Gay & Bisex
RANKO (Bosnia, 1993) - Seconda parte:
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12.02.2025 |
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"Come mi era potuta venire in mente una mostruosità simile? E soprattutto con quale faccia avevo avuto la sfrontatezza di dirglielo?
«Sì, hai ragione –..."
Nessuno dei due disse niente; nella stanza si udivano soltanto i nostri ansimi.Dopo alcuni minuti, restando voltato, Alan chiese di poter usare il bagno della mia camera.
«Sì, certo – risposi prontamente – dopo puoi asciugarti col telo grande. È pulito, non l’ho ancora utilizzato».
Si alzò dal letto, poi si chinò su di me per baciarmi sulle labbra, con tenerezza; quindi disse: «È stato molto bello» e se ne andò in bagno a farsi una doccia veloce.
Rimasi disteso e ripensando al nostro incontro, realizzai che in definitiva, ero stato circuito da lui, quasi nello stesso modo che utilizzavo io per ingraziarmi i favori dei ragazzi che m’interessavano. Si era venuto a sedere vicino a me, soltanto perché mi aveva trovato attraente e voleva attaccare bottone. Avevo creduto che fosse stato per la mia perfetta conoscenza dell’inglese o per l’affidabilità e la competenza che avevo dimostrato di avere durante la nostra conversazione, che poi aveva deciso di destinare alla nostra organizzazione degli aiuti che probabilmente dovevano finire altrove; invece voleva solo far colpo su di me e carpire la mia benevolenza. Poi una volta saputo che avevamo anche gli stessi gusti sessuali, con una scusa ben architettata, ha trovato il modo di creare la situazione propizia per far accadere quello che è accaduto. Come dire? “Chi la fa, l’aspetti”, ma in fondo anche per me è stato molto bello.
Prima di salutarci, mi propose di andare a trovarlo all’Isola di Man, sarei stato suo ospite. Gli risposi che probabilmente l’avrei fatto, quindi ci demmo un ultimo passionale bacio, e se ne tornò in camera sua.
La mattina dopo la dedicai a fare un po’ di compere. Acquistai delle cose da regalare a Ranko e alla sua famiglia, così avrei avuto una scusa per andare a trovarlo nuovamente. Ebbi modo di partecipare a un altro briefing, in cui si disse che la pace fosse a un passo dall’essere firmata. Le diplomazie stavano tessendo un piano accettabile per tutte e tre le parti in lotta. Sulle linee, rimaste salde, c’era meno agitazione, solo ogni tanto c’erano delle piccole scaramucce tra le milizie in lotta, che però non mancavano di lasciare sul terreno qualche morto e dei feriti; recrudescenze di un nervosismo che aumentava e poi diminuiva, come la febbre di un corpo che fatica a guarire.
Nel pomeriggio mi recai al capannone dove stavano finendo di caricare i 12 camion del nostro convoglio; sui due che avevo portato in più, caricammo le merci provenienti dall’Isola di Man. Avrebbero finito entro sera; domani saremmo potuti partire di buon ora come previsto.
Ancora una volta rimasi sorpreso dalla capacità organizzativa di Ciki; dalla sua abilità nel dirigere quella pattuglia di camionisti di lunga esperienza ma poco cervello, e facchini, quasi tutti più grandi di lui, non avendo lui compiuto ancora 18 anni. C’è da dire che era molto facilitato dal suo aspetto fisico, che non sembrava affatto quello di un adolescente: era alto, robusto, massiccio; un ragazzone con un vocione capace di dare ordini con assoluta autorevolezza.
Tornato a Gracanica, venni a sapere della morte della nonna di Ranko, così il giorno dopo andai a far visita alla famiglia, per portare le mie condoglianze, oltre ai regali che avevo comprato a Spalato. Lui non c’era, stava in giro coi suoi amici. Mi trattenni giusto il tempo di un immancabile caffè, che volle prepararmi sua madre, poi mi congedai, dovendo passare al municipio per risolvere una questione burocratica. Fu proprio sulla piazza del municipio che incontrai Ranko, che infatti si trovava insieme a Savo, suo amico inseparabile, e al mio Ceki. Ci salutammo calorosamente. Mi ringraziò per quello che avevo fatto per la sua famiglia e mi abbracciò forte tenendomi stretto a lungo; io stavo per squagliarmi dal godimento per questo suo virile e affettuoso abbraccio.
