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Il gioco del ‘lazo’ - 2° parte


di LittleMargot
31.05.2015    |    915    |    1 9.3
"Sabato pomeriggio due persone con carrozza al traino di due cavalli passarono per la casa di Patricia a ritirare un baule come avevano concordato al mattino, ..."
Il mattino seguente, dopo colazione (ovviamente più che abbondante per James visto che era compresa nel prezzo) e dopo aver debitamente salutato il deputato Wilson, iniziò il viaggio di ritorno a Togram City durante il quale James parlò poco, era ancora scosso dalla serata precedente e nella sua mente continuava a turbinare maestosa l’immagine di Lolita Montero. Giunsero in città prima delle 11, si salutarono e Patricia andò subito in ufficio per avvisare Gordon che sarebbe andata a casa e gli avrebbe dato il cambio dopo il pranzo. La casa dove abitava Patricia, poco fuori del centro abitato, era piccola, graziosa ed accogliente, di proprietà del signor Taylor, il padrone dell’emporio, che le chiedeva una pigione modesta. Sistemò il cavallo presso la mangiatoia e l’abbeveratoio, aprì la porta con due giri di chiavistello, entrò, pose lo zaino su una panca, lanciò il cappello sul comò e si buttò sul letto così com’era, distesa supina. Si stropicciò gli occhi guardando il soffitto, d’improvviso si sentiva sola, ma sentiva ancora dentro di sé la forte emozione del giorno prima, quel desiderio che si faceva strada sempre più forte in lei: “Non posso fallire, assolutamente no, debbo riuscirci, è in gioco il mio futuro, e non solo!”, quindi aprì i bottoni dei pantaloni, e cominciò ad accarezzarsi con delicatezza il suo clitoride, socchiudendo gli occhi e immaginando il suo desiderio materializzarsi in quell’istante così com’era successo quindici anni prima e poi ancora dopo anni di attesa e speranza e poi ancora il giorno prima, il suo volto s’illuminò estatico, il suo respiro andava sempre più giù, allargava le gambe e le restringeva, le sollevava a mezz’aria e le agitava come se si stesse dibattendo sotto qualcuno, poi con la mano libera cominciò ad accarezzare i suoi capezzoli, finché poté sentire che si stava bagnando, e si appisolò. Si svegliò alle due e un quarto, si preparò rapidamente, era già in ritardo e partì veloce al galoppo. Quando giunse in ufficio Worthon era già lì con Lady O’Brien, e c’era anche un’altra persona, il dottor Michael Smith, un funzionario della banca di Yuma a cui Worthon aveva dato appuntamento due settimane prima.
James spiegò l’idea di far arrivare i soldi lunedì 12 Maggio alle 18, col sole ancora alto, per favorire la cattura del rapinatore solitario: “Ci sarà poi la luna piena, tra l’altro, serata perfetta per certi lupi nascosti nel bosco! I soldi sono già disponibili, inutile perdere altro tempo, giusto, no?”, disse rivolto al dottor Smith, che fece un cenno di assenso. Patricia disse che i giorni a disposizione erano sufficienti per controllare a palmo la zona e preparare la trappola. James aggiunse che i 120.000 dollari sarebbero stati in due bisacce, metà somma per ciascuna, tutti in biglietti da 50 non di zecca, usati e fascettati 50 alla volta, 100.000 per l’acquisto e 20.000 per altre faccende.
“Non capisco a cosa servono questi dettagli”, disse il vice sceriffo Gordon Hall.
“Come le altre rapine”, disse Patricia, “soldi facilmente spendibili. Worthon vuole essere certo che avvenga la rapina, e gli interessa che la cattura avvenga con la refurtiva in mano, giusto?”.
“Azzeccato in pieno!”, sorrise James, “Così mi si darà adito che ho avuto acume per far catturare un pericoloso criminale e, oltre a recuperare tutta la refurtiva, tranne i 5.000 di ricompensa alla nostra sceriffa, ne guadagnerò molto in gloria ed immagine in tutta la zona. Certamente sarò eletto senatore, rappresenterò l’Arizona al Congresso degli Stati Uniti, avrò più potere perfino del deputato Wilson e allora sì, vedrete qui del bel denaro sonante, eh eh eh eh...”.
“Perciò bisogna che la rapina avvenga senza ostacoli”, disse Gordon Hall.
“Certo, voi sarete qui, farete un po’ di resistenza ma dovrete soccombere, niente sparatorie, non voglio si corrano rischi, poi ci penserà Patricia alla cattura materiale. Sarò generoso anche con voi, signor Hall, penso che per 1.000 dollari potete accettare di prendere un pugno in faccia, o un calcio e svenire o inventarvi qualcosa, no? Sarete da solo, qui, con il dottor Smith che vi avrà consegnato le bisacce con i soldi, mentre io, visibilmente spaesato, sarò fuori a pochi passi perché stavo venendo qui, ed accorrerò per vedere cosa sia appena successo, un po’ di scena dovrò farla anch’io, anche se dopo un paio d’ore ritornerà Patricia con la refurtiva e il nostro uomo, giusto?”.
“Tranne un particolare”, riprese Patricia, “come facciamo ad essere certi che la cattura sarà rapida? Potrebbe anche sfuggirmi, e quindi dovrei lanciarmi al suo inseguimento, io non demorderò di certo, ma potrebbero anche volerci giorni! E se invece venissi uccisa?”.
“Non accadrà, voi siete molto abile ed esperta! Comunque, portate con voi provviste per qualche giorno, basteranno! Io però sento che lo catturerete presto, siete un’ottima pistolera e lanciatrice di ‘lazo’ e, poi, avete 5.000 buoni motivi per non fallire e giungere subito al vostro scopo! Tutto chiaro?”, chiese James ottenendo unanime assenso. “Bene, Lady O’Brien, ci vedremo martedì 13 dal notaio Walsh, ho già preso appuntamento”. Detto ciò, visto lo sguardo di James, il dottor Smith se ne andò seguito a ruota da Hall.
Quindi James guardò Margaret con una faccia particolarmente inebetita, tanto che lei capì subito di cosa volesse parlare, e lo anticipò: “egregio signor Whorthon...”, iniziò Margaret.
“James, la prego”, la interruppe Worthon.
