Gay & Bisex
RANKO (Bosnia, 1993) - Prima parte
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12.02.2025 |
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"All’inizio avevo pensato che cercasse di farsi un’idea, della persona a cui stava affidando una consistente quantità di beni e denaro, ma adesso, nella..."
Mi fermai per una questione di pochi minuti all’ospedale di guerra di Donja Medida; dovevo ritirare delle bombole di Oxidon vuote, che andavano ricaricate col prossimo viaggio a Spalato. Nel piazzale di fronte all’ingresso dove parcheggiai la jeep, la solita ressa di parenti in visita ai feriti ricoverati, mescolati a coloro in attesa di medicamenti o visite di controllo. Una piccola folla già dal mattino.Mentre aspettavo l’incaricato per la consegna, seduto a fianco di una vecchia su di una panca, nell’angusta, affollatissima e mal illuminata sala d’aspetto, si fece largo un ragazzo di quelli che rubano lo sguardo e ti lasciano a bocca aperta per la meraviglia. Aveva occhi chiari; indossava una giacca a vento turchese, e sotto la divisa da soldato, ma non era ferito.
Venne a sedersi accanto all’anziana donna e volgendo lo sguardo dalla loro parte, mi capitò d’incrociare gli occhi di lui. Erano dello stesso colore di quelli di lei, di un celeste marino, sereni, trapelavano luce e voglia di vivere. Probabilmente erano parenti; anche nei tratti del viso si assomigliavano. Dopo gli occhi, andai a guardargli i calzoni all’altezza del pube, quel rigonfiamento mi fece subito desiderare di voler conoscere il ragazzo. Tuttavia non ebbi il tempo di attaccare discorso, perché dopo pochi secondi arrivò la persona che aspettavo, che mi condusse al magazzino; dopo aver caricato le bombole vuote, andai via subito. Durante il tragitto però, non facevo che ripensare a quel ragazzo. Mi rammaricavo di non essere rimasto là; di non aver cercato di fare la sua conoscenza.
Non sapevo darmi una spiegazione. Forse era per paura, per un senso d’inadeguatezza. Era davvero troppo bello per me. Da dove saltava fuori un tipo con i capelli conciati in quella maniera? Aveva i dreadlocks, pur essendo un militare, e calzava delle scarpe da ginnastica sfondate da fare pena. Chi poteva essere?
Pochi giorni dopo, in una tarda mattina d’inizio marzo, spruzzata da raffiche di pioggia, quello stesso ragazzo si presentò al nostro magazzino a Gracanica.
Io collaboravo come volontario con un’organizzazione che distribuiva aiuti umanitari ai civili della Bosnia martoriata dalla guerra degli anni ’90; ero il responsabile del centro di raccolta e smistamento. Mi trovavo nella ex-Jugoslavia come inviato di guerra per il mio giornale, ma quando intervistai un importante direttore di una ONG che operava in Bosnia, questi alla fine mi propose di collaborare con loro e così mi trovai a svolgere questa attività umanitaria, parallelamente a quella di giornalista.
Quando entrai nell’ufficio di Jasna, la nostra segretaria, lo riconobbi all’istante. Era in piedi davanti alla sua scrivania, il volto illuminato da uno spiraglio di luce proveniente dalla porta del mio ufficio rimasta aperta. Alto, ben fatto, abbronzato, senza divisa, un giubbotto alla James Dean e jeans aderenti, allacciati da una splendida cintura di cuoio; ai piedi le stesse scarpe da ginnastica che aveva quella mattina. In abiti civili era ancora più bello di come m’era sembrato in quella sala d’aspetto dell’ospedale.
Voleva far presente alla nostra organizzazione, l’ingiustizia di cui era vittima la sua famiglia nell’assegnazione degli aiuti che distribuivamo alla popolazione: «Ho saputo che voi date ogni mese un pacco alle famiglie dei profughi, vero? E allora perché, se anche noi siamo profughi, da tre mesi non riceviamo un bel niente? È giusto questo? Sarà perché, come dicono i responsabili del comune, veniamo da un altro villaggio? Perché a Donja Medida, nella casa dove stavamo prima, ci pioveva dentro, invece qua, anche se non abbiamo abbastanza legna con cui scaldarci, almeno siamo all’asciutto».
Solo pochi minuti prima stavo pensando proprio a lui. Da non crederci.
Ciki, un mio aiutante, mettendo ordine nel nostro deposito, aveva trovato un paio di scarponi numero 44, era l’ultimo paio rimasto e mi aveva appena chiesto se poteva metterli sulla mia jeep, per distribuirli. Così mi era venuto in mente proprio quel ragazzo. Incredibile coincidenza. Quando mi vide, mi diede una rapida e timida occhiata ma non mi riconobbe, però mi salutò annuendo e salutò anche Ciki, sorridendogli e chiamandolo per nome.
