Lui & Lei
La minestra riscaldata
di unodeidue
11.06.2024 |
6.244 |
5
"Che abbiano 5 anni, o 50, la cosa non cambia, ci cascano tutte..."
Capitolo 1: la minestra scaldata è sempre più buonaLa colpa è stata della nipotina, era questa la giustificazione che si dava Veronica.
Si ricordava perfettamente di quel venerdì sera di primavera.
Si era messa d’accordo con gli altri nonni, i suoi consuoceri: che avrebbe portato la nipotina a casa loro, a Pavia, dopo cena.
Ma Giorgio, il suo ex marito, l’aveva saputo e le aveva telefonato:
“Scusa Veronica, dato che non vedo Giulia da tre mesi, perché non passate da me, prima di andare a Pavia? Siete sulla strada. Vi preparo una cenetta, mangiamo una cosa veloce sul presto, e poi la porti dai consuoceri. Così la posso abbracciare finalmente. E ti faccio anche vedere i lavori che ho fatto a casa, la cameretta e il bagno in più che ho ricavato dalla veranda e dal ripostiglio”.
Giorgio era molto fiero della vecchia casa dei suoi che aveva ristrutturato e dove abitava da quando si erano separati.
Era curiosa anche lei di vedere come si era sistemato, ed aveva piacere di incontrarlo, nonostante la separazione gli voleva bene; e poi aveva ragione, era tanto che non vedeva Giulia, la loro nipotina di neanche sei anni.
E così, prima delle sette erano a casa di lui, a Sant’Angelo Lodigiano, a tavola, con la cena che aveva preparato lui: un risotto alle ortiche, filetti di orata impanati al forno e piselli saltati in padella.
Lei aveva portato un po’ di gelato, e la cena sembrava simpatica.
“Pisos salteados, come quella sera a Barcellona?” aveva ricordato lui.
“Certo, come quella sera”, del viaggio di nozze a Barcellona.
Era stato al ritorno, al termine del loro viaggio di nozze, febbraio 88.
Un richiamo ai tempi felici del loro matrimonio.
Con la nipotina, ma anche con la ex moglie, Giorgio aveva sfoderato il suo repertorio: un bouquet di fiori per lei e uno più piccolo per la nipotina; la musica soft, i giochi di parole, i giochi per bambini, il tovagliolo ripiegato che di volta in volta diventava una barca, un cigno, un pesce, una mutandina, un reggiseno e così via.
Giulia era incuriosita e divertita dalle sciocchezze e delle attenzioni del nonno.
È ancora capace di interessare e affascinare una donna, come ha sempre fatto.
Da sempre.
Lui incuriosisce, interessa, affascina, seduce ogni essere di sesso femminile, che abbia 5 anni, o 50, non importa; e in questo caso erano presenti tutte e due le età.
E la nipotina ci casca, come tutte le femmine, del resto, era questo il pensiero, molesto, di Veronica.
Che abbiano 5 anni, o 50, la cosa non cambia, ci cascano tutte.
Anzi, con quelle più piccole, anche di più, visto che di mestiere fa il pediatra.
E infine la sorpresa.
“Vieni Giulia, adesso ti faccio vedere la tua cameretta”.
L’accompagnò, aprì la porta, accese la luce e, voilà, illuminò una camera da letto per signorina, il letto, la sopra coperta con i disegni a fiori, come il cuscino e le lenzuola che si vedevano dal risvolto, il paralume sul comodino, l’armadietto a fianco e sopra, una sorta di baldacchino a proteggere il letto, insomma la camera della principessina, così la chiamava lui.
Figuriamoci Giulia, affascinata era dir poco. Soggiogata, adesso stravedeva per il nonno.
Le femmine e il suo ex-marito, sempre la stessa storia, 5, o 50 anni; sempre la stessa storia.
E la piccola cominciò a fare i capricci.
“Nonno, ma io posso dormire da te? In questo letto? Qui?”.
