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Gay & Bisex

034 PANE BIANCO


di CUMCONTROL
01.12.2024    |    4.950    |    1 5.5
"Menò tanta saliva per carità, viscida e pastosa, e poi, prendendo aria, si voltò su di me e disse: - Chi sono io? - Ehm, chi sei? - Sono la..."
Una mattina mi svegliai con l’urlo disumano della mia fidanzata.
Fino al giorno delle nozze, s’era convenuto che ciascuno dormisse nella propria stanza da letto. Fu ritenuto conveniente evitare ogni effusione spinta fino al giorno delle nozze.
Restavamo sotto la vigilanza perpetua di mio suocero. Intanto però lei, mia moglie, quella mattina urlava.
Quelle urla mi parvero subito strazianti, così mi vestii in fretta e uscii in corridoio accodandomi alla fiumana dei domestici, che correvano tutti verso la sua camera.

La vedemmo come una malata di mente in fondo al letto, completamente zuppa della sua pisciata. La poveretta fu accomodata di là nel cesso e la sentii pisciare con sgocciolii incerti. Strillava.
La cistite. La causa della sua isteria fu imputata alla cistite e alla decisione collaterale di mio suocero di rinviare le nozze. Da giorni la mia promessa sposa era affetta da cistite che non migliorava e così, la mia fidanzata, s’era trasformata in una pisciona.

Quel giorno in casa non si capì una mazza. Mio suocero era su tutte le furie. La domestica aveva fatto da spia. Gli aveva riferito che la mia futura mogliettina si sollazzava a straforo con uno zucchino che aveva rubato dalla mia stanza.
Quello zucchino, che a mia volta avevo sottratto dalla cucina, mi era servito per pugnalarmi il buco del culo. Erano mesi che stavo senza cazzo e dovevo pur sopravvivere.
Quindi la notte la trascorrevo così, a mordere il cuscino e a spampanarmi il buco del culo con lo zucchino. Poi, esausto, lo buttavo sul pavimento e mi addormentavo felice come una pasqua illudendomi di essere stata con un grande stallone.
Chi se ne importava di ripulire lo zucchino. E chi se lo poteva immaginare che in mia assenza mia moglie entrava nella mia stanza.
Insomma, quello zucchino mi fu rubato proprio da lei e volle giocarci un po’, che male c’è, senza sapere che lo streptococco fece il suo corso: la devastò la fregna.

Ovunque in casa c’era odore di urina.
Così godetti di qualche giorno di pace nonostante il trambusto, senza quella rompicoglioni della mia promessa sposa che voleva fare la piccioncina a tutti i costi.
Lo zucchino fu dalla mia parte. E’ inutile dire che mio suocero prese a brutte parole la figliola, dandole della cessa pervertita e stroppiandola di mazzate per l’incuria dimostrata nella gestione della propria fica prematrimoniale. Che schifo.
Poi mio suocero venne da me. Mi disse, con la sua solita aria autoritaria e patibolare, che avrei dovuto tenermi pronto. La cosa mi fece star male perché mi turbava i miei propostiti di andar subito per cazzi. Mio suocero voleva divertirsi ancora col mio pisello, e credetemi, io in quella casa mi stavo morendo giorno dopo giorno.
Ma non c’erano Cristi. Quando mio suocero si ficcava in testa di essere scopato da me, non c’era scampo. Dovevo affondare la mia verga svogliata nelle sue trippe, unte e maleodoranti.
Quel pomeriggio stesso mi volle in camera sua.

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Toc toc, ed entrai.
Era nudo, seduto sul letto, obeso, calvo, uno schifo come sempre.
Aveva l’aria dimessa, pareva costernato. Recava sul capo una coroncina di fiori come la mitica Cicciolina.
No vabbè.
Senza degnarmi di un solo sguardo, fissando il pavimento, mi disse… Spogliati!
Mi accinsi nella svestizione ma mi prese un colpo.
Nell'angolo opposto della camera, nella penombra, stava un gran maschione, mai visto prima, che si stava spogliando pure lui.

Aveva un gran cazzo ed io quasi piansi per la commozione. Sicché mi rizzai e vi assicuro era così bono che mi tolse il fiato.
Io e quel ragazzone avevamo lo sciagurato compito di chiavare il vecchio.
Il suocero, che era restato seduto, ci volle d’innanzi a lui. Pretese che lo ingozzassimo di cazzo. Lo fece con la sua voce rauca, strizzandosi le tettine. Ci incoraggiava a non desistere per timidezza. Pretendeva da noi cazzo, sputi, schiaffi e parolacce.