“egregio signor Worthon”, riprese Margaret con cipiglio, “volevo soltanto informarla che Lolita Montero col suo gruppo partirà per Yuma dopodomani, il 2 Maggio, e resterà lì fino al giorno 7, dopodiché, senta che bella cosa le dico... dal giorno 9 fino a domenica 11 sarà proprio a Togram City, e quella sera stessa tornerà a Yuma. Poi andrà a Los Angeles per un ‘tour’ lungo alcune città della costa californiana, forse anche in Messico. Sarete lieto di ospitarla qui nella vostra città?”.
“Io, io... voi, beh... forse”, iniziò Worthon che già non capiva più nulla, “ecco, sì, voi, voi potreste dirle...”...
“Un bel niente!”, disse secca Margaret, “Quando arriverà a Togram City le parlerete senza intermediari, non pensate di andare a trovarla adesso o domani, è troppo occupata e certamente non avrebbe tempo da dedicare a voi. Se adesso permettete, io toglierei il disturbo e torno a casa mia”.
“Prego, prego...”, disse Worthon in modo affabile, il solo pensiero di Lolita Montero lo aveva già scombussolato. Margaret salutò Patricia, quindi uscì dall’ufficio con James che si era offerto di accompagnarla alla carrozza. Dopo qualche minuto egli tornò in ufficio con una bottiglia di vino di quello buono che Margaret gli aveva appena dato, l’aveva lasciato per sbaglio in carrozza.
“Si sta coinvolgendo troppo dal punto di vista sentimentale, James!”, gli disse Patricia mentre lui stava riempiendo due bicchieri con quel nettare, “Rischia di commettere errori, si confidi con me, piuttosto, mi dica tutto, e allora sì che le cose andranno bene! Anzi, alla perfezione!”.
“Allora vi dico, evvivano i fagioli, le lenticchie, ed anche il mais”, disse James sorridente alzando il bicchiere di vino rosso che non vedeva l’ora di gustare. Patricia rimase con lo sguardo inebetito, comunque brindò con lui. Poco dopo James se ne andò, e rimase sola nell’ufficio. Sistemò delle carte e, poco prima delle 6, partì per una rapida cavalcata verso le colline che dominavano la città. Trovò presto un buon punto d’osservazione. Vista l’ora decise di rincasare e durante il tragitto ripensò alle parole di Worthon, specialmente certe parole: c’era qualcosa che non le tornava logico.

Il giorno dopo, il 1° Maggio, giovedì, il tempo era buono con qualche nuvoletta sparsa. Patricia discusse con Gordon il piano di Worthon, poi uscì e andò sulle colline. Scrutò la piazza di Togram City e le strade vicine, le due possibili direzioni di fuga, ma era preoccupata, quello che aveva detto James il giorno prima continuava a infondere dubbi nella sua mente. Al pomeriggio non andò in ufficio, aveva mal di testa, ed erano scese le ‘rosse’. Rimase chiusa in casa fino all’ora di andare a dormire, non voleva far tardi, aveva bisogno di riposare, e la domanda che continuava a porsi era sempre la stessa: “Ma come fa Worthon a sentirsi così sereno e sicuro di sé?”.

La sera di domenica 4 Maggio la mezza luna in fase crescente brillava a tratti oscurata da piccole formazioni nuvolose che un discreto venticello portava a spasso come pecorelle. Poco dopo le 23 uno smilzo figuro scavalcò lo steccato di una zona poco in vista della tenuta O’Brien, distante dalla casa padronale. Altri due uomini di media corporatura stavano all’esterno, lungo la strada ma al riparo dietro dei cespugli, in attesa che il loro complice facesse uscire i primi capi di bestiame dalla stalla principale. Manuelito entrò furtivo nella stalla da un’apertura posta in alto, il chiarore lunare filtrava a tratti. Passò vicino alle mucche che non apparivano nervose per la sua presenza, tra l’altro stavano dormendo. Non fece in tempo ad aprire il primo cancelletto che una figura tutta vestita di nero gli fu subito alle spalle e lo colpì alla nuca con un grosso bastone stretto tra degli splendidi guanti di cuoio. Manuelito svenne e in un paio di minuti fu imbavagliato e legato a dovere. Gli altri due, Cisco e Gonzalo, dopo una decina di minuti cominciarono ad innervosirsi. Un attimo dopo Gonzalo sentì un rumore alle loro spalle, si voltò e si alzò di scatto, e così anche Cisco. “El diablo!”, disse Gonzalo impaurito, “Es el diablo!”. Con le gambe tremanti corsero verso la strada sentendo un regolare e ritmato galoppo dietro di loro. Correvano affiancati, non sapevano cosa fare, mentre l’oscura figura guadagnava terreno nei loro confronti. I due marioli sentivano sul collo il fiato caldo di quel cavallo nero che non gli dava tregua, erano sfiniti, si bloccarono e tentarono una fuga lungo il campo, ma furono subito raggiunti, quel cavallo gli si parò davanti e si sollevò sulle zampe posteriori, Gonzalo sbiancò: “oh, no... no... es el diablo!!”, e ripresero la fuga che ormai era al termine. Il cavallo fu presto a lato dei due fuggitivi che correvano appaiati, fianco a fianco, una facile preda per chi stava cavalcando. Da una larga tasca a lato della sella la mano guantata di cuoio tirò fuori una corda con il ‘lazo’ a scorsoio già pronto, lo fece roteare e al momento giusto lo lanciò, facendolo stringere poi al petto e alle braccia di quei due che, per effetto del tiro, si ritrovarono schiena a schiena con quella corda che li stringeva sempre di più. “Làstima! Làstima! (pietà)”, implorarono, ma la corda fu tesa, e il cavallo riprese il passo, così quei due dovettero adattarvisi, a nulla servirono i loro lamenti. Due occhi scintillanti li guardavano con severità, quindi la passeggiata forzata ebbe termine vicino ad un albero poco distante dalla strada. Il cavallo fu condotto in modo da mettere quei due a ridosso dell’albero, poi fece due giri attorno al medesimo per assicurarveli, quindi la figura misteriosa scese con balzo atletico, tirò la corda a sé per stringere meglio e cominciò a girare ancora attorno all’albero, facendo altri cinque giri, quindi si avvicinò ai due che tremavano di paura e non fece economia di nodi. Poi sollevò la testa e la mano come per dare un saluto militaresco. “Qué?!”, esclamò all’improvviso Cisco che aveva notato una certa cosa in quella figura vista di profilo, “Gonzalo! Es una mujer!!”, ma ricevette subito una forte sberla. Quindi prese una fiaschetta da una bisaccia, aprì il tappo e l’avvicinò alla bocca di Cisco. Non c’era bisogno di dire nulla, e Cisco iniziò a bere, si trattava di ‘tequila’ pura, e dovette trangugiare tutta la fiaschetta, si lamentava e aveva la testa a penzoloni. Quella figura allora prese una seconda fiaschetta e la fece bere tutta a Gonzalo, ormai erano sbronzi da far paura.