“Certo, principessina, la prossima volta che vieni, ti fermi a dormire, e dormirai qui, in questo letto qui.”.
“No, stasera”.
“Ma stasera ti aspettano gli altri nonni, a Pavia, anche lì c’è la tua cameretta bella; questa sera vai dagli altri nonni, la prossima volta dormirai da me. Qui”.
“No, stasera, stasera, stasera”.
Cominciò a frignare e ripeteva come un mantra “stasera”, tra una lacrima e l’altra.
Si arrabbiò.
“Basta con questi capricci, Giulia. Andiamo, su, mettiamoci il soprabito e via, partiamo, sono già le otto. Non voglio fare tardi, devo anche tornare a casa a Milano, dopo che ti ho lasciato dagli altri nonni”.
“No, no e no”. Parlava tra un singhiozzo e l’altro.
“Vacci tu dagli altri nonni, io dormo qui, da Giorgio, da questo nonno qui, nella mia cameretta”.
E giù altri singhiozzi e lacrimoni.
“Capricci e capriccetti. Ho detto no, e no deve essere. Se non obbedisci, ti riporto a Milano e stai con me, in castigo”.
“Senti un po’, per questa volta accontentala”, Giorgio si era intromesso, “telefoniamo agli altri nonni, dormite qui, lei nella sua cameretta, tu nel mio letto, e io mi metto sul divano. Per me non è un fastidio. E domattina, all’ora che vuoi, la porti dai consuoceri”.
Quando si tratta di donne, di 5 o 50 anni, Giorgio trova sempre il modo di dire di sì. Di accontentarle. Sempre.
L’aveva lasciato per quello, piuttosto litigava con lei, ma di rifiutarsi di accontentare una donna, mai (e i favori di un certo tipo a una donna, saddio se li sapeva fare); mai deludere una donna, di 5 o di 50 anni mai, non ne era capace.
E fu così anche quella volta.
Accompagnò lui la bambina nel suo bagnetto a lavarsi i denti, a fare i suoi bisogni, al bidet, a lavarsi i denti, a cambiarsi per la notte, con le cose che si era portate via per il week-end, nel suo trolley da bambina.
L’accompagno nel suo letto, le raccontò una favola re-inventata da lui, facendo tutte le voci, del gatto, del mugnaio, del re, del capitano dei soldati, insomma un cinema.
E finalmente, dopo un abbraccio e un bacio di buonanotte, la lasciò a dormire, nel suo letto da principessina.
Quando finalmente tornò in sala, lei era ancora inviperita.
“Hai telefonato ai consuoceri, per avvertirli?” lui le chiese.
“Sì. Però devo dirtelo, Giorgio. Non è giusto. Così la vizi”.
“Figurati. Non la vedo mai. Devo farla piangere l’unica volta che la vedo? Piuttosto tu, se sei impegnata, se il tuo compagno ti aspetta stanotte, vai pure a casa a Milano, ci penso io, domattina, a portarla a Pavia”.
“No, non è questo, stasera sarei tornata a casa mia, il mio compagno è a casa sua; e comunque l’ho già avvertito, preferisco accompagnarla io domani. Se non ti spiace, resto qui”.
“Ma certo, non mi dispiace, mi fai solo piacere. Allora cambiamo le lenzuola del mio letto”.
“No, dai, lascia stare le lenzuola, tanto ci dormi tu, io dormo sul divano”.
“Non se ne parla nemmeno, sono io che ho combinato il casino con la bambina. E poi io sto bene, sul divano. Ti presto un mio pigiama pulito, per la notte. In bagno trovi anche uno spazzolino da denti pulito”.
“Sei attrezzato bene, qui, perfino lo spazzolino. In caso di pernottamento imprevisto”.
Voleva essere ironica, anzi maligna.
Giorgio fingeva di non capire le allusioni.
“Sono quelli che trovo incartati e inscatolati in albergo, quando viaggio. Non li uso e me li porto via”.
