più volte per il corridoio e lasciarmi vedere ma non mi chiamò.
Attesi ancora una buona ora, poi sentii lo scroscio della doccia e allora corsi in camera piangendo. Quel giorno restai chiuso in casa tutto il giorno fino all'ora di cena con una zucchina piantata nel culo ed un calzino di mio padre in bocca, mitigando così la mia voglia irrefrenabile di lui.
Col tempo i nostri amplessi si diradarono, e non seppi spiegarmi le ragioni sottese al declinare progressivo del suo interesse per me.
Mi ingegnai ad essere più audace, famelico, mignotta! ma tutto questo non valse il ritorno della sua libido per me. Anzi, il suo membro si fece via via meno turgido e mi aggrappai all'ipotesi che stesse per diventare impotente.
Mia madre, alla quale mi rivolsi per raccogliere informazioni circa la sua prestanza nei suoi confronti, si stupì delle mie ossessioni ed escluse che papà fosse in impotenza perché le sbatacchiava la fregna come sempre e che anzi, si era rivolta al suo ginecologo per farsi somministrare una appropriata cura per le sue pareti vaginali così straziate a lungo dalla virulenza delle sue chiavate.
Intesi allora che il problema fossi io. Mio padre preferiva correre sul suo cavallo o veleggiare nelle regate piuttosto che trascorrere i meriggi in mia compagnia.
Semplicemente mi mancava.
Mancava il suo nervo confitto nel mio budello. Mi mancavano i baci con cui il marinaio bacia la sua mignotta del porto. Mancava farsi dare della sgualdrina mentre ingoiavo la sua sbobba.
Semplicemente mi mancava.
Eppure...
Eppure nel silenzio d'ovatta della mia stanza osservavo il mio corpo nudo davanti allo specchio dopo il bagno caldo.
Era mutato. Il mio corpo mutava. Tardivamente mutava. M'ero slanciato, m'erano cresciuti due glutei turgidi, e beneficiavo di due poderose cosce da calciatore pur non svolgendo regolarmente la mia ginnastica.
Avevo pelle liscia e il mio corpo si ammantava di pelo morbido sul ventre come sul pube o sulle cosce.
Mi asciugavo con cura dopo il bagno, e nudo mi sdraiavo sul mio letto, avvinto sulle lenzuola di seta bianca. Me ne stavo di pancia abbracciato al mio guanciale e languivo nel dolce pianto mentre inarcavo la schiena rilasciando dolcissimi peti innocenti.
Immaginavo il silenzioso ingresso del mio Lui, che si sdraiasse nudo sulla mia schiena sussurrandomi la parola che mi fece sentire importante: “piccolo”.
Ma la porta restava muta, tra dolcissime lacrime di sale poi io mi addormentavo.
Un giorno, sul labbro notai una velatura scura. Le mie parvenze efebiche stavano dissolvendosi tardivamente. E sul pube.. Sul pube mi spuntavano ogni giorno nuovi ciuffi di pelo ispido.
Cosa accadeva al mio grande specchio. Cosa succedeva in quella metamorfosi del corpo. E cosa erano quelle mie erezioni impellenti che non sapevo toccare.
Alla afflizione di quei giorni di "mancanza" si aggiunsero le preoccupazioni dunque di un mutamento del mio corpo sulla cui natura mi interrogavo ogni qual volta che nella stanza mi guardavo, nudo d'innanzi allo specchio, senza tuttavia darmi risposte.
Non ne parlavo in giro, le mie metamorfosi così repentine mi spaventavano, e se solo lo avessi fatto, avrei senz'altro avuto qualche motivo in meno per stare così.
I miei giorni trascorrevano plumbei e nulla mi risollevava se non la vista di mio padre. Nulla mi caricava di così grande speranza di un suo cenno di richiamo. Fui felice solo quando un giorno papà mi chiamò ed io corsi a raggiungerlo in bagno dove se ne stava di schiena a terminare la sua pisciata. Fece un breve cenno, ed io non esitai ad imboccare il suo membro non prima però avervi praticata una energica scrollata sulla mia guancia.
Facevo in modo che qualche goccia della sua urina flottasse nei pressi delle mie narici, sì che nella pompa al sapore di carne paterna si addizionassero gli effluvi della sua vescica.
Abbassai la tavola del water, mi ci accomodai e poi pompai, tremante nelle dita.
Ma il cazzo dì papà non diede cenno di irrobustirsi. Infilai le mani sotto la sua maglietta della salute, raggiunsi il pelo del petto, mi dispiegai con le mani aprendomi sul torso possente e vaneggiando in un mugugno di piacere disperato. Le mie mani disegnavano un gran cuore per poi ricongiungersi in basso sul suo ventre, nel punto mediano tra l'ombelico ed il pube, sul quale esercitavo nella pompa la dovuta pressione, spingendovi con insistenza quasi a voler aizzare il nervo che avrebbe tirato su l'asta.
Ma niente. Pompai ferocemente, rabbiosamente direi, quando d'un tratto sfilò via il tutto e tirò su la braga.