Quando si staccò, notai che su una tasca del suo giubbino di jeans, c’era cucita una pezza con l’immagine di una foglia di marijuana colorata di rosso, giallo e verde e su un’altra tasca, una pezza con la faccia di Bob Marley. Il cantante giamaicano, la musica reggae, la ganja, Hailé Selassié (l’ultimo imperatore d’Etiopia), l’acconciatura rasta; tutti questi elementi popolavano l’immaginario di Ranko. Era quindi probabile che fosse in effetti un abituale fumatore di cannabis. Riguardo ciò, Ciki non s’era sbagliato, anzi, a giudicare dagli occhi arrossati di lui e del suo amico, mi sa che si erano appena fumata una canna. Ciki no, mi sa che l’avevano incontrato dopo, e poi a me non risultava che fosse un fumatore.
Se non altro voleva dire che avevo azzeccato a portargli in regalo una grossa scatola di tabacco e una stecca di sigarette, ma di questo non feci parola, per non far ingelosire ancor di più il mio collaboratore.
Mi dissero che stavano andando a casa sua e allora promisi che li avrei raggiunti là tra un po’.
A Spalato, ascoltando da una radio italiana una vecchia canzone di Gianni Morandi (evidentemente il segnale arrivava fin lì), mi venne in mente di realizzare un reportage video sulla vita, sia in trincea che in quella di tutti i giorni, dei giovani soldati bosniaci, con Ranko come testimone principale da me intervistato. L’avrei proposto al mio giornale in forma scritta, e a qualche televisione nella versione audio e video. Così avrei potuto avere anche una più assidua frequentazione col ragazzo.
Gliene parlai appena lo raggiunsi a casa di Ceki. Lo presi in disparte mentre gli altri due giocavano a scacchi.
«E io cosa dovrei fare?» chiese visibilmente imbarazzato?
«Devi solo fare te stesso – risposi – Raccontare la tua storia di ragazzo d’oggi, che suona in un gruppo rock e di come la sua vita cambia drasticamente quando scoppia questa dannata guerra. Viene mandato al fronte allo sbaraglio, costretto ad imbracciare un kalashnikov, senza la minima voglia di sparare. Spero solo che non capiti di dover riprendere scene di morti ammazzati, anche se alla fine, per dare verosimiglianza al tutto, queste saranno le uniche scene di finzione che inseriremo»
«Ma qui nessuno muore per finta!» commentò con tono severo.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Come mi era potuta venire in mente una mostruosità simile? E soprattutto con quale faccia avevo avuto la sfrontatezza di dirglielo?
«Sì, hai ragione – continuai cercando di rimediare – anche se in certi casi è una prassi, noi gireremo solo scene reali, autentiche. Tu che suoni nel locale coi tuoi amici, che col trattore ari un campo pieno di buche di granate, o vai a fare la legna, oppure che vai a pescare o a fare il bagno al lago coi tuoi amici». Già mi pregustavo l’occasione di vederlo tutto nudo almeno una volta.
«Così potremo far vedere che, nonostante la guerra, la vita continua» conclusi.
A questo punto annuì in segno d’approvazione: s’era convinto e volle dirlo subito agli altri due.
«Sapete? Il signor Mario vuole girare un documentario su di me, ma ci sarete anche voi quando andremo a suonare nei locali o a pescare e fare il bagno al lago di Modrac».
Allora Savo fece subito una battuta scherzosa sull’aspetto che avrebbero avuto i genitali di Ranko appena usciva dall’acqua fredda di quel lago, e tutti ridemmo.
«Però se vorrai filmare in prima linea, dovrai avere il permesso del mio comandante – continuò lui, rivolgendosi a me – ma credo che non ci sarà nessun problema».
Fu così infatti. Andai a parlarci a Srebrenika, qualche giorno dopo, con la jeep carica di vettovaglie per i suoi soldati, come Ranko mi aveva consigliato di fare.
