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004 GLI ANNI DEL CASTIGO - [ HUNGARIAN RHAPSODY ]


di CUMCONTROL
26.08.2019    |    8.078    |    12 6.2
"E soffrivo… perché non mi cercava più..."
Dubitai forse per la prima volta in vita mia che un dio potesse occuparsi di tutte le disgrazie del genere umano.
Ho ricordi vaghi di quando vivevo con mamma e papà. Mamma mi aveva stregato, come d’altronde aveva stregato mio padre. Mamma era disturbata, ma da sempre per me, il centro di ogni cosa era mia madre. Era l’essere più adorabile e crudele del mondo, con quei capelli neri portati alti sulla testa e quella parlantina incessante, frivola, ma tutt’altro che inconcludente.

Mamma e papà si erano conosciuti in una festa da ballo in Sud Africa. Papà era andato là giù per combinare affari per le sue industrie belliche. Mamma invece si recava sovente in Sud Africa per passare travolgenti safari cui si dava un gran da fare a sparare agli elefanti cui strappare l’avorio di cui andava matta.
- Sapessi CUM
- Cosa Mamma?
- Tuo padre era di un bello. Notti di luna piena in coperta su di un natante di famiglia a largo di Città del Capo. Non hai idea di come sia romantico.. Cieli bui e le stelle come tanti gioielli … porti stranieri e quei fantastici bazar, carichi di una umanità disgustosa, certo, ma servile. Questo magnifico braccialetto.. Oh, il giorno in cui mi chiese di sposarmi..

Mia madre era innamorata di mio padre ma era affetta da un insostenibile frigidità. S’era persuasa che gettandomi fra le braccia del padre, avrebbe tenuto la famiglia unita, avrebbe circoscritto il satirismo di papà e si sarebbe astenuta dallo “sporcarsi” nelle cose del sesso. Aveva un deplorevole concetto di purezza mia madre.
L’incesto è un vizio molto praticato tra le famiglie dabbene, e questo non si sa abbastanza. L’incesto è l’escamotage con cui l’adulterio fra coniugi si conserva lontano dalle malelingue. Tutto resta dunque in famiglia, tra le famiglie dabbene.

Dopo il mio diciottesimo, dopo una lunga fase “formazione mentale”, mamma mi gettò nella sua alcova.
All’inizio lo ammetto, all’inizio mi ripugnava la sapidità albuminosa dello sperma paterno. All’epoca papà aveva 48 anni. Era un uomo prestante, taurino, con una verga che confitta nel mio budello poteva dar bene l’idea circa lo strazio che mia madre provava nel riceverlo in vulva.

Ma dai forti dolori intestinali e le coliche a cui mi prestai, fecero seguito apprezzabili stupori di ventre di cui mi riuscì molto difficile farne a meno. Dovevo far scopare papà tutti i giorni, queste furono le direttive di mamà, ma guai ad innamorarsene.
Mamma si incaricò personalmente nella supervisione della mia pulizia anale prima di ogni amplesso, facendomi dei clisteri madornali e somministrandomi fermenti lattici vivi perché non patissi di alterazioni della flora batterica indotta dai ripetuti lavaggi. Se uscivo dalla camera paterna per accomodarmi sul bidè, nell’ espellere i secreti testicolari di mio padre, mamma veniva subito a controllare che la materia schizzata fosse di un bianco “puro”.

D’altro canto, i miei genitori progettarono le mie finalità su questa terra in tempi non sospetti, ma quando compii i miei 18 anni mamma mi gettò in pasto a papà.
Fin che sul mio corpo non vi fosse traccia di peluria, io ci passavo i pomeriggi interi a cavalcare la grande mazza di papà, tra le persiane socchiuse, le tende candide smosse dalla brezza e tra volute di ferro battuto del letto nuziale.
Con la mazza confitta nell’ano, io emigravo via lontano, perdendomi nei deliqui più celesti.
Il bisogno di cacare che la mazza mi suscitava nei suoi affondi ripetuti, era per me occasione di grandi piaceri rettali. Resistere per ore alla minchia confitta nelle restrizioni degli sfinteri, era per me un grande atto d’amore, e di coraggio.
Insomma, avvertivo gli incipienti bagliori di un orgasmo di prostata. Ed io così pregavo.

Ma se per molto tempo i miei amplessi restavano un mero atto carnale, pian pianino mi sentii psicologicamente coinvolto. Mi sentivo come un essere eletto e infecondo, tuttavia funzionale alla riproduzione della specie. Mi illudevo che il mio ventre fosse la sede feconda rubata a mia madre, ove il suo seme andava a dormire.

