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IL GIRONE DELLA M - ATTO QUINTO - "IO.VOLEVO.VIVERE"


di CUMCONTROL
22.07.2015    |    7.993    |    7 7.0
"Ansimavo, le mani mi tremavano..."
Uscii dal piccolo cesso e richiusi la porta alle mie spalle….
Ehm, ricorderete l’episodio precedente, vero? L’esperienza del bidet e la lotta nel cesso sono state esperienze sublimi che ho rivissuto con erezioni inaudite nell’esercizio postumo della scrittura. Ci sono atti di questo Girone che andrebbero riletti, e scoprirete sfumature sottili di una psicologia occulta, malata, deviata… e disgraziata.
Bene signori cari, bisogna che vi dica che quanto vi apprestate a leggere è l’intermezzo calmo nel caos della mia opera merdosa. E’ come ascoltare un CD ed imbattersi in una traccia centrale del disco, nelle note melanconiche dove l’acustica riposa e si spalancano oniriche vedute alari, prima che lo scalpitare riprenda a battere il ritmo delle danze, fino alle battute catartiche del gran finale.

Siete nel punto preciso della mia opera in cui il protagonista si addentra nelle sue riflessioni, nei suoi ricordi. Ci serve la riflessione che qui si racconta. Ci serve per capire la psicologia di quel protagonista sprovveduto che voi tutti avete imparato a conoscere. Ci serve. Ci serve per comprendere la patologia di cui era affetta l’anima oscura del suo aguzzino.
R.I.K.Y. Lo pronuncio con ardore ancora oggi, nel sonno come nel primo mattino. Riky. Il suo malanimo fu per me il metro con cui presi a misurare le grettezze degli uomini che dopo di lui incontrai nel mondo.
Il vostro autore, CUMCONTROL, vi grazia di questo suo brano.. assaggiatelo con dolcezza e siate carichi di pietas cristiana nel giudizio che eserciterete sul suo protagonista.

Sono le pagine degne di un opera grandiosa, e queste pagine signori, queste pagine le assaggerete e direte che sapranno di miele… ma anche di fiele.
Sù il sipario


IL GIRONE DELLA M – IO. VOLEVO. VIVERE.



E così uscii dal piccolo cesso e richiusi la porta alle mie spalle….
Nella bocca mal gustavo l’aroma pungente di quella formaggia. La saliva operosa sfaldava i granuli di materia che sul palato, tra i denti e sulle gengive emetteva una fragranza interna di formaggio, di ammoniaca, di piscio e di un putridume incerto. Questo miasma di putrido io lo provai ancora per molto, dopo ripetute deglutizioni. Nella bocca mi restava quel tanfo umano che solo uomini traviati agognano, mentre tutte le donne ripudiano.
Feci che aprire il frigorifero per mandar giù dell’acqua. Riky se ne stava di spalle, affaccendato nel preparare il pranzo per i 43 invitati. Emise un sibilo dal culo che restava sodo e visibile sotto i pantaloni della tuta. Quando lui scorreggiava suscitava in me il tumulto delle emozioni. Mi eccitava. I primi tempi mi lasciava annusare ed io avevo la minchia che letteralmente piangeva di precum per la troppa eccitazione.
E’ bello provare su di sè il vento interno dell’uomo che si ama. Leccavo quel culo con devozione cristiana ad ogni sua flatulenza. Amavo i sibili ma anche le loffie virili e sonore. Talvolta facevo in modo di ingerire il suo metano ed egli si divertiva, sorpreso che un uomo dolce come me potesse avere di queste strane fantasie.
Io non avevo strane fantasie. Io non le avevo mai coltivate. Io ero stregato da lui.