“Adios amigos!”, disse poi salendo a cavallo e correndo al galoppo verso la città. Per strade secondarie giunse alla casa dello sceriffo Fernandez, pose un foglio sul tavolino che era fuori della porta e ci mise un sasso sopra, quindi batté con forza alla porta e si allontanò di quanto bastava.
Un attimo dopo uscì Carlos Fernandez: “Ma cosa...”, disse tra sé guardando la sagoma nera in distanza che lo salutava per poi ripartire subito al galoppo. Prese quel foglio e lesse: ‘da O’Brien, tres ladrones’. Rientrò in casa e, dieci minuti dopo o poco più, salì a cavallo per andare sul posto. Vi giunse in pochi minuti, girò attorno, non c’era nessuno, poi sentì dei lamenti strani presso un albero e trovò i due ubriachi. Li lasciò lì ed andò alla stalla, e trovò il terzo ladro, anch’esso legato. Non c’era nessun altro lì intorno, si avviò verso la casa padronale, e bussò con forza. Aprì Felipe, un aitante ragazzo trentenne, mulatto. Carlos spiegò la situazione e lui andò a chiamare Lady O’Brien che scese subito, indossava un’ampia vestaglia di seta bianca. Messa al corrente di tutto, diede disposizioni affinché quattro lavoratori andassero ad aiutare lo sceriffo nell’operazione di recupero dei ladri, quindi lo salutò. Lui la osservò per un istante mentre tornava di sopra, quindi se ne andò.

La notizia del tentato furto ai danni di Lady O’Brien fece presto il giro delle città vicine, mentre la prigione di Vajrennah non era mai stata così piena, tanto che lo sceriffo Fernandez chiese ed ottenne dal giudice Sullivan il trasferimento dei banditi a Tucson.

Venerdì 9 Maggio, nel pomeriggio, Patricia si recò all’emporio del signor Taylor per pagare la pigione. Era impegnato a fare una specie d’inventario, mentre il garzone serviva i clienti. “Qualcosa non va?”, chiese Patricia porgendogli i soldi vedendo la sua espressione corrucciata.
“Una cosa strana”, disse Taylor mettendo in tasca i soldi avuti da Patricia e dandole una ricevuta firmata, “aspettavo per la mattinata di oggi il carico completo da Yuma, e il conduttore mi ha detto che il resto l’avrebbe portato domenica pomeriggio, verso le 6... perciò dovrò essere qui col negozio chiuso!”.
“Mancavano molte cose?”, chiese Patricia.
“No, sei sacchi di sementi varie, mais, fagioli e lenticchie, e insieme al carico viaggerà anche un medico, un certo dottor Smith, così mi ha spiegato l’addetto alle consegne. Che stranezza, si vede che deve venire da queste parti con delle medicine o fare dei controlli medici, ma proprio di domenica pomeriggio?!”, sbuffò Taylor.
“Porti pazienza”, lo incoraggiò Patricia che rimontò sul cavallo per andare a casa, in ufficio c’era Gordon per il turno fino a sera. All’improvviso si bloccò. “Mais, fagioli e lenticchie...”, mormorò tra sé, “...le stesse parole di Worthon, e ci sarà il dottor Smith... Smith!! Altro che medico!! Oh, no! Questo significa solo una cosa... che domenica pomeriggio ci sarà la... non c’è un attimo da perdere!!”. Spronò il cavallo e giunse presto a casa, prese con sé un paio di cose ed uscì di nuovo al galoppo, diretta sulle colline e poi fece un altro ampio giro. Rincasò a notte fonda.

Sabato pomeriggio due persone con carrozza al traino di due cavalli passarono per la casa di Patricia a ritirare un baule come avevano concordato al mattino, prima della sua lunga cavalcata.
Domenica mattina, 11 Maggio, Patricia fece una passeggiata in giro per la città, tornò a casa a pranzare e si preparò di tutto punto. Uscì verso le 3, vestita da far girare la testa per quello che si poteva vedere. Sopra una camicetta rosso acceso indossava un giubbotto nero ricamato, con la stella dorata sul petto, i guanti neri da mandriano erano un utile accessorio. La cinturona con i caricatori e la fondina con la pistola erano coperti dalla parte bassa del giubbotto. Sfoggiava un paio di blue-jeans nuovissimi, con una forte tonalità di blu, e un paio di stivali bianchi nuovi di zecca, con la suola rinforzata e tacchi molto robusti, sui suoi capelli biondi lisci e sciolti svettava un cappello bianco e largo che aveva preso il giorno prima al mattino. Worthon quasi restò secco appena la incrociò. “Di certo non andate in ufficio”, le disse.
“No, giornata libera, non torno a casa stasera, ho portato con me delle buone provviste”, disse battendo la mano destra su una delle quattro bisacce legate fisse alla sella. Appena gli diede le spalle, lui avrebbe voluto infilarsi la mano nei pantaloni, ma si trattenne, aveva altro a cui pensare.