Le riprese iniziarono pochi giorni dopo. Ranko e Sevo erano in licenza, perciò andammo con la mia jeep vicino alla linea del fronte, per fare un sopralluogo e filmare un po’ di paesaggio. Inutile dire che durante il tragitto i due si fumarono una canna e l’offrirono anche a me, ma io declinai l’offerta poiché avrebbe potuto influire negativamente sul mio modo di guidare.
Qualche giorno dopo Ranko mi disse che la notte gli toccava il turno in trincea, poteva essere l’occasione per filmare la prima linea e il bunker che lui presidiava assieme ad altri due commilitoni; magari raccogliere anche le loro testimonianze. Ottima idea. Andammo con la jeep a mia disposizione, che parcheggiai nascondendola dietro una casa diroccata non molto distante dal bunker. Era l’ora del tramonto. Feci qualche ripresa camminando. La natura ignorava la bruttezza della guerra; s’era messa in abito da gala. Era tutta una festa di colori nel cielo. Verso occidente, dove il sole era lì lì per tramontare, risplendeva il globo infuocato, striato da nuvolette viola. Regnava una pace totale. Era impossibile credere di essere sulla linea del fronte; nessuno sparo, nessuna esplosione. Pareva una serata qualsiasi, in un qualsiasi paese in pace, e io ero lì lieto, a passeggiare con un caro amico. Attraversammo un campo di granturco e poi una piccola boscaglia di arbusti non molto alti. Arrivammo sul crinale su cui era scavata la trincea e m’indicò il bunker che dovevamo raggiungere. Entrati lì sotto, appena Ranko disse ai soldati che avevano finito il turno, stremati dalla tensione e dalla stanchezza, che non c’era bisogno che aspettassero l’arrivo degli altri due del cambio, quelli si defilarono immediatamente.
Però dopo un po’ arrivò invece un sergente ad informare che non sarebbe venuto più nessuno, perché quella sera erano diversi quelli che non si erano presentati al cambio della guardia e in alcuni casi, i soldati avrebbero dovuto raddoppiare il turno; fortuna che quella sera c’era una certa calma.
A quel punto mi offrii di restare io a fare compagnia a Ranko, il quale mi presentò e spiegò brevemente chi fossi. Non sembrò sorpreso, evidentemente era già stato informato dal comandante. Il sergente fu d’accordo, se non altro perché mentre uno riposava, c’era l’altro che restava sveglio, disse indicando la branda. Se ne andò dicendo che sarebbe tornato l’indomani per portare la colazione.
Intanto si stava facendo notte e così Ranko accese un lume per fare un po’ di luce all’interno del Bunker. Per prima cosa tirò fuori dalle tasche un pezzettino di hashish, le cartine e una bustina di tabacco e rollò una canna. L’accese e mentre fumava, prese a farmi una serie di domande a proposito delle ragazze o delle donne che lavoravano con me o che conoscevo a Gracanica: voleva sapere se avevo una relazione con qualcuna di esse. Sicuramente era venuto a conoscenza delle voci che giravano sul mio conto riguardo la mia omosessualità e stava cercando di capire se fossero fondate.
«Non c’è nessuna neanche in Italia?» chiese ancora.
«Direi di no, ho divorziato da mia moglie da diversi anni. Mi sono sposato molto giovane, abbiamo avuto anche un figlio, ora ha sette anni. Il mio è stato un errore di gioventù».
Benché fosse vero, volli dirglielo soprattutto per tenerlo nell’incertezza. Che diritto aveva d’indagare sulle mie preferenze sessuali? Forse io glielo avevo chiesto, quali fossero le sue?
«Capisco» concluse lui passandomi il joint, per andare a prendere qualcosa in una nicchia; un oggetto che mi mostrò con un’espressione divertita. Era una figura intagliata nel legno somigliante a una donna nuda, abbozzata alla buona in una posa oscena: gambe divaricate e il sesso esageratamente largo, tutto bruciato e annerito. Era una rudimentale pipa ricavata da una radice d’albero.
Finsi di apprezzare dicendo: «Accidenti che fantasia! Ti sei ispirato ai giornalini porno?» chiesi scherzosamente indicando una rivista mezzo strappata, poggiata sulla branda.