Bevevo il suo nettare bianco con l’avidità dei cinque sensi, ma presto quel nutrimento non mi bastò più. Di lui bevvi allora dal calice dell’amore il fiume paglierino che attraversava tutti i giorni la sua divina uretra. Ma anche questo di lui non mi bastò più. In segreto leccai le strie odorose delle sue mutande e volli per me l’aria che egli stesso respirava.
Giorno dopo giorno io mi smarrivo nell’estasi, e nell’abbandono io perdevo l’ esercizio della dignità sulla mia persona. Agli occhi del cieco in amore, questa devozione totalizzante non fu che lo spettacolo della degradazione che gli si esibiva davanti. Egli non vide più l’oggetto da amare. Vide il giocattolo da giocare. Su me tutto fu presto accordato, e quando si accorda tutto, al cieco in amore si aprirono le porte dell’oscuro arbitrio.
Si divertiva a tal punto da tenere chiusi i finestrini per ore nei nostri lunghi viaggi di piacere. E rideva e rideva. Rideva nel vedermi soffocare dal puzzo che esalava. Io sfoderavo la mia minkia e la agitavo come una spada nell’aria molesta di quell'abitacolo, perduto nell'estasi che inebetiva la mia faccia mentre egli rideva così tanto da lacrimare. Era bello quando rideva. Aveva denti perfetti, bianchi, lucenti …..e ridenti. Io non vedevo che lui. Lui non vedeva che il giocattolo su cui tutto si poteva licenziare.

Pensai al nostro amore che nacque tra le faville di un camino in un giorno d’ inverno. Il nostro amore si fece grande poi tra le lenzuola di baite bellissime e raggiunse l’apice nell’alcova maestosa e velata della sua camera da letto, in lunghe notti di lune d’argento. Il nostro amore degenerò poi nelle vespasiani, e si spense infine soffocato sotto i cumuli della merda.
Ora erano mesi che non mi concedeva di annusare più la sua aria, nè sfiorargli il culo, nè di baciarlo. Non mi rivolgeva più una parola che non fosse di servizio, o di bestemmia, di dileggio o mortificazione. Gli divertiva. Oppure agiva con lunghi silenzi, chiuso nella sua mente operosa, perduto nella costruzione di propositi impenetrabili. Di lui potevo però ingoiare il suo nettare bianco e si ingraziava l’affetto dei suoi cari prestandomi a sborratoio. Diceva spesso loro che ero un cesso umano da migliorare. Ero orinale, e voleva di me farne presto latrina.

Mi allontanava. Si, lui mi allontanava da ogni emozione umana. Mi allontanava da sé e dal consorzio degli uomini. E più mi allontanava, più ardente io sentivo il bisogno di lui. L’amore “è” una malattia.
Ora scoreggiava in cucina come si può scoreggiare in casa propria. La cosa non lo divertiva più. Mentre io con la bocca di formaggia lo guardavo, deglutendone i rimasugli, lo osservavo di schiena. Se ne stava ricurvo ed affaccendato a tagliare fette sottilissime dell’arrosto preparato la sera prima.
Di lui osservavo la precisione certosina che ci metteva a fare qualunque cosa. La gola mi bruciava e così decisi di prendere ancora un altro po’ d’acqua.
Soffrivo. No, non poteva essere cosi.. Mi feci forza e così mi avvicinai a lui, di schiena, per coglierlo di sorpresa in un abbraccio. “Abbracciami amore mio, abbracciami” pigolai smorendo dietro di lui e supplichevolmente gli gettai le braccia attorno al collo. Egli si voltò quasi con lentezza ,divincolandosi, piegandosi e torcendosi. “Dai ma cosa fai” e si voltò.

Capii che la mia implorazione fu vana e allora discesi inginocchiandomi e abbracciandogli la vita, posavo la guancia sul suo bastone moscio ripiegato sul fianco destro. Poi alzai lo sguardo e prostrato presi a recitare la mia cantilena, invocando un bacio, solo un bacio, cosa vuoi che sia solo un bacio.
Lo vidi osservarmi con occhi dolci. Poi quegli occhi presero a scrutarmi con freddezza mentre compiaciuti registravano le movenze supplichevoli della mia mortificazione. Di fronte alla sua inerzia mi aggrappai all’elastico della sua tuta e delle sue mutande e presi a cercare voracemente quella sua minchia per consolarmi di un bacio mancato. Io riuscii per un istante ad afferrare con la bocca la sua nerchia.
“Cazzo fai”. Richy puntò le sue dita contro le mie spalle allontanandomi. “Cazzo fai che mi mi infetti l’epatite” ed esplose in una fragorosa risata. Corse nel cesso a lavarsi l’uccello. Io lo guardai interdetto. “Tommy ha l’epatite? Tu hai lasciato che mi pisciasse in bocca??’”
Lo raggiunsi nel cesso mentr’egli stava asciugandosi il pisello con l’asciugamani. “Dimmi, guardami in faccia, Tommy ha l’epatite? Come hai potuto lasciare che gli facessi il bidet sapendo che fosse malato di epatite, rispondimi” gli urlai quasi mentre lui si guardava sorridendo allo specchio. “Guardami perdio” e con la mano feci che voltargli il volto su di me.