Erano le 17.30 quando Patricia, ritta sul suo forte cavallo, cominciò a scrutare col suo potente binocolo la piazza di Togram City da quella sua postazione sulle colline a tre miglia di distanza. I minuti passavano lentamente. Mancavano 10 minuti alle 6 quando vide quella carrozza proveniente dalla strada per Yuma che imboccava l’ultima curva per entrare a Togram City, ancora qualche minuto e sarebbe giunta davanti all’emporio di Taylor. Sentì l’emozione che cominciava a salirgli, le pulsazioni anche. Con la mano sinistra si tolse per un attimo il cappello girandolo di lato, lo scosse un po’ avanti e indietro vicino al viso, poi se lo rimise in testa. La carrozza si fermò davanti l’emporio un paio di minuti prima delle 6, scese il cocchiere che aprì una porta, lei lo vide bene scaricare un sacco, poi altri cinque, e quindi vide scendere il dottor Michael Smith con due bisacce. A un centinaio di passi, sulla sinistra, c’era Worthon che si stava avvicinando lentamente. Patricia tremava, sentiva una specie di affanno, si levò nuovamente il cappello girandolo di lato e si fece ancora un po’ di aria, gli occhi erano sempre appiccicati al binocolo. Fu come un lampo! Da un angolo con una stradina laterale piombò a tutta forza, facendo un gran polverone, un cavallo nero guidato da una persona completamente vestita di nero, dal cappello con la mascherina fino giù agli stivaloni. Il dottor Smith rimase come paralizzato mentre il cocchiere si diede alla fuga, il signor Taylor si chinò e strinse a sé uno dei sacchi di sementi. Quella nera figura scese d’un balzo, Smith cercò di tenere strette le bisacce e fuggire, ma fu subito raggiunto e messo giù con uno sgambetto. Sentì uno stivale premergli il petto mentre due mani guantate di cuoio nero strappavano le due bisacce dalle sue deboli mani. Worthon si portò le mani nei capelli e iniziò a correre alla disperata verso quella persona che era appena balzata in groppa al cavallo nero, e si pentì di non aver mai voluto portare con sé una pistola da quando venne eletto sindaco. Allargò le braccia correndo incontro a quel cavallo diretto verso di lui, sperava di poterlo fermare, ma l’unica cosa che ottenne quando il cavallo gli passò a fianco fu una poderosa stivalata in faccia. Cadde a terra imprecando e urlando, si rialzò e se la prese con Smith strattonandolo con energia, mentre il polverone celava alla sua vista la direzione che aveva preso quel cavallo nero nella fuga. Patricia, intanto, dal suo punto di osservazione, aveva visto tutto alla perfezione, e lanciò il suo cavallo al galoppo in una ben determinata direzione. Trascorsi dodici minuti sentì un forte rombo di zoccoli avanti sulla destra, era il momento di uscire dal boschetto e lanciarsi sul sentiero, la persona ammantata di nero era un ottavo di miglia davanti a lei che si era appena inserita nella sua scia. Un forte schiocco di redini, strinse le gambe e cominciò a spronare ancor più forte il suo cavallo. La persona in nero voltò la testa per una frazione di secondo, quanto bastò per fare altrettanto per aumentare l’andatura del suo cavallo, dando di sprone a più non posso. Patricia guadagnava terreno a vista d’occhio e continuava ad incitare il suo cavallo battendogli i fianchi con i tacchi, cosa che faceva anche chi stava davanti, ma che continuava a perdere terreno. Quando fu a una ventina di passi dal suo obiettivo, Patricia prese la corda con il nodo scorsoio già preparato alla perfezione, era sempre più vicina, e nonostante l’altra persona battesse le gambe con frenesia la distanza diminuiva sempre di più, mancavano dieci passi, nove... Patricia iniziò a far roteare il ‘lazo’ con abile maestria... otto passi, sette, sei, distanza perfetta! Lancio! Un secondo dopo quel cerchio di corda fu esattamente sopra la persona in nero, calò e si chiuse sul suo busto stringendo quelle braccia che non potevano più tirare e manovrare correttamente le redini. Patricia tirò, il cavallo nero s’impennò, tornò in equilibrio, provò a ripartire, ma Patricia non mollava la presa e si avvicinava tirando la corda a sé mentre la figura in nero sbatteva inutilmente le gambe, finché, esausta, fece fermare il cavallo e chinò la testa. Patricia si avvicinò da dietro a passo lento, e quando i cavalli furono affiancati si sporse di lato, ponendo il suo viso accanto a quello della persona in nero. I due visi, che avevano assunto un’espressione ilare, si girarono lentamente l’uno verso l’altro mentre i loro occhi restavano chiusi. Le labbra si sfiorarono, le timide lingue uscirono dalle loro tane, si cercarono e si toccarono con le punte, e ci fu una scarica elettrica in quei due corpi le cui anime si desideravano da impazzire. “Finalmente...”, disse Patricia che con tutto quello spronare era quasi già all’orgasmo, “...non puoi immaginare quanto ero in pena, temevo che non ce l’avresti potuta fare!”.
