Prime Esperienze
L'Alchimista del Piacere - Capitolo 1

22.04.2025 |
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"Sembrava appartenere a un’epoca fuori dal tempo..."
Aveva quarant'anni e una firma ancora fresca sul foglio della separazione. L'inchiostro non si era asciugato, ma dentro di lei già si muoveva qualcosa di più antico e inquieto: una fame che non aveva mai osato nominare. Si chiamava Irene, e quella sera aveva deciso di non indossare il reggiseno sotto la camicia bianca, un dettaglio piccolo ma per lei rivoluzionario. La gonna nera sfiorava appena il ginocchio, e il rossetto era troppo acceso per essere casuale.Era uscita senza dire dove andava. Sua figlia era dai nonni. Il cellulare spento. Il cuore, invece, acceso e nervoso, tamburellava nel petto come se sapesse di essere vicino a qualcosa di irreversibile. Camminava per il centro della città come una donna che cerca un naufragio. I suoi passi la portarono in un bar che non conosceva, con le luci basse e il bancone lungo. Si sedette e ordinò un Manhattan, anche se non lo beveva mai. Forse perché voleva sentire un sapore nuovo in bocca. Forse perché era stanca di quello che conosceva.
Lo vide avvicinarsi attraverso lo specchio dietro al bancone. Un uomo elegante, ma non vistoso. Sembrava appartenere a un’epoca fuori dal tempo. Cravatta nera sottile, completo grigio, scarpe lucide, sguardo opaco come fumo e carbone.
Si sedette accanto a lei senza chiedere permesso. Lo fece come chi sa di non averne bisogno.
«Ti va di superare te stessa?» disse.
La sua voce era profonda, graffiata, come un vecchio sassofono suonato a notte fonda. Irene si voltò piano. Lo guardò senza parlare. Lui non disse altro. Non si presentò. Non sorrise. Aspettò.
«Scusa?» fece lei, cercando di guadagnare tempo.
«Non è una domanda da bar,» aggiunse lui. «Ma tu non sei qui per bere.»
Lei rise, nervosa. Portò il bicchiere alle labbra. Il Manhattan era troppo dolce e troppo forte insieme. L’uomo non si mosse. Non distolse lo sguardo. Irene si sentì come osservata da dentro.
«Cosa vuoi dire con 'superare me stessa'?», chiese, più per riempire il silenzio che per reale curiosità.
«Che quello che desideri davvero è nascosto sotto anni di compromessi, di vergogne, di bugie bianche. Io posso guidarti. Ma solo se sei pronta.»
Un fremito le salì lungo la schiena. Non era paura. Era attrazione. Ma anche qualcosa che le faceva stringere le gambe. Un’improvvisa voglia di scappare. Eppure restò lì. Non si alzò. Non inventò scuse.
«Non sono sicura di essere quel tipo di donna.»
Lui si avvicinò appena. Il suo profumo era caldo, speziato. Non invadente. Ma persistente. «Non lo sei ancora. Ma potresti esserlo.»
«E se non volessi?»
«Te ne andrai, e non ci rivedremo mai. Ma se resti…» Lasciò la frase in sospeso.
Lei abbassò lo sguardo. Le mani sul bicchiere tremavano appena. Il cuore faceva più rumore del locale. Non era abituata a cedere il controllo. Ma non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva goduto davvero.
«Portami via,» sussurrò.
Lui sorrise, ma non con la bocca. Solo con lo sguardo. Le prese il polso. Non con forza, ma con precisione. La sua mano era calda, sicura. Non c’era violenza, ma non c’era nemmeno spazio per rifiutare. E Irene si lasciò guidare.
Uscirono nella notte. Il centro era ancora vivo, ma loro sembravano camminare in una bolla sospesa. Nessuno li guardava. Nessuno li seguiva. Attraversarono due incroci, poi lui imboccò un vicolo buio, umido, con l’odore metallico della pioggia passata e qualcosa di più animale. Una porta nera, senza numero. Una maniglia d’ottone. Tre colpi secchi. La porta si aprì.
Dentro, una donna vestita di lattice nero li osservò senza parlare. Lo conosceva. Si spostò, li lasciò passare. Irene non disse nulla. Ogni passo era più difficile del precedente. Ogni passo chiedeva più coraggio. Voleva tornare indietro. Ma la mano dell’uomo era ancora sul suo polso, e la sua voce ancora nella sua testa.
Il corridoio era foderato di velluto rosso scuro. Alle pareti, dipinti disturbanti. Corpi intrecciati. Simboli esoterici. Maschere. Bocche. Sesso e mistero. Il cuore di Irene picchiava come un tamburo tribale.
Entrarono in una stanza con una sola luce, calda, fioca. Al centro, una parete di legno, con tre aperture tonde. Gloryhole. Irene impallidì.
«No. Non posso.»
Lui la guardò. «Non devi. Ma puoi.»
«È troppo. Non sono quel tipo di donna.»
«Ma vuoi esserlo.»
Lei si voltò. Il muro con i buchi sembrava respirare. Sentiva odore di sperma, di sudore, di eccitazione. Le gambe le tremavano. Il suo respiro era corto.
«Non lo conosco. Non so chi sia.»
«Nemmeno lui conosce te. Siete due bocche, due corpi, due desideri. Questo è il patto. Questo è il rito.»
«Non so se riesco.»
Lui le si avvicinò. Le alzò la gonna. Le dita scivolarono tra le sue cosce. Era bagnata. Più di quanto avrebbe voluto ammettere. Sussultò.
«Il tuo corpo ha già deciso. Ora tocca alla tua mente.»
Lei chiuse gli occhi. Respirò. Poi li riaprì. La parete era lì. Dall’apertura di sinistra, emerse un cazzo. Grosso. Liscio. Sconosciuto. Irene indietreggiò d’istinto.
«Non posso. È…»
Lui le sfiorò l’orecchio con le labbra. «È solo carne. È solo piacere. È solo la porta per la te che non hai mai avuto il coraggio di incontrare.»
Irene lo guardò. Tremava. Ma non si tirò indietro. Si inginocchiò lentamente. Il cazzo davanti a lei era rigido, palpitante.
«Apri la bocca,» disse lui. Non era un ordine. Era una benedizione.
Lei esitò ancora. Poi si lasciò andare. Lo prese tra le labbra, con dolcezza. Poi con forza. Con fame. Con vergogna che si scioglieva a ogni centimetro.
Lui, l’alchimista, la penetrava da dietro con lentezza, con sapienza. Ogni spinta era un invito. Ogni movimento un rito. Irene succhiava quel cazzo sconosciuto come se fosse l’ultima cosa viva su cui poggiare la bocca.
E mentre lo faceva, il suo corpo tremava. Ma non più di paura. Tremava di liberazione.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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