Non rispose e invece tirò fuori dalla borsa che si era portato dietro un altro oggetto sempre di legno. Era un cilum a forma di piccolo e grazioso fallo, con i testicoli dalla parte in cui si carica l’erba e il glande dalla parte da cui si aspira. Me lo mostrò dicendo: «A Savo piace fumare con questo – poi sorridendo maliziosamente aggiunse – Ah, per farlo mi sono ispirato al mio» e scoppiò a ridere di gusto.
«Ce l’hai così piccolo?» ribattei per tener testa alla sua ironia, e così cominciai a ridere anch’io. Lui invece smise di ridere e con un tono un po’ seccato rispose: «Ma no, mi ha fatto da modello, è in scala ridotta, il mio è almeno due volte più grande».
Portò gli oggetti vicino alla luce del lume perché li vedessi meglio.
«Scelga quello che le piace di più, glielo regalo. Allora quale preferisce? Il cazzo o la fica?» aggiunse, e ripartì con la sua fragorosa risata.
Rimasi senza parole per alcuni secondi; non potevo capacitarmi che mi avesse potuto fare una domanda così esplicita. La confidenza che era nata tra noi, non era tale da consentirgli di parlarmi così liberamente, così sfrontatamente, di questioni così intime e personali. Ma perché quella domanda? Forse per costringermi a uscire allo scoperto e sapere, dalla mia bocca, se fossi veramente omosessuale?
Attese la mia risposta, credendo che stessi pensando a cosa scegliere; quindi decisi di stare al gioco, che ormai sembrava una partita a poker con continui rilanci, e dissi: «Questo!».
Così presi in mano il piccolo fallo per portarmelo alla bocca e vedere se tirava.
«Tranquillo signor Mario, funziona. È un cazzo musulmano».
Sul momento credetti di aver capito male, ma dall’espressione che galleggiava sul suo volto, dal suo sguardo da monello, capii che invece avevo capito benissimo.
Dopo una simile allusione mi sembrò che fosse arrivato il momento di giocare a carte scoperte. Gli ripassai la canna, ma già sentivo che le boccate date, avevano fatto saltare i miei freni inibitori. Non ero più abituato alla marijuana. Però sapevo che può essere spiacevole avere a che fare con uno che ha fumato se non se ne condivide lo sballo.
Oramai non m’importava più di niente, l’unica cosa che mi premeva era stare lì, insieme a quel ragazzo, essere da lui considerato, accettato e forse… forse, fra un po’ anche abbracciato, baciato. Dentro al bunker c’era un caldo umido, soffocante. Ranko si tolse il giubbotto e rimase con la maglietta a maniche corte. Sotto la maglietta di cotone bianca s’intravedevano i pettorali, armoniosi, statuari. Che fisico! Lo interpretai come un inequivocabile invito, così mi avvicinai e lo abbracciai da dietro, posandogli una mano sul pacco. Lo colsi di sorpresa, non se l’aspettava. Girò la testa e sulla sua faccia aveva un’espressione mista di stupore e fastidio per il mio gesto, ma non si tolse, non mi respinse, quindi il suo sguardo diventò di curiosità e sfida, ma poi gentilmente scostò la mano con cui lo stavo palpando; ma intanto s’era già eccitato.
«Lasci stare per favore, non si offenda. Capisco che a lei piace fare queste cose con gli uomini, ma a me non va; sono cose si fanno quando si è ragazzini» disse ridendo debolmente nello scostarsi.
«Anch’io da monello, qualche volta le ho fatte queste stupidate – continuò – credo che quasi tutti i ragazzi le facciano prima o poi, almeno una volta, per curiosità o goliardia, in compagnia della cricca, quando si scopre il sesso. Non mi vergogno a dirlo, quando venivo qui in vacanza, le facevo con Savo, avremmo voluto farlo con le femminucce, ma siccome a quell’età ancora non giocavano coi maschietti, le facevamo tra di noi, nascosti in mezzo alle pannocchie, dentro la stalla, sotto i salici in riva al torrente, ovunque ci si trovava. Ci masturbavamo guardando le foto di donne nude di certi giornalini che stampavano in Austria, tipo quello lì mezzo stracciato… e poi si rideva, ma a volte era più per mascherare la vergogna. Però allora avevo dodici o tredici anni, ora sono un uomo e mi piacciono solo le donne. Mi dispiace per lei, che magari sperava in qualcosa, ma non posso accontentarla. Davvero!» Per risposta tornai ad abbracciarlo dicendo: «Sei bellissimo, lascia che ti accarezzi un po’, solo un po’ dai, per favore…»
«Non capisce? Mi sta infastidendo! Se non mi va, non mi va».