“Quest’ultima rapina non poteva compierla lei, ma con la maestra che abbiamo e con te come capo banditesse per le operazioni sul campo, non c’era nulla da temere, ed è stata una fortuna che Taylor, l’altro giorno, con le sue parole ti abbia fatto capire che la consegna del denaro sarebbe stata oggi!”, disse con voce sensuale Rosalinda Gomez alzando la maschera. Risero assieme baciandosi profondamente. “Andiamo lì avanti, tra quella macchia di alberi!”. Patricia fece per slegarla, ma Rosalinda le chiese di restare così ancora un po’. Giunte fra gli alberi Patricia la slegò e scesero dai cavalli, stavano una di fronte all’altra, Patricia la superava di quasi 4 pollici (10 cm). La brunetta Rosalinda, con mosse sensuali, le tolse il giubbotto, mentre del nero mantello fece una specie di lenzuolo su cui sdraiarsi. Toccò alle camicette, l’una sbottonava quella dell’altra mentre le lingue lottavano tra le loro bocche dando sensazioni di libertà e leggerezza. Al tocco dei capezzoli il ritmo si fece più forte, Patricia mosse la testa all’indietro, si abbandonò nella salda presa di Rosalinda che la fece sua e la distese sul mantello nero, quindi le tolse quei bianchi stivali, le sbottonò i blue-jeans e glieli sfilò, scostò le mutandine, e altrettanto fece con sé stessa, ma non aveva l’ingombro dei pantaloni, quindi si adagiò sopra la sua passione adolescenziale ed iniziò a succhiarle i capezzoli, ed altrettanto fece Patricia con lei. Poi Rosalinda accarezzò la rosa della sua complice, vi pose sopra la sua, e iniziò a muoversi con dolce cadenza, roteando e massaggiando, i clitoridi si cercavano e si toccavano, quei due corpi così a contatto si davano l’uno per l’altro, le goccioline di sudore correvano lungo la schiena e sulla fronte. Patricia si dimenava per l’eccitazione sotto Rosalinda che sentiva il suo respirare sempre più profondo, gli umori dell’una entravano nell’altra, si sentirono sollevate in un vortice di godimento inarrestabile finché, sfinite ma felici, giunsero all’orgasmo. Stettero abbracciate alcuni minuti e si alzarono, Patricia si rivestì dando a Rosalinda un cambio di vestiti che aveva in una bisaccia, le altre tre contenevano ciascuna metà refurtiva delle altre rapine. Patricia sorrideva, la prima tappa era vicina, si trattava della fattoria di Mattew Bradley, fratello di Andrew, gente fidata visto che, infine, al padrone di ognuna delle fattorie che avrebbero dovuto essere comprate da certi ‘tipi’ era stata data metà della refurtiva per sistemare la situazione in cui si trovavano. Vi giunsero presto, e come convenuto con Patricia due giorni prima c’era anche Alice che per quella notte avrebbe condiviso con loro due un grande lettone. Aveva già preparato anche la cassa dove mettere metà della refurtiva della rapina appena fatta e un certo corredo tutto nero, al momento giusto chi di dovere sarebbe passato a ritirare tutto, cavallo compreso. Rosalinda e Patricia abbracciarono i Bradley che avevano già preparato le provviste per il viaggio che dovevano ancora fare fino a Los Angeles, mentre Alice era già eccitata al pensiero della notte che l’aspettava.

Nel frattempo, a Togram City, Worthon non faceva altro che correre alla disperata lungo la piazza, pareva un tacchino furioso alla vigilia della festa del ringraziamento. Entrò con la sua chiave nell’ufficio di Patricia, c’era un perfetto ordine, quindi diede un’occhiata a delle carte, appunti di colloquio col giudice Sullivan, e lesse un certo nome: “Cosa?! Questo?!”, disse tra sé. Corse fuori sbattendo la porta, passò davanti all’emporio, aveva visto ferma lì vicino la carrozza del deputato Wilson, era in preda al panico. Imboccò di corsa una via laterale e si bloccò di colpo trovandosi davanti Lady O’Brien e Lolita Montero che passeggiavano a braccetto. “Che fate qui?”, chiese.
“Domani mattina Lolita parte, sono venuta a salutarla. Ma vi sentite male?”, chiese Margaret.
“I soldi... spariti...”, iniziò Worthon affannato, probabilmente per l’effetto ‘Lolita’, “un enorme cavallo nero... un cavaliere nero, grande, tremendo... mi ha dato un calcio in faccia, qui...”.
“Ma se i soldi arrivano domani?!”, chiese Margaret come se nulla fosse accaduto.
“Macché... quello era un trucco del deputato Wilson per fuorviare le idee, ma come faceva il bandito a sapere che... e Wilson, che ne voleva 15.000 per sé, non mi ha detto tutto, c’è un’altra persona che... oh no! Sono rovinato!”, disse disperato gettandosi in ginocchio, “E’ meglio se torno a fare il boscaiolo e il falegname, se ci riuscirò...”, quindi si inchinò davanti a Lolita baciandole gli stivali, “...se volete potrò farvi da spalla nei vostri spettacoli, tutto quello che volete, vi supplico”.
“Suvvia, alzatevi, non è dignitoso ciò che state facendo qui, non siamo in teatro”, disse Lolita.
“Ma allora parlate anche la nostra lingua!?”, disse Worthon sorpreso guardandola in volto.
“Certo”, rispose lei sorridendo, “e parlo anche il francese. I miei genitori sono di una famiglia nobile spagnola, hanno vissuto molti anni in Francia, poi come dignitari di corte a Napoli sotto re Ferdinando II... è lì che sono nata, ma quando avevo 10 anni ci siamo trasferiti qui in America, 23 anni fa. Siamo stati 6 anni a New York e poi ci siamo stabiliti a Los Angeles in California, avevo 16 anni, terminai la mia formazione scolastica e mi diedi al teatro. Dieci anni fa, a Los Angeles, al termine di una rappresentazione conobbi Margaret, e scoccò una certa scintilla”, continuò con un gentile sorriso mentre Worthon stava ancora in ginocchio ad ascoltarla con la testa chinata, “ricordo anche qualcosa del dialetto napoletano... quando vi ho preso col ‘lazo’ sul palco avrei voluto dire ‘gajariellu, addò t’abbie’?... Che storie...”, sospirò. Una lacrima sfuggì dagli occhi di Lolita e cadde sui capelli di James, Margaret se ne avvide. “Dai, alzatevi”, disse Lolita con dolcezza.
“Eccolo qui, il buffone di corte!!”, proruppe all’improvviso la voce del deputato Wilson, “Sciagurato, ho saputo cos’è successo!! E adesso cosa facciamo?! Eh?! Lei a Tucson non sarebbe utile nemmeno per pulire latrine!!!”, urlò Wilson. Worthon si era appena alzato in piedi, restò muto.
“Signor Wilson, non mi sembra proprio che lei abbia il diritto di...”, iniziò Margaret.
“Lei stia zitta!!”, gridò Wilson, “E anche voi!!”, rivolto a Lolita, “...oche!!”. Non passò un secondo che il deputato Wilson ricevette da Worthon un pugno talmente forte da farlo cadere a terra e rotolare per qualche passo nella polvere.