Il collo mi si serrò. Sentii la stretta malvagia e mortale al mio collo. Fu un atto furtivo che mi chiuse del tutto l’aria nei polmoni. Fece che agitarmi il collo dimenandomi come una gallina. “Non toccarmi mai più in questo modo” e mi scaraventò contro l’armadio di metallo che vacillò paurosamente. Scoppiai in lacrime.
“Stavo scherzano” mi disse, ma io non smisi di singhiozzare. Scivolai in ginocchio con le mani giunte sul mio viso. “Eri tu che mi dicevi che volevi essere seppellito in una cloaca?, eri tu che mi dicevi che per amore saresti morto per me sotto una coltre di merda? O forse dicevi queste cose per tua idiozia, dì la verità sei o non sei un bugiardo?” Io pigolai un “No”.
Tra i singhiozzi udii la sua voce calma,“apri la bocca”. Rimasi singhiozzando con gli occhi chiusi e nella bocca prese a ribollire la sua schiuma. Udii il suono che emette il cavo orale al suo riempirsi. L’urina sua maledetta raggiunse i bordi delle labbra. Interruppe il getto ed udii lo scoppiettare di quelle bollicine nella mia bocca. “Manda giù da bravo…. Bravo, ora ringraziami”..Mormorai un grazie.

Mi sollevò con amore e aprii i miei occhi. Con i pollici asciugò le mie lacrime. Poi vidi il suo sguardo rivolgersi in basso attento a ripulire l’uretra con la carta igienica, che poi infilò nella mia bocca. “Sii forte ora, dimostrami che sei un uomo. Oggi è il tuo compleanno e io sto per farti il regalo che hai sempre sognato. Prendi, questi sono i soldi. Va giù in paese e compera 45 mascherine, perché non tutti gradiranno il puzzo che farai. Sciacquati la faccia e esci”. Annuii mestamente con la carta igienica rivolta nella bocca.
Sciacquai la mia bocca e nello specchio vidi il mio volto lucido e gli occhi lucenti di lacrime. Lavai il viso e la bocca. Presi il danaro ed uscii di casa, senza un saluto. Fuori pioveva a dirotto e riempii i polmoni di fresco profumo di felci e betulle. “Merda” udii dietro di me, “Non si saluta eh, merda”. Mi voltai e lo vidi alla finestra sorridente con quella sua aria di derisione. Non gli risposi.
Imboccai il viottolo che porta fuori dalla tenuta. Imboccai il viale di odorosi tigli. Nella pancia ribolliva l’urina. Mi incamminai senza ombrello sotto le chiome grondanti di quegli alberi orgogliosi e mi diressi respirando forte col naso fin verso la strada che conduce in paese. Camminai sul ciglio della strada mentre alla mia destra si alzavano le irte pareti di quelle colline lussureggianti.
Ero animato da un sentimento di rabbia, sconosciuto per me fino ad allora. Forse una parte di me stava affrancandosi da quell’oblio. Ma sotto la pioggia battente, sotto gli alberi grandiosi di quella valle ombrosa, sotto quelle nubi in rincorsa e cariche di acqua, io sentii d’un tratto la mia anima più leggera. L’anima nostra talvolta richiede ossigeno per uscire dal gorgo di un inferno.
Raggiunsi il ponte sul torrente rabbioso, lo varcai e costeggiai il vecchio cimitero in pietra prendendo la strada sterrata che abbrevia di non poco la rotta per il paese. Sotto i muri di quel cimitero, anni prima io amoreggiai con ardore col mio Riky. Lo amavo da impazzire e giocando rincorrendoci di notte tra i tumuli dopo aver fatto l’amore, mi chiese di infilarmi in uno di questi.
Io rimasi interdetto ma col cuore accecato non esitai a farlo. Mi infilai nel tumulo di una colombaia, nel ventre profondo della notte, ed egli mi chiese se sarei morto per lui. Gli risposi di si. Ed egli eccitato prese a masturbarsi dicendo sconcezze, sborrò quando nel suo vaniloquio prese a riferire che sarebbe stato bello se per lui mi fossi lasciato seppellire vivo, che egli avrebbe goduto nel vedere gli operai chiudermi per sempre elevando un muro di malta e mattoni a chiusura del tumulo.