“Piuttosto” insisteva Giorgio “aiutami a cambiare il letto”.
“Va bene, però allora dormi anche tu nel lettone; abbiamo dormito insieme per trent’anni, da fidanzati e da sposati, stavolta dormiamo uno da una parte e uno dall’altra, da separati”.
E così fecero. Dormirono insieme.
All’inizio.
Ma forse lo sapevano già.
La chimica.
La chiamavano così la passione scatenata che li coglieva entrambi quando erano soli insieme.
A letto, ma anche in altri luoghi.
Una volta perfino nell’acqua del mare, in maremma.
Perfino quando lei era incazzata nera per i continui tradimenti di lui.
Perfino quando avevano appena finito di fare a botte, per lo stesso motivo.
Perfino quando avevano già deciso di separarsi.
Perfino quella volta che lui era tornato a casa solo per prendere i vestiti e la sua roba da portarsi via.
Perfino adesso che avevano passato i sessant’anni, lui, e i cinquanta, lei ed erano passati cinque anni dall’ultima volta.
La chimica.
Quando Giorgio si avvicinò per darle il bacino della buona notte, dopo aver spento le luci, il bacio diventò quasi per caso un bacio sulla bocca, e lei non lo rifiutò.
La lingua di lui entrò nella bocca di lei, a cercarle la lingua.
E lei accettò di attorcigliarla a quella di lui, anzi non aspettava altro.
Naturale, quasi automatico il gesto delle mani di lui, a palpare le tette.
E le mani di lei, anche questo un gesto automatico, a toccarlo da sopra i pantaloni del pigiama, e poi a tirarglielo fuori per prenderlo in mano e menarglielo.
E tutto il resto, secondo un copione ormai conosciuto e collaudato.
Con qualche novità, però.
Negli anni da separato Giorgio aveva imparato a fare bene l’orale.
Forse voleva farle vedere quanto era diventato bravo, in questa specialità.
Si abbassò sotto le coperte, aveva tirato in basso i pantaloni del pigiama di lei e leccava avidamente, sulle cosce dove si attaccano al busto, le piegoline le chiamava, che belle piegoline che hai, il basso ventre, meno male che si era messa in ordine con i peli in mezzo alle gambe.
Intorno, e sul pancino, e le faceva i complimenti, tra un bacio e l’altro, hai conservato un fisico perfetto, neanche un filo di grasso.
E menomale, con tutta la palestra e le creme e i massaggi.
Ma anche lui è a posto di fisico, notava, asciutto e tonico, più magro di quando si erano lasciati, non aveva più la pancetta da sposato, proprio un bel fisico.
Lui girava intorno con la bocca, con la lingua, da lontano, come se non sapesse trovare il posto giusto, poi si era avvicinato, fino alle grandi labbra, succhiandole prima una, poi l’altra, neanche fossero caramelle.
Che belle labbra che hai, le diceva tra una succhiata e l’altra.
Sono dolci, saporite, sanno di buono, sanno di felicità.
Avrebbe voluto dirgli basta dai, non lì, metti la lingua in mezzo, è lì che devi leccare.
E lui no, la sfiorava appena, con un dito, lì.
Ma non si era accorto di quanto fosse bagnata, lì in mezzo?
Impossibile che non avesse capito della sua voglia, quanto fosse non umida, ma fradicia, lì.
E lui niente, con la bocca cercava il bottoncino in alto, e lì invece, quasi per sbaglio, ci appoggiava piano piano un dito.
Ma non puoi fare il contrario? Il dito sul bottoncino e la lingua dentro?
Quando finalmente si decise a cacciarle la lingua dentro, leccando avidamente tutta la sua umidità e poi penetrandola con la lingua che sembrava gonfia, cacciò un sì lungo un kilometro, gli tenne la testa ferma premuta contro per paura che si staccasse, ancora due o tre colpi di lingua dentro, un urlo e finalmente gli scaricò in bocca il suo piacere.