“Non si permetta più di insultare le nostre donne, sottospecie di manichino impomatato, vada a fare il cicisbeo da qualche altra parte, assieme a quel Joseph Walker... se avessi saputo che quella canaglia era coinvolta, mai mi sarei adoperato per voi”, e gli sputò sopra. Worthon si girò verso le due donne dando le spalle a Wilson. Questi si rialzò e, ancora instabile sulle gambe, estrasse la pistola, la stava per puntare alla schiena di Worthon. Ma, d’un lampo, Margaret si accorse di quella mossa, e come una pantera balza sulla gazzella, con la stessa agilità spiccò un salto ed afferrò la mano di Wilson che sparò un colpo che finì sul terreno, sotto gli occhi del giudice Sullivan accorso per il trambusto. Lolita si strinse in sé stessa per la paura e d’istinto si avvinghiò a Worthon, mentre Margaret premette così forte le ossa del polso destro di Wilson che quest’ultimò gridò di dolore con un tono così acuto che avrebbe meritato il posto d’onore nel coro delle voci bianche, e la pistola gli cadde dalla mano. Margaret, senza mollare la presa, gli assestò una forte ginocchiata sui genitali e Wilson si piegò sotto lo sguardo compiaciuto di quegli spettatori occasionali, quindi gli diede una gomitata fulminante sulla bocca, un pugno sul naso e lo rimandò nuovamente per terra.
“...due volte nella polvere... però mai una volta sull’altar...”, mormorò Lolita mentre Worthon la guardava perplesso, “sono ricordi che ho dell’Italia”, gli spiegò.
Quindi Margaret schiacciò la testa di Wilson tenendola premuta sotto il suo stivaletto destro: “Questo per insegnarvi che non si toccano i nostri ragazzi, capito? Voi non mi siete piaciuto fin dal primo momento che vi ho incontrato a Vajrennah. Non si faccia più vedere qui, altrimenti non la passerà liscia, parola di Margaret O’Brien o, se preferite, la vedova O’Connor! Mio marito Kenneth, passato a miglior vita 17 anni fa, era il fratello minore di Jason, anch’egli non è più tra noi già da 10 anni, erano cugini di Francis O’Connor, le ho schiarito le idee? Sa chi sono gli O’Connor di Boston? Forniture militari per l’esercito, divise e armi... e talvolta pranzano alla Casa Bianca... mi sono spiegata? Volete che chieda a mio cugino Francis di mandarmi un cannone, così da usarvi come bersaglio quando mi va di giocare? Alzatevi e sparite!!”, gli intimò Margaret.
Impolverato e tremante, Wilson si alzò. Il giudice Sullivan, strizzato l’occhio a Margaret in segno di approvazione, lo accompagnò alla locanda perché si cambiasse e se ne andasse via.
“...Lady O’Brien”, iniziò Worthon stralunato, “allora questo significa che Patricia è...”.
“Certo, è mia nipote”, disse Margaret sorridente, “ma nessuno lo sapeva”, e a Worthon fu finalmente tutto chiaro, specialmente il motivo per cui tutte le rapine ebbero successo, e tra sé ne fu compiaciuto. Dal tono di Margaret capì che Patricia non le aveva mai rivelato degli atteggiamenti avuti nei confronti di sua nipote, e si sentì l’animo liberato dal peso di quel rimorso.
“Credo che per me sarà meglio essere un vero ‘qualcuno’ nella piccola Togram City che un ‘qualunque nessuno’ a Tucson o a Washington”, disse poi James facendo restare di sasso Margaret.
“Ha capito la lezioncina, un bravo allievo davvero! Pensi che io ho due figli, gemelli, che hanno 21 anni! Poco dopo la morte di Kenneth, con mio dolore, si è deciso che restassero a Boston con gli zii, loro avrebbero potuto crescerli meglio di quanto avessi potuto fare io da sola, avevano solo quattro anni! Con la mia parte di denaro sono arrivata qui e ho rilevato la tenuta dei Lancaster, ed è per i miei tesori che due volte all’anno vado a Boston. Di recente hanno deciso di prendere il mio cognome, per non creare acredini in azienda, che non si pensi a favoritismi o cose del genere”, disse Margaret mentre Worthon ascoltava in religioso silenzio per non perdere una sillaba. “Io e Lolita stiamo andando a cena assieme”, riprese, “partirà domani mattina invece di stasera, ma non ci sarà alcuno spettacolo... bene... premesso che io mi chiamo Margaret e basta”, continuò fissando Worthon in maniera decisa, “e visto che la cena la offro io, che ne dice di unirsi a queste due ragazze... James? Non si preoccupi per l’immagine in pubblico, vostra moglie è una gran signora e capirà”. Quel faccione gioviale e rasserenato era la migliore risposta che si aspettava.

Altro tipo di atmosfera si respirava in una delle stanze da letto al piano superiore della fattoria di Mattew Bradley che, di ampie vedute, non voleva interferire nei desideri di sua nipote Alice e delle sue compagne. Patricia si tolse il cappello che le aveva dato Lolita il giorno prima, era un cappello da scena, e lo roteò mostrando la parte interna, un tessuto che pareva argentato a specchio, perfetto per mandare segnali luminosi a distanza facendolo colpire dai raggi del sole, ottimo sistema per avvisare Rosalinda e le altre due complici del momento giusto per agire; le strizzò l’occhio e lanciò il cappello sul comò. Vicendevolmente una delle tre toglieva qualcosa all’altra, le prime cose che vennero tolte furono gli stivali per stare più comode su quel grande lettone. Le labbra di Patricia si adagiarono su quelle di Rosalinda, e poi si baciarono a tre, Alice si pose in mezzo e tolse la camicetta a Rosalinda, lei lo fece con Patricia, e via così, toccandosi a vicenda, accarezzandosi i capezzoli, stuzzicandosi con la lingua l’una il collo dell’altra e poi ancora i capezzoli, e quindi via i pantaloni, le calze, le mutandine e i reggiseni, e tutto come in una ritmica danza sensuale sempre più frenetica e coinvolgente. Patricia era già stata assieme ad Alice qualche volta, in quella casa e nel bosco, e un paio di volte anche con la presenza di Rosalinda, che aveva ripreso a frequentare da quando l’aveva ritrovata alcuni anni prima, e il suo occhio attento le fece scorgere un piccolo neo sul gluteo destro, un neo che non avrebbe dovuto esserci. “Ma tu non sei Alice... sei Susan, allora”, e questa sorrise complice e maliziosa nell’abbraccio di Rosalinda che le stuzzicava i seni.