Il ragazzone parlava in ungherese, dunque non capivo una fava, ma intesi che ci aveva una gran voglia di castigare mio suocero, perché prese a sfondargli la gola col suo gran cazzo.
Nonostante il vecchio soffocasse, sbroccando dalle narici le sue mucose vischiose, a gesti, mio suocero, mi fece capire che non dovevo restare impalato a guardare come una salamella. Dovevo insultarlo!
Col turpiloquio mi diedi un gran da fare. Mi misi a dargli della Brutta Cretina, della Scimmia, della Bomboletta a spray e cose cosi.

Poi gli tiravo quei quattro capelli che ci aveva in testa e gli sputavo a cazzo sulla testa.
Poi mio suocero chiese una pausa al tale, e sbroccò di brutto in mezzo ai piedi. Menò tanta saliva per carità, viscida e pastosa, e poi, prendendo aria, si voltò su di me e disse:
- Chi sono io?
- Ehm, chi sei?
- Sono la vostra?
- La nostra?
- Pupa mi devi chiamare. Cazzo. Pupa mi devi chiamare!
- Ah si, Pupa

E mi si mise a ciucciare. Mio suocero si prese tutto il mio pistolino e boccheggiò parolacce come al suo solito.
Io sbuffavo, ma facevo tutto il necessario affinché non mi guardasse. Nello stesso tempo, infatti, cercavo di ficcarmi il ditino nel culo così che la mia piccola minchia potesse rizzarsi a comando, ma era chiaro che io proprio non mi ci sentivo portata affatto da far l’attivo.

In verità…Avevo una gran voglia di sfilare via il mio cazzetto dalla bocca di mio suocero, per dedicarmi con tutta me stessa a quel bellissimo esempio di fottitore ungherese. Lui, il fottitore ungherese, fissava mio suocero con sommo disprezzo e rispettoso del suo turno si menava il gran cazzo.
Dio come avrei voluto star solo con quel giovanotto, prestarmi a una delicata leccatura dei suoi coglioni, e a fargli una bella lavanda anale con la mia lingua.
Ma stavo lì, impalata, a dare della Bomboletta Spray a mio suocero, col mio cazzetto nella sua gola.
Poi, per mia buona sorte, il tale afferrò per la gola quel vecchiaccio. Lo afferrò con ambo le mani, lo strappò via dalla mia minchietta, e lo strozzò un po’.

Lo scaraventò sul materasso, apri quei due cosciotti fumanti e lo ficcò brutalmente, che io, restato impalato a guardare, sussultai in gridolini di stupefacente ammirazione.
Lui, il fottitore, gli stava sopra e pareva che lo fottesse come una vera femmina. Mio suocero implorava i baci ma egli non mancò di fargli la faccia di sputi nel pieno della chiavata.
Io restavo incantato a guardare le natiche possenti di quel maschione. Erano sudaticce, specie nel centro, ovverosia lungo la fessura da cui intravvedevo tutta la bellezza del suo ano. Era una fessura richiusa, senza pire emorroidali, senza velleitarie slabbrature di chi ha preso cazzi per quella strada.

No. Lui era maschio. Incorrotto. Era maschio, aveva un buco da maschio. Era una fessura precisa nel rado di una peluria corvina. Era una fessura sudaticcia che a me fece venir l’acquolina.
Volevo congiungermi all’amplesso carnale dei due.
Avrei leccato i robusti dorsali, le natiche poderose, i carichi testicoli nel pieno di quella gran chiavata.
Fervidamente bramavo di limonare con quella sua bella fessura. Di cosa poteva sapere, eh? Di manzo? Di cipolla? Di formaggio? Di patata americana?
Era un vero matador. Con colpi violenti stava smontando pezzo dopo pezzo ogni recesso fecale di mio suocero.
Io restavo immobile a guardare la sua schiena contratta, le ampie braccia divaricate, i pugni chiusi sulle caviglie di mio suocero, e spingeva...
Spingeva
Spingeva

I piedi poi...
Come non lasciarsi corrompere dai suoi piedi.
I suoi piedi erano tesi, nervosi, ben piantati sul tappeto mentre le reni spingevano.
Sarei stato ore a guardarlo.
Ecco che nel pieno del suo vagheggio, mio suocero ebbe qualche secondo di lucidità, e voltatosi ancora su di me m’intimò di far qualcosa. Me lo disse fremendo, mentre con una mano si levava via dagli occhi gli sputi del suo fottitore.
Quindi mi accostai al materasso, mi disposi sul letto e leccai il petto glabro e ciondolante del mio suocerino.
Con la coda dell'occhio però, io osservavo la potenza muscolare del torso di quel torero che instancabilmente sferzava colpi violentissimi nelle interiora del vecchio.