Con papà andò alla stragrande fino a quando – tardivamente – il mio corpo prese ad ammantarsi di un vello delicato, poi ispido, poi abbondante. Stavo diventando uomo. Mio padre si fece sempre più riluttante a possedere un corpo non più efebico. Le sue brame dionisiache recalcitravano alle mie esordienti vesti naturali di maschio. Ero troppo maschio.
Prese a non cercarmi più. Io ne patii.
Si, ne patii. Di mio padre ne ero soggiogato, innamorato. E soffrivo… perché non mi cercava più.
Confessai a mamma del mio amore per papà e le chiesi aiuto affinché mi aiutasse a rendermi nuovamente appetibile ai suoi occhi.
La mia confessione d’amore per mio padre fu per lei una vera dichiarazione di guerra.
Fu la violazione del patto che stavo dimenticando, e mamma me la fece pagare.
“Tu con tuo padre ci devi solo scopare, ma guai se ci metterai qualcosa di più”. Questo era il patto di famiglia.

Fu per un suo disegno occulto che si liberò di me, e segnò per sempre il mio destino.
Sulle prime mi consolò, poi mi convinse che avrei dovuto far regredire tutta la mia peluria e allontanare nel padre il pensiero che gli atti sessuali con suo figlio non fossero di natura eminentemente “omosessuale”. Se fossi tornato efebico avrei avuto una nuova chances dalla vita. Non esitai. Mi feci sottoporre a strazianti cerette e divertita mamma mi vestì con autoreggenti, perizoma e tanto di baby doll.
“Big Zoccola” ebbe a definirmi a lavoro concluso.
Andai da papà così conciato. Papà dormiva e quando aprì gli occhi ricordo di una raffica di calci e schiaffi in faccia. Anche mamma le prese di santa ragione quella sera, con la sola differenza che io mi chiusi in camera atterrito e mamma, mamma se la rideva di pancia nonostante gli schiaffoni.

Papà dispose che andassi via. E mamma… mamma seguitò nella sua commedia.

--------------

Del mattino dopo ricordo molto poco. Ero vestito come uno scolaretto, lavato, profumato e col capello in ordine di brillantina.
Ero nel piazzale sulla ghiaia che stava davanti alla dimora settecentesca della mia famiglia.
Ero col mio cappotto scuro. Pioveva a dirotto e sopra le cime degli alberi Dio aveva disteso una gigantesca lastra d'ardesia a tumulo del mio amore perduto.
Nulla tormenta di più il cuore dell'amante, quando l’amato nutre per lui il solo disprezzo.

Attorno a me i domestici di famiglia si davano un gran da fare a caricare il baule delle mie povere cose nella berlina scura.
Dal colonnato della grande casa ecco che uscì mia madre che per l'addio s'era preparata di tutto punto.
Aveva in dosso un tailleur scuro che le era stato cucito su misura per quella solenne pantomima orchestrata da tempo. Mia madre indossava scarpe di vernice e collana di perle in una sobrietà luttuosa.
Aveva un trucco pesantemente scuro, attorno agli occhi. Reggeva un bouquet di gladioli e ortensie con un cascame di edera approntato con sommo gusto manco si trattasse di una Medea qualunque sul carro colmo della sua progenie senza più vita sul finire della tragedia.
Mia madre poi... In capo ebbe cura per l'occasione di portare un cappello, con veletta nera che le copriva il volto prostrato dalle esequie.
Eccentrica. L’attrice addolorava un pubblico assente nel folle suo teatro dell'assurdo.

Né io né lei osammo avvicinarci.
Io sotto la pioggia a fissare il baule, lei sullo scalone al riparo dal colonnato a recitare immobile la sua parte.
Dalle scale scese in fretta Laila, la governante, che ebbe cura di accostarmici di fianco ed aprire l'ombrello.
Poi, quando gli inservienti chiusero il pianale della berlina, senza degnare di uno sguardo mia madre mi infilai in macchina.
Mia madre singhiozzò teatrante un "ti scriverò tutti i giorni ninni mio" e poi si voltò seguita dai domestici.
La udii strillare da dentro casa.
Doveva cacare, e la carta igienica porca puttana non era mai al suo posto!

Laila si piegò e posò le sue labbra sulla mia fronte, e accarezzandomi il viso mi disse "abbi cura di te".
Laila chiuse la portiera e la casa scomparve tra le siepi sotto la pioggia.
Non rividi più la mia casa.