“Certo... e in questo momento Alice sta facendo Susan... una Susan che però sta poco bene e non può uscire col suo ragazzo... ha voluto che venissi io, perché provassi qualcosa di nuovo per me... e ne sono felice”, disse abbracciando Patricia mettendola supina. Rosalinda salì su Patricia, continuava ad accarezzarla, mentre Susan le passava una mano sulla sua splendida farfalla, e si mise di fianco. Rosalinda fece sue entrambe le bionde, stimolando il clitoride di Susan che allargò le gambe muovendole freneticamente, si abbracciavano l’una con l’altra, si distendevano prima sopra e poi sotto, si avvinghiavano... gli umori salivano, e anche la temperatura in quella stanza, erano tre ma sembravano un tutt’uno, Susan stava dietro a Patricia e l’avvolse nella sua morsa tra braccia e gambe, mentre Rosalinda stava distesa anche lei di fianco ma di fronte a Patricia, le loro labbra carnose si sfioravano e si premevano, i capezzoli di una stimolavano quelli dell’altra, mentre le abili dita di Susan li toccavano magistralmente, i loro piedi si cercavano e si solleticavano, i clitoridi di Patricia e Rosalinda si strusciavano tra di loro, mentre quello di Susan spaziava sui glutei di Patricia... non c’era spazio per le parole, ma solo per le emozioni, emozioni intense che portarono le tre complici ed amanti a salire sopra una nuvola, leggere leggere, come farfalle che si libravano sopra i delta di Venere e col vento della passione che le cullava e le coccolava, fino a farle giungere ad un orgasmo che così mai avevano provato, mentre poi la stanchezza le fece sue, avvolgendole col suo mantello nel buio della notte silenziosa, una notte fatta tutta di sogni armoniosi e leggiadri, dolci come il miele e freschi come una limpida cascata di un torrente in montagna.

Passarono le settimane, e giunse l’estate. Era una mattina dei primi di Luglio quando Margaret O’Brien, col suo nuovo taglio di capelli, a caschetto con le due mezze lune appuntite ai lati, se ne stava seduta comodamente alla scrivania della sua ampia stanza da lavoro al piano terra. Indossava una camicetta bianca ed un bel paio di blue-jeans con degli stivali da cow-girl, comodi, in pelle e col tacco robusto. La sedia era scostata dalla scrivania e teneva le gambe comodamente distese su di essa. Incrociava i piedi mettendo prima sotto uno e poi l’altro, facendo echeggiare nella stanza un ‘toc’ di tanto in tanto. Stava leggendo il resoconto mensile del fattore, era abbastanza soddisfatta anche se aveva sperato che i raccolti fossero più abbondanti. Sentì bussare alla porta: “Sì, avanti!”, disse. Entrò Felipe con la posta dell’ultima settimana, lei non voleva guardarla giornalmente, la faceva raccogliere e poi se la faceva portare tutta assieme in una volta. “Poggia pure qui, Felipe”, disse facendogli cenno che poteva andare. Felipe rimase lì a guardarla, Margaret se ne avvide: “Avete da chiedermi qualcosa?”, chiese Margaret fissandolo dritto negli occhi.
“Siete incantevole, padrona”, disse tenendo le mani giunte, mentre il solco del sorriso velato da qual taglio di capelli rendeva Margaret ancora più seducente e sensuale ai suoi occhi, “vorrei poter fare qualcosa per voi, chiedetemi pure tutto quello che volete”.
Margaret sollevò un piede e lo roteò maliziosamente, “questi stivali hanno bisogno di una pulizia accurata”, disse indicando un cassetto di un armadio ripostiglio. Felipe prese il panno adatto che stava lì dentro e la crema, ed iniziò quel suo incarico. Margaret si mise più comoda e rilassata, cominciò a passare tra le mani quelle otto lettere leggendone il mittente, ne scelse tre, una delle quali era anonima, senza mittente, le altre due provenivano da Los Angeles in California, e un genuino sorriso le illuminò il volto, mentre Felipe la guardava eccitato. Aprì una busta e lesse:
‘Carissima zia Margaret, io e Rosalinda stiamo bene, felici di essere qui. Con metà del denaro che abbiamo trattenuto per noi siamo riuscite a rilevare una locanda abbastanza bella, con ristorante, sarà da sistemare ma siamo certe che ce la faremo, c’è molto movimento, e con le idee che abbiamo vedrai che ci frutterà molto bene. Mi credi se ti dico che abbiamo ciascuna trovato un ragazzo? La nostra passione, però, non finirà mai. Paul Evert, il mio ragazzo, è timido, gli sembra un po’ strana questa intesa tra me e Rosalinda, però a poco a poco ci capirà, è di buona famiglia, e lavora con dei pescatori. Il ragazzo di Rosalinda invece è un vulcano, si chiama Ignacio e lavora presso un’ottima fattoria che ci rifornisce, lui fa le consegne, e quando arriva fa festa con Rosalinda, e si è eccitato alla follia una sera, ben dopo la chiusura, guardando cosa facevamo io e Rosalinda, lei gliene aveva parlato alcuni giorni prima e lui le aveva detto che non vedeva l’ora di vederci divertire assieme. Noi ti ringrazieremo sempre per quanto hai fatto, per quanto hai rischiato, ti sei sempre esposta tu in prima persona, tranne per l’ultima impresa a Togram City, non c’era altra possibilità visto che io e Rosalinda avevamo pianificato la nostra uscita di scena, ed era l’unico modo per riuscirci, temevo non potesse farcela e invece ha dimostrato di essere all’altezza della situazione. Talvolta rido ancora se penso a quella notte che ti ho aiutata a catturare quei quattro sbandati che volevano rubare dai Linch, loro vedevano solo te, ma c’ero anch’io, nascosta, a tirare le trappole quando qualcuno di loro, indietreggiando per paura del ‘diavolo’ che gli stava andando incontro, ci metteva sopra i piedi! Almeno una volta alla settimana vediamo anche Lolita, sempre più stupenda, esuberante, solare, ma a volte mi chiedo in realtà com’è dentro e cosa pensa, chissà che anche per lei si possano aprire nuovi e più stimolanti orizzonti, fortunato chi la incontra! Dobbiamo molto anche a lei per le informazioni che ci ha passato grazie al suo giro di amicizie, con cui è venuta a sapere in anticipo di certi strani movimenti di soldi e piani di furti. E’ stata molto gentile a portare con sé a Los Angeles il baule con tutte le cose mie e di Rosalinda. Ti saluto qui, un bacio e un abbraccio, anche da parte di Rosalinda e dei nostri ragazzi.... tua, Patricia’.