Si voltò e scomparve dietro l'uscio della porta senza proferir parola.
E niente. Fu chiaro a questo punto che a papà non interessavo più.
Corsi nuovamente da mia madre per raccontarle tutto. Ma in quel momento stava nella sua camera oscura a sviluppare le sue foto artistiche in bianco e nero sull'eccidio dei cerbiatti.
L'attesi dietro alla porta e quando usci dalla camera tutta ringalluzzita sospirò "sono la regina del verismo".
Mi guardò sorpresa, sollevò la sopracciglia e mi disse "che cazzo vuoi".
Le raccontai dì papà ed ella divaricò le narici per trattenere un moto di ilarità. Parve divertita dalle mie parole nonostante la sua ostentata serietà facciale ed il mio terribile stato d'animo.
Poi mi lasciò finire. Mi disse ci penso io. Mi afferrò per il polso e mi trascinò dalla sua merciaia.
Nella bottega della merciaia mi vidi nudo e perplesso davanti allo specchio, con in dosso in intimo di pizzo completo di baby doll. Mia madre poco più in là firmava l'assegno e mi ingiunse di rivestirmi in fretta.
A casa poi, fuori dalla porta della mia stanza la servitù sghignazzava mentre mia madre, con l'ausilio della nostra sconcertata governante, mi agghindava a festa come una geisha, ripetendomi che stavo vistosamente perdendo le mie efebiche fattezze, che era opportuno per papà che io divenissi totalmente - e finalmente - la più puttana delle puttane.
Mi strappò sadicamente le carni con una brutale ceretta divertita. Lei strappava e fumava, strappava e fumava.
- Ma mamma.
- Zitta. Farai un figurone. Sono quasi gelosa. A papà gli scoppierà il cazzo solo a guardarti, non è cosi Laila?"
Laila, la governante, non si voltò e restava di schiena a raccogliere le suppellettili e le creme con cui mia madre aveva apparecchiato su di me il suo trionfo. Mia madre si voltò a me, mi strinse le spalle e mi scosse dicendomi intensamente e quasi con aria truce,
- Tu non sei una puttana figlio mio, tu sei La Puttana! Vorrei trovarti un nomignolo, che ne so, Donatella. Ti piace Donatella?"
Io tacqui e lasciai che perplesso mia madre mi annodasse al collo un nastro di raso nero, con un grosso diamante sotto il mio nascente pomo d'Adamo.
Finito l'annodamento ed il mio annientamento, mi guardò ancora intensamente, si sollevò e sbattendo le palpebre con la bocca imbambolata, proferì sussurrando,
- "Big Zoccola".
- Mamma…
- Ora vai
Vai ti ho detto, aggiunse voltandomi semi nudo e dandomi uno scappellotto sulla chiappa.
Uscii dalla stanza correndo a passi stretti conciato così verso la stanza di mio padre, mentre dal corridoio sentii mia madre ridacchiare dietro la porta.
Afferrai la maniglia e seminudo feci un profondo sospiro. Aprii lentamente la porta della camera matrimoniale.
Mio padre dormiva riverso sul fianco, con la guancia sul cuscino adagiato sul braccio teso. La gamba poi ripiegata su un altro cuscino su cui si dava appoggio nel sonno. Vidi mio padre cosi. Bellissimo, dalla pianta del piede al gluteo fasciato da candide mutande dall'elastico morbido alla coscia da cui fuoriusciva un suo bellissimo testicolo.
Russava appena. Col passo felpato raggiunsi il talamo nuziale, per poi accostarmi al bordo del letto ... E sollevando lentamente il lenzuolo, mi ci infilai cautamente sotto di esso.
Con movenze sicure e liquide mi accostai alla schiena di mio padre. Vi poggiai la coscia sulla sua, portai il braccio sul suo e annusai la nuca.
Baciai il suo dorso quando si scosse un po' nel dormiveglia e mi afferrò il polso posando la mia mano sul suo wurstel.
Avevo il cuore impazzito. Trattenni il respiro e udii il battito del mio cuore propagarsi nella stanza. Pigiai ripetutamente con l'indice ed il pollice l'estremità della cappella e mio padre era già pronto per la spremitura.
Presto, dalle dita, l'appena ruvido del cotone fibrato si fece di un umido vellutato sulla punta della minchia.
Deglutii. Lui dormiva.
Allora mi ritirai e lentamente fuoriuscii nuovamente dalle lenzuola.
Mi sistemai le pinze degli autoreggenti che non so perché ma si staccavano sempre, e poi corressi il filo sottile di pizzo tra le mie natiche, sentendomi a disagio in tutto quel silenzio, in quell'insolito intimo scozzese e mi sentii cosi eccitato che pensai per me quasi imminente la mia morte, tanto il mio cuore palpitava.
Nel sistemarmi la mutandine sul retro approfittai per tastarmi il culo.
Lo sentii bagnato. Mia madre aveva ragione. Dentro le natiche non avevo un buchetto, avevo una fica, sempre desiderosa di essere occlusa.