Inquietanti sono le avvisaglie proferite dai deviati. Non vi feci caso più di tanto. E’ l’errore capitale degli sprovveduti. Anzi, nell’atto sessuale presi ad accomodare la sua fantasia mettendoci del mio. Che per lui avrei giaciuto in un sarcofago pieno del suo sterco e del suo piscio, che avrei autorizzato il mio lui a fare scempio di me. Che per lui avrei giaciuto in una cloaca. Nel letto dava della puttana a mia madre che aveva generato un merdaio umano che ero io. Ed io mi eccitavo, ritenendo lecite le sue licenze verbali.
Per lui, almeno nelle fantasie del sesso, io avrei subito ogni mortificazione, dall’adulterio fino alla distruzione del mio io, ignorando che il potere di certi uomini sta nel realizzarle… le fantasie.
E di passo in passo, l’Orco si svestì degli abiti civici della decenza. Fu lo scivolare e sempre più inconsapevole nel fondo dei suoi gironi. Lasciarlo prima che fosse troppo tardi, era il pensiero che mi prendeva, ma restavo folgorato dalla sua bellezza, dalla passione taurina e virile che ci metteva nell’unirsi con me nelle forme più impure. L’Orco aveva in sè questa forza, legarti a sé, prendendoti dal di dentro, e la fuga sarebbe stata promessa di sofferenze per un uomo come me che mai ebbe ad incontrare fino ad allora la più flebile delle carezze. L’amore “è” una malattia.
Sulla strada venne in contro un uomo sulla cinquantina che non mi levò per un solo attimo gli occhi di dosso. Quando fu vicinissimo a me prese sotto la pioggia a sfoderarsi il cazzo. Un minchione pesante ed eretto che fece roteare nella pioggia. Mi fece un cenno con le due dita della mano, passandosela sotto la gola, mentre con l’altra mimava l’atto della carta igienica sul culo.

Tirai dritto. Il cuore prese a battermi all’impazzata. Dopo il cimitero le prime case porticate. Entrai in farmacia e il farmacista mi riconobbe rilasciandomi un sorriso vischioso. Pose le mascherine nell’involto di carta che infilò in una busta, con quelle sue lente e melliflue mani viscide. Pagai e nell’uscire vidi dallo specchio l’uomo raggiunto da un suo subalterno, un giovanotto sorridente e pulito. I due mi guardarono in silenzio, poi si voltarono e sorrisero. Nei visi colsi la cupidigia, e nell’uscire mi voltai a guardare tra i vetri. Colsi il vecchio coi suoi grandi occhiali tastarsi anche lui la minchia. Un uomo corpulento, sulla sessantina, orribile. Nella vecchiaia si svela la rozza natura degli uomini, anche nelle menti dei più sapienti.
Mi incamminai radente ai muri con la mia busta di plastica nella mano, ma mi bagnai comunque. Il cappuccio della mia felpa non era impermeabile e dalla sua fodera prese a trapassare l’acqua, stillandomi sul viso. Sostai sotto la tettoia del macellaio. Posai la busta sul rialto della vetrina dove mi appostai in attesa che l’acqua placasse la sua rabbia.