Quella sua durezza e severità mi sconvolgeva, ma allo stesso tempo mi eccitava di più.
«Ranko, per favore, fammi contento, e dai…»
«Le porto un gran rispetto, queste cose no, proprio no, assolutamente, impossibile!»
«Solo un po’, lasciami vedere lì sotto come sei fatto...»
Ero completamente infoiato, avevo perso ogni riguardo, ogni pudore.
«Lei è una persona intelligente e buona, non merita di umiliarsi in questo modo».
Invece sentivo che se avessi insistito, quasi certamente avrei potuto varcare la sua linea di difesa e l’avrei avuto.
Non sapeva come fare per liberarsi di me. Non volendo essere brusco o violento, provò ad offrirmi un diversivo: prese quella rivista porno e me la porse ammiccando.
Beh, quello che mi stava proponendo sì, che era umiliante, avvilente, assurdo, ridicolo.
No, non avevo bisogno di uno sfogo fisico. Ciò che desideravo era ben altro: era lui, il suo corpo caldo e sudato. Inebriarmi del suo odore.
«Dai, so che ti va di farlo, ti è diventato duro» insistetti.
«La finisca, non mi costringa ad uscire fuori, ha già superato ogni limite» disse senza troppa convinzione. Infatti si sedette sulla branda e stiracchiandosi e divaricando le gambe, assunse una posa languida e sensuale, che io interpretai come un segnale di resa o una sorta d’invito al banchetto. Mi avvicinai e la mia mano ritornò là, dove cominciai a frugare.
Finalmente mi lasciò fare. M’inginocchiai tra le sue gambe, gli sbottonai la patta dei pantaloni e lui non mi fermò, anzi, si slacciò da sé la cintura, consentendomi di aprirli per infilare dentro i suoi slip la mia mano e liberare il suo bastone, già durissimo. Aveva ragione: il suo cazzo era due volte più grande rispetto al cilum!
Non esitai un attimo a cacciarmelo in gola e a succhiarlo con gusto; inalando con piacere l’afrore che emanava il suo pube. Dopo qualche minuto lo sentii irrigidirsi, mentre diceva “Vengo”. Fui lesto a staccare la mia bocca per ricevere in faccia quell’ondata di sperma che m’impiastricciò tutto il viso ed entrò in parte anche nella bocca rimasta aperta.
Mi piaceva farmi sborrare in faccia, anche se mi faceva sentire umiliato. Era proprio questo che volevo; come se fosse la giusta pena da scontare per quel mio perverso desiderio di maschio.
«Bene! Ha avuto quanto desiderava, posso alzarmi adesso? vorrei pulirmi» disse togliendosi da lì; mentre ancora sconvolto dal doloroso piacere provato nel sentirmi irrorato da un fiume di sperma, anch’io cercavo di ricompormi.
Però nella sua voce c’era delusione, fastidio, tristezza. Dopo un po’ si accese una sigaretta e andò verso l’entrata del bunker per fumare. Io mi distesi sulla branda e mi addormentai.
Fui risvegliato nel cuore della notte, perché mi chiese di fargli posto nel lettino e in breve s’addormentò. Restammo abbracciati tutta la notte. Quando ci svegliammo, aveva iniziato ad albeggiare e lui disse: «È un po’ presto, ma in attesa che il sergente ci porti il resto della colazione, vado a vedere se mi danno un po’ di caffè alla cucina da campo qua vicino». Pochi attimi dopo ch’era uscito, ci fu un’esplosione fortissima che squassò tutto il bunker e mi lasciò stordito non so per quanto. Quando mi ripresi, avevo davanti a me il sergente che mi chiese subito: «Come sta?»
«Bene, credo. Ma Ranko dov’è?»
«È caduta una granata qua vicino… stavolta è toccato a lui».
FINE
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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