Feci dunque il giro del letto. M'inginocchiai, e presi a palpare il testicolo sinistro, come si palpa un kiwi per testare la sua maturazione.
Il wurstel di mio padre sotto la stoffa si irrorava e bagnava di continuo le mutande che iniziava a tendere nell'esordio dell’erezione.
Poi, con l'altra mano tastai anche il secondo testicolo, spremendolo con dolcezza. La mazza prese a pulsare sotto la coltre del precum e allora volli di più. Col palmo della mano che infilai sotto le cosce massaggiai entrambi i testicoli, per poi esercitare la flebile pressione con ritmo costante e senza pause. Con il pollice e l'indice dell'altra mano disegnavo invece i dorsi della cappella che fuoriuscita intanto dal limite elastico delle mutande, facendo capolino e riversando amorevoli liquidi maschili in copiosa portata.
Tremavo nel massaggiarlo a quel modo mentre mi reggevo in ginocchio sulle mie caviglie che presero a barcollare. Portai il ginocchio in terra e lasciai la dolce presa delle dita sulla cappella per raggiungerne l'uretra con la mia bocca.
Ma prima volli ancora leccare dolcemente il cotone intriso delle sue mutande, poi succhiai la base umida del fallo e quando giunsi al termine della mia pratica succulenta ingoiai il frutto del mio lavoro.
Degustai la fragranza e il retrogusto delicato dove presentivo lo sperma, e mi pervase sulla schiena un brivido che raggiunse i miei lombi dilagando nel tremore che nel mio buco pulsante raggiunsero l'acume.
Avidamente mi protesi nuovamente sul corone e con la lingua a punta, dipinsi arabeschi d'amore, mai mollando però la spremitura di maschio praticata col pugno e con dolce decisione alla base testicolare.
Dipinsi volute, ornamenti, turbinii e svolazzi di lingua sull'umidissimo cotone, risalendo poi la mazza per assaggiare il glande meraviglioso uscito per metà dall'elastico della vita.
Mi abbeverai alla sua sorgente e baciai il colmo dell'uretra prima di risucchiare nella mia gola la sua stessa vita liquida che solo in seguito seppi chiamare precum.
Poi papà passò dal sonno alla veglia, restando però ad occhi chiusi, e con la mano egli afferrò il mio polso sinistro facendomi mollare la presa, forse perché esausto dalla spremitura. La sua mano raggiunse allora l'elastico delle mutande che abbassò lentamente svettando di minchia tutta attrezzata dei suoi coglioni, tutto di fuori, perché' ammirassi la grande bellezza di un cazzo da infarto.
Io?
Io in quegli attimi balzai affondando il tutto nella mia gola e finalmente... Finalmente mio padre godeva delle mie polpe orali. Mugugnava, ed io con lui.
Guaii come un cane che ritrova il suo padrone e per poco non piansi di gioia con quella minchia lirica confitta in gola.
Con le mie ginocchia allo scendiletto, reggendomi nella trazione dei piedi a punta, lasciai colare un po' di saliva commista a precum, per poi adagiare quell'impasto festoso sulle mie dita che portai sotto di me. Sbocchinai e mi diedi felicemente ad una immensa sditalinata di fica.
Sentii contemporaneamente il piacere anale e quello orale, che è una esperienza bellissima, ma non di meno il mio organo genitale secondario, ossia il cazzo, prese a pulsare per l'eccitazione.
Fu cosi, che perduto nel deliquio mi sollevai, diedi una sistematina agli autoreggenti e slacciai il fiocco del baby doll lasciandolo cadere sulle spalle fin verso terra.
Papà apri gli occhi, e in quel momento atteggiai un sorriso dolce e un pochino mignotta, esclamando "da oggi sono Donatella, è il nome che mi ha dato mam'.."
Non finii la frase che mio padre mi tirò uno schiaffo da finire contro il comò. Neanche il tempo di risollevarmi che un manrovescio mi guastò la guancia e finii quasi morto in terra. La seconda botta fu così violenta che dal comò si staccò lo specchio finendo in frantumi a terra nel fracasso di centinaia si schegge.
Coprii il volto dal terrore.
Udii i talloni nervosi di mio padre dirigersi verso la porta che fu aperta di scatto e poi risbattuta.
Più in là della porta si propagarono le urla di mio padre contro mia madre da terrorizzare tutti i domestici ma sentii lei incapace di completare una parola perché piegata dal ridere.
Poi udii una raffica di schiaffi allora sentii piagnucolare mia madre che prese a correre per il corridoio.
In quel trambusto uscii di corsa dalla stanza di mio padre. Raggiunsi la mia camera trafelato e con adrenalina in dosso per il terrore.
Mi spogliai in fretta, lanciai tutto dalla finestra. Chiusi la porta a chiave e mentre di là divampava l'incendio delle urla, il terrore fu così forte che sentii freddo e corsi sotto le coperte ove mi rannicchiai tremando e sudando ghiaccio. Poi sentii un calore fortissimo e mi abbandonai al sonno.
Cosi un giorno si muore per un padre, e un padre così muore per mano del figlio.
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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