Di tanto in tanto in strada correva qualcuno del paese. Uomini e donne pressoché brutti, invecchiati prima del tempo. Gente abbietta, invidiosa, meschina che alla domenica andava ancora a messa secondo le usanze del buon vestito tramandate dai vecchi padri.
Spesso orribile, quest’umanità isolata delle valli fu costretta nei secoli a mescolarsi il sangue nelle combinazioni impure degli incesti. Gente che gareggiava nella vita civica del paese dando lustro ai propri atti. Ma nell’oscurità delle loro case, a porte chiuse, ciascuno nutriva i bassi appetiti della propria carne. E’ in questo humus che il mio Riky aveva coltivato le sue devianze, e figlio di importante nobiltà per niente decaduta, realizzava ogni scelleratezza avvalendosi del potere del soldo.
Accesi una sigaretta e dietro di me udii il battere violento della scure sul ceppo. Il macellaio stava infierendo sul corpo morto del maiale che mutilato degli arti, ora si concedeva disteso al taglio del ventre. Vidi le forti mani dell’uomo strappare via i visceri, divaricare con affanno il costato e con la scure procedeva sicuro a batterne le cartilagini. Quel macellaio, quel maneggiare sicuro la sua bestia, quegli stivali di gomma schiantati nel sangue sul pavimento, quella possanza virile sfuggita alla bruttezza degli uomini di quel luogo, prese a suscitarmi folgoranti risalite dal basso della mia libido. Mi fantasticai inerte su quel tavolo lasciando che l’uomo virile s’affaticasse su di me. Vidi riempirmi la patta di un’erezione che da quel momento non mi lasciò mai più.

Aveva un pacco quel macellaio che lo rigonfiava sotto il ventre nonostante il grembiule. Nel voltarsi vidi le stringhe del grembiule venire giù oscillando su natiche d’acciaio. Poderose le spalle nella curva dei dorsali, eretta la schiena e prominenti le natiche del boia. Poi scomparve dietro il muro, e non colsi più che il gocciolare del sangue dal giaciglio ultimo della bestia.
La pioggia prese a battere forte. Raggiunsi correndo la piazza alberata da cui si apre la vista mozzafiato della vallata. Sul ciglio del dirupo vi era un casolare in parte abbandonato e una pergola fittissima che nei giorni d’estate rendeva i favori delle ombre ai clienti di un baretto che occupava alla meglio una parte di esso.
Chiesi della birra. Ne bevvi tre boccali. Mi sedetti al tavolo sotto la pergola nonostante dell’acqua vi grondasse. Il barista fu gentile e per niente incline a sguardi di cupidigia. Forse di me sapeva, ma fu civile e sorridente, nonostante quei suoi occhi corvini, troppo distanti tra loro da parere un pesce martello.
D’un tratto mi resi conto che da una buona ora non pensavo più al mio Riky. Forse io potevo guarire, e semiperduto nelle nebbie dell’alcol mi graziai di quella pioggia, di quel fresco che ventilava sotto la pergola, di quella mia incessante erezione e benedicevo sotto voce quel buon uomo dagli occhi larghi.
Io – volevo – vivere.

Tornai a pensare, sorseggiando la mia birra. Perché mi innamorai dell’Orco? Era forse per tutti noi la trasposizione di un padre diverso dal proprio? Nell’omosessualità la figura del padre ci dice qualcosa. Mio padre fu con me un padre violento. Ricordo che mi chiuse in un armadio per un giorno intero per un non nulla che avevo combinato. Mi pestava d’innanzi ai miei amici e mi oltraggiava pubblicamente sputandomi in faccia. Appendeva la cinghia sopra la porta di casa, a monito di punizioni severissime ad ogni mio piccolo errore di condotta. Mia madre non potè nulla. Schiava di mio padre doveva seguirne i dettami.
La vita ci graziò della sua morte prematura. Ma ella, mia madre, dovette chiudermi in collegio perché potesse trovare di ché sostentarci. Ma devota e retta, non scivolò mai nelle tentazioni del mercimonio della sua carne. Io patii l’assenza di un padre ideale, e di una madre reale.
Preso coscienza della mia omosessualità nella maggiore età, e voi sapete per noi quant’è difficile, mi trovai dei mezzi uomini. Mi riferisco a loro non solo già nel tenore virile delle loro essenze, ma spesso questi uomini non potevano essere chiamati umanamente tali. In Riky avevo trovato protezione apparente, la carezza, la buona parola, la concordia. Fu l’immenso inganno. Egli fu il peggiore degli uomini che Dio volle mettermi sulla strada, ed io lasciai che egli mi raggirasse per un mio atavico disperato bisogno di essere amato.
Questi pensieri, sotto la pergola, erano barlumi. Erano lampi di lucidità che presto si riadombravano per la paura di essere solo. Non v’era lucidità e non potevo pretenderla, ora, con la pancia carica di birra, di mattino. No, forse Riky mi amava così. Dissoluto, riverso in un letto di merda, attaccato con la gola al sifone di un orinale, stuprato e sfiancato nella dignità, degno di una stalla. Io davo tutto questo, io potevo dargli questo, altrimenti mi avrebbe già lasciato… io dovevo crederci.
Udii il roboare di un motore.