Quella bestia di mio suocero godeva e mi teneva stretto al petto perché potessi leccare i capezzoli enormi. Lui gestiva il movimento della mia lingua muovendomi il mio capo con ambo le mani, manco fossi una leccatrice elettrica, uno sbattitore da zabaione, un’impastatrice portatile, un Bimbi.

Il maschio, quel titanico fottitore, si levo via, di scatto. Estrasse il minchione e lo ricoprì voltandosi in direzione del piccolo cesso privato per darsi una sciacquata.
La bestia incazzata mi disse di dargli il cambio.
Mi sentii morire.
Con la mestizia di un condannato a morte cercai di introdurre il mio cazzettino dentro la fenditura slabbrata di mio suocero. Cercai di imitare lo stallone, fottendo mio suocero con rudezza. Ma ero stanca. Ero la fiacca fatta e finita. Infatti stavo troppo moscia di cazzo.

Bene, per creare un po’ di fuffa, presi a sputacchiare un po' di qua un po’ della', dicendogli sempre che era una Cretina e una Brutta Bomboletta a spray.
Lui ansimava strizzandosi le tettine. Rantolava come fosse in fin di vita ... Io seguitavo a chiamarla Cretina mentre il mio pisellino moscio si strofinava alle sue natiche fumanti.
Benisssssssssimo.
Lui, mio suocero, mi fece cenno di schiaffeggiarlo, ma io, fottendolo, diedi prova di fare di più.
Con le nocche di indice e del medio gli afferrai la guancia, oh si, e la ritorsi mostrandogli come il pizzico sia per me una autentica arma da guerra.
Poi vidi il vecchio aprire gli occhi, guardare dietro di me, e fare cenno all'altro di avanzare.
Con la mano il maschione ungherese mi tolse dalle palle. Poi, sempre il maschione, rientrò in quel fagotto di lardo caldo di quel vecchio.

Ne approfittai per andare nel cesso adiacente alla stanza, per cercare tra gli armadi o gli scaffali, una qualunque cosa che fosse oblunga e che potessi finalmente ficcarmi su per il culo. Con qualcosa su per il culo avrei sedato i miei ardori di cazzo, e magari mi sarei poi accostato alla porta per vedere quell’uomo fottere il vecchio.
Quindi cercai ovunque come una pazza ma niente che avesse una forma vagamente di cazzo. Strillai. Strillai sommessamente ma strillai come una pazza anni 30.
Uscii nuovamente dal cesso verso la camera, esausta e sconfortata.

Nella stanza, esalavano gli afrori di gabinetto, poiché mio suocero stava talmente slabbrato, nel pieno della sua chiavata, che scoppiettava sorreggine tanto si stava a rilassà. Odiai mio suocero. Lo odiai con tutto me stesso.
Comunque non mi diedi per vinta, e mi accostai nei pressi di quel ragazzone che stava massacrando di pizze in faccia quella vecchia scema, e così facendo, giunse a sborra nelle trippe ammorbanti di mio suocero. Lo fece in silenzio, e lasciò che l’anziano urlasse di piacere perché finalmente si sentiva inseminata.
Poi il matador sfilò la minchia ed io provai terrore perché quell’arnese era ancora robustamente irrorato e pronto a massacrare nuovi culetti se solo gli fosse stato ordinato di farlo. Provai un piacevolissimo senso di terrore. Come sarebbe stato meraviglioso se mi avesse chiesto il culo.

Il terrore vero, però, veniva dall’altro capo della camera, perché temevo che mio suocero mi chiedesse di dare il cambio al maschione e figuriamoci io che cosa mai avrei potuto fare.
Per mia fortuna però mio suocero non disse nulla. Stava sul letto come una balena spiaggiata, a panza all’aria, a guardare il lampadario di macramè che scendeva dal soffitto. Di tanto in tanto, in quel suo abbandono, egli si concedeva di rilasciare gli sfinteri, così che la sborra castana tingesse le sue lenzuola nella più assoluta incuria.