Viaggiai per 10 ore tutto il giorno, con mee muto e con un autista taciturno.
Finii in un collegio a 9 km da Ginevra, un gotico monastero sulle rive del lago ove la buona borghesia del mondo "ricoverava" là giù i suoi rampolli più sfortunati, affetti da effeminatezza o altre devianze comportamentali. Bello scherzo, no?
L’istituto era un vecchio monastero, roba da film, gestito da un nutrito gruppo di frati di una fede protestante, oggi dismessa per gli scandali che la travolsero nel 2001 e per effetto della magistratura italiana.

Giunsi in una fresca mattina poco dopo un breve acquazzone che infuse nell'aria un inebriante profumo di latifoglia . Alzai lo sguardo, e mi impressionò la maestosa austerità di una gotica costruzione monastica, fatta di ampie trifore con pinnacoli e guglie svettanti insieme ai cipressi tutt'intorno.
Tirai su i miei calzini bianchi sotto i calzoni e respirai profondamente per compiere il grande scalone di pietra sotto il cui portale di ingresso attendevano dei prelati. Entrambi tastarono il pacco al solo vedermi. Percorsi i primi cento metri di un immenso corridoio interminabile, quando uno dei due prelati fece segno all’altro di far da piantone, e fui immesso in un ripostiglio delle scope ove fui svestito a strattoni.
Anche se avevo una certa consuetudine nelle cose del sesso, non trovai affatto eccitante quella circostanza per me nuova. Un estraneo mi svestiva incurante delle fatiche del viaggio. Fui sospinto verso il muro e dovetti prestarmi ad una leccata di culo che il prelato famelico si apprestò a praticarmi con avidità sorprendente.

Posai la mano sul muro, e sul dorso di essa posai l’altra. Accostai la fronte e tenni chiusi gli occhi e gli sfinteri, sì che del viaggio temessi il soffio dell’aria, ma egli ebbro in volto fu avido della fessura e mi costrinse con le mani a cedere le mia natiche aulenti alla lingua bramosa.
Ansimai nel terrore d’esser violato perché mai avrei creduto di altri la fessura che promisi al padre. Ma il prelato mi risucchiò le polpe e penetrò di lingua i miei recessi oscuri. L’umido lo inebriava.
Poi mi voltò, e calatomi del tutto l’elastico si apprestò a risucchiarmi i testicoli. Succhiò come un satiro la mia cappella ed io sgorgai inerte le anteprime del mio sperma. Fui succhiato e leccato dall’uomo in abito talare eppur mi parve di piangere. Egli scorse nel volto mio un antico dolore, e rispose ai miei tormenti sollevando i suoi ginocchi. Mi accarezzò il viso. Lo vidi in volto. Era un uomo di buona specie, dagli occhi buoni e bramosi, dalle labbra dal disegno nobile e lucente sotto la barba dai riflessi rosseggianti. La sua bocca sapeva di fresco. Cercò le mie labbra e fu lì, in quel preciso momento, che irruppe il mio pianto.

Mi rivestì con grazia. Mi ricompose i capelli. Dal taschino sfilò un fazzoletto di seta e dipinse i miei occhi asciugando così le lacrime.
Poi uscimmo, disse qualcosa al fratello, ed insieme mi accompagnarono nello studio del direttore.
Il corridoio era solenne. Cattedratico. Ai lati ogni effige di santo accompagnava il mio cammino verso la grande porta dalle borchie d’oro e che stava infondo a quel cammino celeste.
Il direttore mi accolse. Alle spalle della grossa figura troneggiava un grande quadro ad olio, con ritratto sullo sfondo una crocifissione di massa fuori le mura di una città di pietra, ed una madonna in primo piano, vestita di stracci lisi e consunti, e con in mano un piatto di insalata e gamberetti. Mostrava un viso soave, gaio, strizzando un bizzarro occhiolino. Bah.

Il direttore parve un uomo affabile e mi pregò di accomodarmi al di là della sua scrivania perché fossi istruito a riguardo delle regole dell'istituto e di come sarebbe stato scandito il mio soggiorno in quel luogo.
L'uomo togato recava mani gonfie ma aveva unghie curate. Aveva grosse labbra lucenti e informi come due würstel cuciti su di un volto largo e rubicondo. Aveva due occhioni sporgenti e una ampia fronte ornata in sommità da un riporto spaventoso.
Si vantò di essere l'unico istituto al mondo per giovani di alto lignaggio spediti in quel luogo dalle loro famiglie del vecchio continente e non solo. Famiglie demoralizzate, affrante, umiliate per le effeminatezze di figli venuti su con qualche devianza innata del proprio comportamento. E che comunque si affrettò a dirmi non v'era alcun motivo di preoccupazione da parte mia, dato che fin che la mia famiglia avesse versato le dovute rette alla congrega, con pazienza sarei divenuto uomo.