Dalla salita giunse una moto di grossa cilindrata, guidata da un uomo che parcheggiò proprio sotto la pergola. Scese dal mezzo l’uomo, venuto su dalla città. Sfilò via il casco e appresi della grazia di un volto come uscito dai dipinti di un Rubens. L’incarnato roseo e trasparente, un naso sicuro, occhi lucenti e una folta barba color della ruggine. Bello. Mi passò davanti col passo sicuro e col casco in mano. Si diresse al bar ed io mi voltai per seguirlo con lo sguardo.
Bevve veloce il caffè e chiese della toilette. Vi si avviò con passo celere. La toilette di quel luogo era un baracco di lamiera e muratura proteso sul ciglio del dirupo. Dal ciglio, si poteva vedere la lunga condotta di scarico venir giù tra gli sterpi. M’immaginai l’uomo entrare in quel disastroso cesso, attento nei gesti sicuri, calarsi le braghe e prendere posto sulla turca.
La mia erezione prese a pulsare immaginando il cilindro di merda farsi strada tra le natiche, per poi affacciarsi esitante nell’aria prima di piombare nel fondo della turca. Ahh che strazio non poterlo vedere all’opera. Compiaciutamente e un poco ubriaco mi lasciavo andare alle dissolutezze di cui Riky mi aveva ammaestrato. Quelle cosce poderose, quale prezioso segreto racchiudevano ripiegate sul baratro di una turca. Uomo tutto d’un pezzo.
Riuscì poco dopo e così mi avviai di fretta verso il baracco di lamiera. Aprii la porta e quasi mi mancò l’aria per il luridume che si stagliava ai miei occhi. Nel locale vi erano a destra un unico lavandino, lungo circa due metri, dotato di tre distinti rubinetti a parete. Sopra di esso uno specchio ove le mosche andavano specchiandosi nel loro volo ubriacato dai miasmi.

A sinistra del locale si allineavano gli orinali, dove la vetustà dei manufatti aveva recato nel tempo una patina color ruggine, a sua volta ammantata da striate colonie algali. All’antibagno seguiva il piccolo cesso, largo quanto largo può essere una turca. Lercia, corrosa e striata nottetempo da deiezioni immonde. Sulle piastrelle dei muri v’erano schizzi fecali, scritte e muffe nei giunti di posa. Un letamaio fresco di cacata che mi fece ansimare. La piccola finestra in alto guardava il baratro sotto di me e dovette essere insufficiente a levar via subito gli odori di tanta merda. Dovetti liberare il cazzo per la troppa eccitazione.
Entrai dunque nel fetido cesso e richiusi in silenzio la porta di lamiera. Il caldo era infernale, le mosche a decine. Riposi la mia busta in un angolo meno umido del locale. Calai le braghe, mi sedetti sul vuoto della turca e distesi le gambe divaricandole per quanto possibile. Poggiai la schiena contro il muro. Aprii la zip della felpa e diedi all’aria il petto ed il ventre.
Con le dita, ansimando, raccolsi qua e là della materia fecale e me la spalmai in strie sul petto, attorno ai capezzoli ed al mio glande pulsante. Vi sgorgò abbondante del precum e presi a masturbarmi dolcemente con l’ausilio di due sole dita. Dolcemente, su e giù. Ansimavo, le mani mi tremavano. Nella testa milioni di pensieri immondi e i muri mi sussurravano di oscenità sudice dalle loro scritte.
Dovetti sospendere la mia masturbazione perché le mosche avevano vinto l’iniziale timore dell’intruso. Raggiunsero il mio petto offerto loro a banchetto. Danzarono sul pelo che cinge i capezzoli. Roteavano come baccanti sul piatto umano offerto agli dei. Venite a me, sussurrai. Vidi adunarsi decine di mosche sul glande eruttante di liquido di piacere. Si cibarono e si abbeverarono di me. Quel loro solleticare mi stava uccidendo di piacere, vinto dall’alcool e perduto ancora nell’amore per il mio Riky.

L’amore, è lasciarsi cibare sul ciglio di un abisso spaventoso.
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