Ansimando, gli sospirò:
“Mi hai fatto venire, Giorgio, mi hai fatto venire”.
E, sempre ansimando “Mi hai fatto venire di lingua. Che bello! Che bello! Oooooh”.
Sussultava ancora.
“Sì tesoro, ma adesso ti faccio venire di cazzo”.
Sempre sboccato. Ma, a parte la parolaccia, era proprio quello che lei voleva.
“Sì, dai, così vengo ancora, finalmente” gli disse con un soffio, e sperava che non avesse sentito.
Ansimava. Ma sentiva che doveva dirglielo. E glielo disse:
“Vienimi dentro, Giorgio. Ne ho bisogno, sai, ne ho proprio bisogno, tanto, tanto”.
E cominciò la loro cavalcata. Secondo il loro vecchio copione, appena appena aggiornato.
Lui sopra, lei sotto.
Poi la cavalcata selvaggia di lei, sopra di lui.
Era la posizione che preferiva: dominava lei, decideva lei, se affondare, impalandosi fino in fondo, oppure appena appena, spostandosi da una parte o dall’altra per sentire il pene di Giorgio, sempre duro, sempre grosso, da una parte o dall’altra, col corpo davanti a spingere sulla parte di sotto della vagina, oppure col corpo all’indietro, per sentirselo di più sulla cima, dove incominciano le piccole labbra; e subito dopo affondava ancora e ricominciava la sua ginnastica: il sesso self service.
E la posizione ginecologica.
Ma qui era indifesa, comandava lui, era lui il padrone di tutto.
Era bello anche questo, fa parte del gioco offrirsi tutta aperta al maschio, a gambe larghe, addirittura gliele appoggiava sulle spalle, e lui entrava, con la forza di chi vuole farsi sentire alla sua donna e scegliere lui con che forza spingere.
E la pecorina.
Anche qui era lui il padrone.
Quando l’afferrava per le cosce e se la tirava contro era perché voleva colpire di più, più forte di prima.
E quando accarezzava le natiche e si appoggiava col busto e una mano scendeva sulle tette, a strizzarne una, a pizzicare il capezzolo dell’altra, e allora drizzava il pene appena appena dentro e glielo faceva sentire dolcemente, senza muoversi.
E poi i colpi forti, duri, fino ad arrivare chissà dove.
Dolce e cattivo come sa essere un padrone.
Ma lei lo sapeva, si ricordava benissimo come farlo venire e come venire insieme, quando riuscivano a venire insieme.
La spondina.
Appoggiati tutti e due sul fianco, lui muovendosi il meno possibile, lei spingendosi indietro incontro al pene di lui.
Lui spingendo ancora di meno il ventre, per accompagnarglielo dentro dolcemente.
E i colpi tremendi quando stava per venire.
“Che roba!” gli disse dopo, quando i respiri di lui erano diventati quasi normali, ed anche lei si era calmata.
Era sopraggiunta l’intimità soddisfatta di chi ha dato tutto il sesso che voleva dare, ed ha preso tutto il sesso di cui aveva voglia.
“Non mi ricordavo neanche più di come facevamo l’amore, una volta” gli confessò.
“E sei diventato più bravo, nel frattempo” aggiunse dopo un poco, “quei giochini di lingua non li facevi una volta”.
“È vero. Ho studiato, in questi anni. Sono andato a ripetizione, mi sono preparato sull’orale. Se vuoi, dopo facciamo un’altra esercitazione pratica”.
“Scemo. No, basta così, ho visto che hai studiato. Casomai, meglio un ripasso generale”.
“Ma perché hai detto che avevi bisogno, immagino che volevi dire bisogno di cazzo? Il tuo compagno non te ne dà abbastanza?” le chiese Giorgio.
“Abbastanza? Ma che dici? Non me ne dà, e basta”.
E continuò, impietosamente, come solo le donne sono capaci, quando sono deluse.
