Sognare la vicina

Andrea viveva da solo da pochi mesi. Appartamento al secondo piano, in un palazzo anni Sessanta nel centro di Pescara. Niente di speciale: muri sottili, ascensore guasto, odore di vecchio nei corridoi. Ma sopra di lui, al terzo piano, abitava lei. La signora Carla. Sessant’anni forse. Forse di più. Corpo alto, formoso, capelli lunghi, castani. Sempre in ciabatte, vestaglie leggere, sorriso vagamente sfrontato. Ogni volta che lo incrociava, lo guardava troppo negli occhi. Una di quelle donne che non si vergognano. Che non si chiedono se sono ancora desiderabili. Lo sanno. E lo usano.

Andrea la spiava. Sempre. Ogni mattina, quando apriva le tapparelle, sapeva che lei sarebbe uscita in terrazzo, al piano di sopra, con la sua sedia sdraio e una tazza di caffè. Il sole sulla pelle ambrata, la camicia da notte bianca che, contro la luce, diventava trasparente. Nessun reggiseno. I seni pesanti, morbidi, le puntavano avanti, liberi, vibranti ad ogni respiro. Spesso si chinava, o si stendeva, e la vestaglia si apriva. Andrea guardava dal vetro, trattenendo il fiato. E il cazzo gli si drizzava subito, duro, feroce. Una mattina, lei alzò lo sguardo. Lo vide. Gli sorrise. Non chiuse la vestaglia. Non fece una piega. Si stiracchiò ancora, lasciando intravedere un capezzolo scuro, largo, eretto. Poi si voltò e rientrò in casa. Era un invito.

Tre giorni dopo, pioveva. Temporale estivo. Tuoni, vento. Andrea stava cucinando, in mutande. Bussarono. Aprì. Era lei. Carla. Indossava una vestaglia grigia, sottile, bagnata sul petto. Si vedeva tutto. I seni pieni, i capezzoli duri sotto la stoffa umida. “Scusa se disturbo… mi si è rotta una presa in terrazzo. Hai un cacciavite?” Andrea non parlò. La fissava. Il cazzo duro sotto la stoffa delle mutande. Lei abbassò lo sguardo. Lo vide. Sorrise. “Posso entrare?”

Erano in salotto. Andrea cercava la scatola degli attrezzi. Carla si avvicinò, dietro di lui. Il suo seno gli sfiorò la schiena. “Che bravo ragazzo… vivi da solo, vero?” “Sì.” “Deve essere difficile, certe notti.” Andrea si voltò. Il respiro corto. “Ti piaccio?” chiese lei, sfacciata. “Sì.” “Ti sei mai masturbato pensando a me?” Silenzio. “Sì,” confessò. Lei si avvicinò. Gli abbassò le mutande. Il cazzo saltò fuori, teso, lucido in punta. “Bello,” sussurrò. “Fallo vedere bene alla tua vicina.”

Si inginocchiò. Gli prese il cazzo con la mano. Lo annusò, lo leccò come fosse un gelato, poi lo prese in bocca. Profondo. Bagnato. Lento. Andrea gemeva. Poi si alzò. Si aprì la vestaglia. I seni nudi, sodi, naturali. Capezzoli grossi, scuri. “Baciali.” Andrea si avventò su di lei. Leccava, succhiava, li prendeva con le mani, li stringeva. Lei gemeva piano, con un sorriso sporco e caldo.

Poi si abbassò gli slip. Nessun rasoio. Peli scuri, folti, profumati di donna vissuta. La fica era bagnata, gonfia. Una figa vera. Non da ragazzina. Da femmina. Da lupa. “Scopami qui,” disse, voltandosi sul divano. “Come ti scopi le fantasie.” Andrea la prese da dietro, con una fame furiosa. Il cazzo entrò fino in fondo, caldo, stretto, vivo. Le mani sui fianchi morbidi, il seno che ballava sotto, il culo pieno che si muoveva perfetto.

Ogni colpo era un colpo a tutto quello che aveva represso per mesi. Anni. Lei gemeva, rideva, lo incitava. “Sbattilo… fammi male… fammi tua…” Venne insieme a lei. Dentro. Con un grido rauco, animalesco.

Lei si voltò, il cazzo ancora dentro, e sussurrò: “La prossima volta, portami tu il caffè. Nudo."