Mi chiarì della sveglia alle quattro, delle preghiere del giorno e di come la mia giornata si sarebbe organizzata in due fasi distinte.
La prima fase della mia giornata verteva sulla educazione cavalleresca ma in chiave moderna. Sarei stato istruito all'equitazione, al calcio, al rugby, lezioni di piano, di greco, latino e applicazioni meccaniche. In altri termini avrei dovuto imparare tutto in fatto di motori ed essere in grado di ripararli in quanto prima che uomini occorreva diventar maschi.
La seconda fase della mia rieducazione avrebbe avuto luogo subito subito dopo i vespri, dal cui momento i nostri educandi si sarebbero dispensati dai doveri della nostra ferrea educazione. Chiarì solenne che anche i prelati avevano diritto a rifocillarsi dalle fatiche dei loro duro ministero. Ma sul merito non mi furono impartiti ulteriori dettagli.

A quel punto scoppiai in lacrime e spiegai al direttore che fu per causa di mia madre che fui travestito con pizzi e unguenti. Era stato un maldestro tentativo per sedurre mio padre, ma io non c'entravo niente, che io non sapevo nulla di cosa volesse dire maschio o femmina, che io con le bambole non ci avevo mai giocato, che io volevo solo un gran bene a mio padre, un bene disperato.
Poi crollai in un singhiozzi scoraggiati e tra i gemi e le lacrime raccoltesi fino alla punta del naso, a tratti riuscii ad esprime a parole tutta la disperazione della mia condizione di rifiutato, del disconosciuto, dell'abbandonato per sempre.
Nel pianto io mi dannavo. Piansi di fronte al prelato, e non seppi dire null'altro, precipitando in singhiozzi inarrestabili senza più conforto, né requie.

"Bambino non piangere" mi disse con voce spezzata quell’uomo di chiesa.
E cosi fece con l'alzarsi, fece con gravità il giro della scrivania e venne cingermi il capo.
Seguitai nel mio pianto se possibile più disperato che il prelato vedendomi in preda ad una sofferenza incolmabile, mi tenne stretto fra le sue vesti, accarezzandomi i capelli e ascoltando in silenzio tutto mio dolore.
"Ascolta" mi disse.
"Ascoltami" ripete' il vecchio posandomi il viso tra i palmi ed indirizzando all'insù il mio sguardo.
Soffiai il naso alla meglio prima di fissare il prelato.
Allora il prete, con lo sguardo misericordioso mi fece alzare e sedette al mio posto. Mi prese entrambe le mani, che le potò in giù cosi da suggerirmi di mettermi in ginocchio d'innanzi a lui.
Avvicinò la mia testa al grembo ed accarezzandomi la nuca mi disse..
“Non temere, non hai nulla che qui potremo curare. Scriverò ai tuoi, e tra qualche giorno tu ritornerai da loro”.
Sentii le sue mani benevoli sul mio capo. Per la rima volta nella mia vita sentii che un uomo, anche se di tarda età, pur non conoscendomi, provava per me un affetto vero.
Lo guardai. Mi guardò compassionevole striando le sue labbra in un sorriso sornione. Buono.
Smisi di piangere.

Poi mi allontanò da sé con dolcezza, sì piego in avanti ed afferrò i lembi del suo abito talare che sollevò drappeggiandolo sulle ginocchia. Lo guardai. Di seguito portò le braccia in alto, e raggiunse con le mani la propria nuca, liberando il collo dall’abito stretto. Infine riprese i lembi del vestito che sollevò fino al ventre, per poi protendere un fallo scurrile, incustodito da mutande assenti. Si lasciò scivolare un poco sulla seduta vibrando in etere la mazza.
Lo vidi cosi, fermo, a gambe nude e oscenamente spalancate, con i calzini neri smollati alle caviglie, le scarpe lustre. Che schifo.
Si dispiegò nell'aria un odore acre di sapone al sandalo, commisto a latte e ….e parti intime mal lavate.