“Non gli tira. Niente da fare. I primi tempi, con la bocca – e tu lo sai quanto sono brava con la bocca – riuscivo a metterlo in sesto quel poco che bastava per infilarlo, perlomeno quando ero molto eccitata.
Ma adesso, adesso nel senso da quasi quattro anni, niente da fare.
Gli ho perfino detto, tu che sei ginecologo, non hai un collega urologo che ti possa aiutare? Niente. O è un caso disperato, oppure non gli interessa più il sesso. Non con me, almeno”.
“Beh, in compenso, da bravo ginecologo, sa bene come trastullartela”.
“Certo che lo sa, ma il bagianotto, come lo chiamava mia nonna, non vive di sole dita. O di vibratori. Adesso un suo dito o il vibratore non mi bastano nemmeno per eccitarmi. Certe volte ho voglia, tanta voglia. E non di quella roba lì. E quindi basta. Gli ho detto, fai qualcosa. Prenditi cinquanta viagra e poi ne riparliamo. Altrimenti niente. Andiamo a letto, quando andiamo a letto insieme, ma come due angioletti”.
E dopo un po’ lei gli chiese: “E tu invece con la tua compagna, sei il solito mandrillo, vero?”.
“No, curiosamente proprio come te, da qualche anno ormai, nisba. All’inizio, tutto normale, anzi, anche più bello del normale, però a lei ogni volta le veniva la cistite. Cistiti croniche risvegliate dalla penetrazione. Ed è diventato un problema. Mi diceva che ce l’ho troppo grosso, ma non è vero, lo sai, è normale il mio cazzo. Poi aveva le fauci asciutte. E io ho imparato a fare i preliminari, a fare i lecchini e sono diventato anche bravino in quella specialità, come hai notato anche tu. Ma niente lo stesso, le faceva troppo male. E ora basta, niente più”.
“L’ultima volta è stata più di tre anni fa, il giorno del mio compleanno. Quella volta non ha potuto rifiutarmi la fica, ma è stata anche l’ultima”.
“Figurati, e non fai più sesso da tre anni? Tu? Non ci credo” fu il suo commento.
“Non con lei. Ho avuto qualche fidanzata part time, e in qualche modo sono riuscito a sopperire. Poi, quando la fidanzatina di turno cominciava a chiedermi di più, di stare insieme il sabato e la domenica, di fare le vacanze insieme, di mettere su casa insieme, quando chiedeva un legame più stabile, non dico un matrimonio ma almeno giocare a casina insieme, e io dicevo di no, mi piantavano”.
E concluse:
“L’ultima è stata una signora di Trieste. È finita qualche mese fa, tra l’altro era l’unica che non pretendeva niente, le andava bene la mia libertà, e a me andava bene la sua. Stavamo così bene, quando ero dalle sue parti! Ci raccontavamo le nostre avventure, i nostri tradimenti reciproci, senza problemi, anzi ci servivano per eccitarci di più”.
“Ed è finita? Come mai?”. Veronica era curiosa.
“Ha trovato un vecchietto danaroso e geloso. Si sposano quest’estate. E quindi un anno fa ha dovuto dire basta. Niente più fica. Dispiaceva anche a lei, perdere il mio cazzo, ma non poteva fare altrimenti. Le ho detto, avvertimi quando diventi vedova, che vengo al funerale, anzi voglio essere tra quelli che portano la bara”.
“E da allora, niente?”.
“Solo qualche avventura, quando capita. Ma niente di più, niente di regolare, solo qualche scopata occasionale”.
“Io neanche quelle. Purtroppo” disse lei sottovoce.
“E allora diamoci da fare” propose lui, dopo un attimo di riflessione.
Meno male, non voleva essere lei a dirlo e a fare la figura della porca.
Così cacciò la testa sotto le coperte, per cercarlo e per fare un gioco di bocca, lei questa volta, comeddio comanda.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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