“Buone notizie padrona?”, chiese Felipe vedendola raggiante.
“Buone?! Ottime direi!”, rispose Margaret muovendo i piedi sentendo la salda presa di Felipe che stava facendo un lavoro perfetto con i suoi stivali. Quindi aprì la seconda busta, e lesse:
‘Margaret, mia maestra e padrona, qui a Los Angeles e dintorni è tutto un movimento, questo lo sai bene, ho fatto rappresentazioni anche a San Francisco, che splendida città! Vorrei tanto tu fossi qui con me a divertirti. Vedo spesso Patricia e Rosalinda, sai, hanno preso una locanda e anche due ragazzi, ma immagino che Patricia ti abbia già scritto! Ricordo ancora di quella volta che mi hai raccontato che di nascosto avevi assistito a quel loro primo incontro quasi intimo, e avevi gli occhi che ti si illuminavano, come quando poi ci siamo conosciute io e te. Sei sempre nei miei pensieri, per metà Agosto sarò a Yuma per qualche giorno, e poi a Togram City e a Vajrennah! Olè, altri spettacoli per portare un po’ di vita, e ricordati di avvisare quel micione di James, voglio portarmelo ancora a spasso su e giù per il palco, è meglio che non gli scrivo io, se no quello va in estasi e per settimane non penserebbe ad altro! Ti saluto qui, con passione ed affetto, tua per sempre Laurencia Carmela Vittoria Montero Ferrer de lo Castillo, in arte Lolita Montero... per te, Lolita e basta!’.
Scosse la testa sorridendo, piacevolmente stimolata anche da ciò che le stava facendo Felipe, era come se le stesse massaggiando i polpacci. Prese la busta, quella anonima senza mittente, e la aprì, c’era dentro un foglio ben piegato in quattro, lo aprì e s’immerse in quella breve lettura:
‘Ho ancora nella mente un ricordo bellissimo, il ricordo di una magica notte in cui una figura ammantata di nero, con tre colpi di spada ben precisi, mi lasciò in mutande, ed ho anche un ricordo più vicino, di un saluto dato in lontananza, ma ho anche il bellissimo ricordo di una dama con una lunga vestaglia bianca di seta che saliva delle scale per tornare in camera sua, una bellissima e fine vestaglia, che però lasciava intravedere di sotto il nero che non era il colore della notte, ma quello di una recente impresa. Il fascino di quegli occhi scintillanti ancora oggi mi prende, e tutte le notti dopo le 11 esco nella speranza di poterli guardare di nuovo, per poter toccare quell’apparizione, per starci insieme, per poter vivere un angolo di vita che sia degno di essere vissuto. Nella speranza che ciò possa avverarsi, Vi saluto con rispetto e riverenza. Suo, sceriffo Carlos Fernandez.’.
“Certo, tranquillo...”, mormorò Margaret sorridendo e ripiegando con cura quel foglio per riporlo nella busta dov’era, “stanotte vedrai la tua ‘mistress’!”.
“Che cosa vedrò, padrona?”, chiese Felipe, “Cos’è la ‘mistress’?”.
“Non preoccuparti, Felipe, continua a pulirmi gli stivali! Svelto, dai”, disse maliziosa.
“Mi ha incuriosito, padrona, la supplico, mi dica cos’è quella cosa”, chiese Felipe senza smettere di lucidare quegli stivali di ottima qualità.
“Felipe, mi sembra di essere stata chiara”, riprese Margaret in modo da stuzzicarlo conducendo un gioco che lui non sapeva di giocare, in quel momento, nel ruolo perfetto.
“La prego, padrona”, disse mettendosi in ginocchio e baciandole gli stivali, “sono ai suoi piedi, ai suoi ordini, ma mi tolga questa curiosità, padrona! Cos’è una ‘mistress’?”.
“E va bene, voglio essere magnanima!”, disse Margaret in tono solenne ed autorevole, “In molti casi la pratica delle cose vale molto più della teoria, e tu rappresenti la pratica!”.
“Ma così non capisco!”, disse Felipe, che dentro di sé si sentiva felice di quelle attenzioni.
Margaret mise la punta dello stivale destro sotto il suo mento e gli sollevò la testa in modo che potesse guardarla negli occhi: “Ascolta con attenzione ciò che dico! Nella stanza a fianco della mia camera da letto, al piano di sopra, dentro l’armadio guardaroba c’è un paio di stivali neri in pelle, molto alti, con gli speroni dorati: procurati ciò che serve e datti da fare, li voglio lucidi e splendenti, come i miei occhi al chiarore lunare, stasera tardi voglio uscire in gran forma, intesi?!”.
“Certo, mia padrona”, disse Felipe baciando quello stivale che gli reggeva la testa, quindi, sempre restando in ginocchio, terminò di lucidarli sotto lo sguardo vigile di Margaret. Quando terminò sollevò la testa: “Soddisfatta, mia padrona?”.
“Certo, sì, va bene, adesso vai a fare quell’altra cosa che ti ho detto, e vedi di farla bene e con molta cura, sono stata chiara?!”, disse Margaret mentre Felipe lentamente si stava alzando.
Raccolto il necessario, Felipe, senza distogliere lo sguardo da Margaret, si rivolse ancora a lei: “Padrona, però io non ho ancora capito cos’è una ‘mistress’ e perché ha detto che io rappresento la pratica che vale più della teoria...”.
Margaret sorrise ancora maliziosa. “Non importa Felipe, non importa, vai pure...”, disse mentre lui era già quasi uscito da quella stanza, “l’importante è che abbia capito io e...”, continuò girando la testa di lato strizzando l’occhio, “... e chi adesso mi sta leggendo e ha avuto la pazienza di arrivare fino a qui... un bacio a Voi tutti!!! Smaccckkkk!!!!”.

* * * F I N E * * *

Nota: pur essendo certi fatti e luoghi di ambientazione in un contesto reale, anche dal punto di vista storico, si fa presente che i nomi dei personaggi e di alcuni luoghi/città e settori merceologici di aziende sono di pura fantasia. Ogni riferimento a fatti non storici realmente accaduti o persone reali od omonime è puramente casuale.
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