Quel florilegio aulente di ammorbanti fogne poteva dirsi l'esito aeriforme di una sommaria pulizia, per altro tipico negli uomini di chiesa. Vidi il suo membro ansioso che nelle pulsioni della cappella intensi voler essere da me assaggiata.
- Non voglio
- Vieni a me e succhia mio caro.
- Non me la sento.
- Succhia figliolo se è di questo che senti il bisogno.

Io restai immobile, in ginocchio con le braccia tese su di questi, e non seppi annuire, ne' proferir verbo. Ero paralizzato. Atterrito.
Restavo immobile con gli occhi ancora madidi di lacrime. Tirai su di naso e deglutii a fatica.
"Coraggio, cucciolo".
Timidamente avanzai di qualche passo con le ginocchia, protesi la schiena e afferrai il cazzo con la mia mano tremante.
"Coraggio"

Mi grattai il capo, mi voltai alla finestra maneggiando su e giù quella minchia senile come se la cosa non mi riguardasse. Poi il mio sguardo si pose su quella nerchia insana dall’ogiva rubina e ripugnante.
Lo masturbai con più decisione. Ma poi rallentai la manovra e guardai in terra, quasi paralizzato dal mio stesso imbarazzo.
Il prelato impegnò la sua mano sulla mia nuca. Lo fece con una dolcezza ma anche con autorevole risolutezza. Incoraggiò il mio capo verso la minchia, al cui cospetto dovetti indirizzare il mio sguardo per forza di cose.
L’odore acre delle sue parti basse mi suscitò il tumulto dello stomaco, ma optai per l'eroica apnea e con una decisa fallatio pur di dispensarmi in fretta da quella orribile costrizione, sopportando i puzzi e gli improvvisi conati di vomito.
Contai nel silenzio il tempo che speravo breve per la sua venuta a aborra. Ne anticipavo l'orgasmo mettendo in campo tutto il mio armamentario. Palpeggiai di punta con la lingua la sua uretra, addentai con garbo il frenulo, percossi le creste del glande. Il risultato fu un’erezione granitica ma lo sperma si attardava. Gli praticai allora il massaggio testicolare palpandogli le gonadi con le dita e capitolai la mia imminente resa infilando la lingua tra le palle e la seduta umida della sedia. Gli leccai il perineo e le contrazioni dell’ano furono tali da ripagarmi con effusioni impure.

Eccitai il verme. Mi sovrastava gaudente reggendosi ai braccioli con scossoni di un bacino fremente. Mi feci coraggio, infilai il dito nella sacca oleosa del suo deretano e ignorai nell’apnea ogni riscontro. Poi con la mano compresse mia testa sul suo genitale da invitarmi alla sbocchinata. Mi parve di soffocare ma assecondai i propositi del togato. Eseguii a suo carico un sonoro risucchio. Ricordo che sbavavo. La mia stessa saliva mi difendeva da quella carne. Lui mi guardava, fissandomi lungamente e reclinava poi il capo ora a destra e ora a sinistra. Il suo labbro inferiore proteso in avanti risucchiava l'aria fra i denti, e ad ogni affondo lui ripeteva "dio che puttana".

Presi la corsa finale di bocca, impegnando ogni singolo muscolo o tendine o ancora nervo del collo, fino a che la minchia di quel verme non sospinse in superficie gli acri liquami della sua lussuria. Il getto del prelato fu una penosa sgorgata senile senza schizzo. Mi risparmiò l’ingoio. E così al suo piccolo capriolo, così impaziente di tornare ai boschi natii, fu data pace.
Mi sfilai lentamente dai drappi della toga. Emisi un lamento nell’ultimo conato.
Vidi il togato sciattamente disteso sulla sedia, abbandonato nel rantolio di un respiro via via più flebile.
Tossii, e mi guardavo intorno alla ricerca di un luogo ove sputare i viscidi liquami. Ma restai immobile, udendo il rantolio del vecchio. Poi emise un lungo respiro. A fatica si appoggiò alla spalliera e si accomodò meglio.
Poi si guardò il membro floscio e mi disse "prendimi l'acqua, devi pulirmi".

Lo feci.
Mi alzai, mi accostai ad una sorta di acquasantiera ornata di putti cornuti dal fallo eccitato. Presi l’asciugamani, lo intinsi nell’acqua tiepida e mi voltai all’uomo. Mi inginocchiai, deposi il panno sul pisello smunto del vecchio. Mi chiese di baciarlo.
Con quel bacio e con gli atti che precedettero quel gesto, io ipotecai ogni mia speranza. Un salvacondotto per un ritorno a casa.
Un patto tra uomini.

Ma gli uomini son lupi.

Ed io non lo sapevo ancora.






HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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