Il maschio invece, dopo qualche minuto d’immobilità in un angolo della stanza, quasi ad attendersi un nuovo comando, si rese conto che aveva invece del tutto soddisfatto i desideri dell’anziano. Non poteva spiegarsi diversamente, poiché lui, il vecchio, restava compiaciuto nel suo letto a contemplare i disegni intrecciati di quel cazzo di lampadario.
Quindi lui, il matador, prese commiato, e si diresse nel cesso.
Feci la gnorri. Lo seguii e quando socchiusi la porta, mi gettai ai suoi piedi. Gli supplicai, di lavargli personalmente la minchia. Lo supplicai di lasciarsi andare. Gli avrei passato la spugna tra le natiche o, se avesse gradito, non mi sarei fatto riguardo a fargli io da spugna, con la mia lingua naturalmente.
D’altro canto ero un’esperta nel leccare i culi dei maschi veri, ma non era certo solo quella mia specialità.

Mi inginocchiai, a pastorella, ma lui mi respinse lavandosi il cazzo nel lavandino e pisciandoci pure dentro.
Vederlo pisciare fu per me l'autentica immagine dell'ingiustizia.
Quando gli chiesi, sempre a gesti, se potessi se non altro leccargli i piedi, lui mi prese come una pezza da culo, mi scrollò tenendomi per una recchia, e poi aprì la porta, e mi scaraventò via dal gabinetto.
Ci rimasi male.
Io ero un tantino imbarazzato anche perché mio suocero aveva visto la scena. Io gli feci ciao ciao con la manina, ma lui non ricambiò un cenno di gentilezza. Fissava me, e poi tornava a fissare il suo lampadario. Cazz ci aveva mai sto lampadario che faceva pure schifo.

Quando il nostro lui uscì dal cesso, mio suocero scese pesantemente dal letto. Gli si avvicinò e si fece accarezzare come una bimbetta. Poi, accostò alla finestra che aprì per arieggiare la camera dal puzzo di culo che aveva liberato nella svangata.
L’aria era surreale. Silente. Quindi mio suocero si avvicinò all’armadio ed estrasse un fagotto.
Conteneva del pane bianco che noi solitamente mangiavamo nei pasti. Ma doveva essere una rarità per la plebe ungherese perché il ragazzone, carico di riconoscenza, annusò il pane e parve come se avesse ricevuto che so, un paio di occhiali Gucci.

S’inchinò ripetutamente in segno di gratitudine e poi si vestì in fretta.
Avevo capito!
Stupido che ero stato. Dunque, occorreva del semplice pane bianco per corrompere i manovali di casa e procurarsi così del cazzo?
Benissssimo.
Dolce mio culo? Problema risolto.

………………

A pranzo e a cena non mangiai più pane bianco, che accantonai in segreto nell’armadio con molta cura. In sette giorni, pensate, accumulai un capitale di sedici pagnotte.
In quella settimana mia moglie gemeva sul cesso in preda della sua cistite, ed io mi sentivo eccitato alla sola idea che avrei potuto presto negoziare accordi segretissimi coi manovali di casa, così che anch’io, come mio suocero, potessi avvalermi di due chili e mezzo di cazzo alla bisogna.
Uno di questi manovali si prestò alla contrattazione. Stava verniciando la lavanderia, e così, furtivamente, senza farmi vedere dai domestici e senza spiaccicare una parola di ungherese, mi accordai con lui. Il tale prometteva una minchia di gran classe, a giudicare da quanto riuscivo a indovinare dai suoi calzoni di tela.

Concordammo un vero e proprio listino, anche se ammetto, fu davvero ponderoso per me siglare l’accordo.
Ecco il listino.
Una pagnotta, sedici frustate di cinghia sulle chiappe.
Due pagnotte? Quaranta frustate e due sputi a scelta.
Venticinque pagnotte? Sditalinata a tre dita, più una ciotola di piscio in testa.
Cinque pagnotte in più, e stiamo a trenta, avrei avuto finalmente accesso al cazzo. Un pompino. Pensate.
Con sessantasei pagnotte, un pompino con ingoio.
Novanta pagnotte? Una leccata di culo atroce per una buona mezz’ora. Pensate. Non m’ero certamente messo a sottilizzare se con o senza bidè.

Ma ahimè per raggiungere la scopata il mi richiedeva una cifra davvero ragguardevole. Centocinquanta pagnotte bianche, e la chiavata completa sarebbe stata assicurata.
Il pacchetto prevedeva una vantaggiosa inseminazione con parto assistito, pensate, a spurgo, e garantito direttamente sul cesso. Mi avrebbe tenuto la mano. E’ stata una mia precisa clausola del contratto.

E volete sapere com’è finita?







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Questo racconto è tratto dalla saga
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.

CUMCONTROL 2024


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