“Ecco l’occasione per parlargli” pensai. M’intromisi e chiesi a Jasna di prendere nota di tutti i dati suoi, della sua famiglia e dove abitavano; mi sarei occupato io di questa faccenda; poi rivolto a lui aggiunsi: «Tu aspetta qui che torno subito. Vado a prepararti un pacco da portar via adesso». Ci misi le cose che davamo a tutti, poi aggiunsi un chilo di caffè, tre pezzi di cioccolata, una mezza scatola di tabacco e naturalmente quell’ultimo paio di scarponi rimasti in magazzino.
Dandogli il pacco, dissi che noi due c’eravamo già incontrati, l’avevo riconosciuto per via dei capelli. Non dicevano niente al comando che portava i capelli in quel modo?
«No, non dicono niente. Ma dov’è che ci siamo visti già?» chiese incuriosito il ragazzo, che nel presentarsi, dandomi la mano, disse di chiamarsi Ranko.
«All’ospedale di Donja Medida, circa una settimana, dieci giorni fa. Eri con una donna anziana, tua nonna forse, ci siamo solo guardati a dire il vero. E come mai eravate all’ospedale? Avete qualcuno della vostra famiglia ricoverato lì?»
No, nessun parente ricoverato; confermò che la vecchia era proprio sua nonna, era lei che stava male. L’aveva accompagnata per passare una visita, ma non ricordava d’avermi visto.
«Ascolta, parlerò con il funzionario addetto, e poi vengo a casa tua e ti riferisco tutto» dissi, col cuore che già mi batteva forte.
Quando si fu allontanato, chiesi a Ciki, che evidentemente conosceva quel bel soldato, di dirmi qualcosa di lui. Questi, portandosi alla bocca i due palmi delle mani a forma di conchiglia, fece finta di aspirare, come chi fuma la canapa indiana o l’hashish.
«Un cannaiolo? E tu come fai a saperlo?»
«Hai visto com’è conciato? – replicò Ciki sicuro del fatto suo – conosco chi frequenta. Poi sono certo che il contenuto del pacco se lo rivenderà per comprarsi la roba».
Non dissi altro, anche perché mi parve di notare una nota di gelosia nelle affermazioni del mio aiutante. Probabilmente aveva capito che nutrivo per Ranko un interesse particolare.
Avevo una grande considerazione per Ciki; era un ragazzo molto in gamba, dotato di grande intelligenza e senso pratico, geniale a volte; c’era anche una certa confidenza tra noi. Aveva pure capito che provavo attrazione per i ragazzi, ma pareva che la cosa lo lasciasse del tutto indifferente. Da parte mia nutrivo nei suoi confronti un sentimento paterno, perciò non ci fu mai niente che andasse al di là di una affettuosa amicizia.
Dopo aver parlato con l’incaricato del comune, ed essermi assicurato che anche la famiglia di Ranko ora figurava tra quelle che avevano diritto al pacco mensile di viveri, andai da lui per comunicarglielo.
Bussai alla porta e venne ad aprirmi una signora sulla cinquantina ma ancora piacente: sua madre Feda. Ranko non era in casa; stava al fronte, in trincea, e lei non sapeva quando sarebbe tornato. Appena spiegai chi fossi e il motivo della mia visita, il suo volto s’illuminò, cacciò una specie di urlo e mi gettò le braccia al collo, stringendomi forte, come se fossi uno dei suoi parenti più stretti. Stavo per andarmene, quando insistette affinché entrassi in casa. Mi avrebbe preparato un bel caffè e presentato agli altri membri della famiglia di Ranko: la nonna, sua sorella e un suo fratello più piccolo. Il padre era morto l’anno prima, combattendo al fronte.
Insieme al caffè mi diede anche un pezzo di cioccolata, che però cedetti al ragazzino.
Evidentemente Ciki si era sbagliato sulla fine che avrebbe fatto il pacco che avevo preparato per Ranko.
Alcuni giorni dopo, dovetti recarmi a Spalato con un convoglio di camion, per caricare un grosso quantitativo di aiuti destinati all’organizzazione con cui collaboravo.
La città era un colossale centro di raccolta e redistribuzione della gran parte dei flussi di aiuti e denaro a favore della Bosnia. Però, oltre agli aiuti portati dalle varie organizzazioni umanitarie governative e non, a Spalato confluivano anche donazioni di benefattori privati, tra cui gruppi bancari o industriali; oppure il risultato delle raccolte promosse da varie amministrazioni statali o comunali. Infatti io cercavo di portarmi dietro sempre qualche camion in più del necessario e quasi mai erano tornati indietro vuoti.
Sarei rimasto nella cittadina croata per un paio di giorni; così mentre venivano caricati i camion io potevo andare ai vari briefing dove in sostanza si cercava di coordinare la domanda e l’offerta di aiuti, a cui partecipavano i responsabili incaricati e accreditati dei vari enti o agenzie.
A uno di questi incontri, conobbi casualmente Alan Bell, un funzionario del governo dell’Isola di Man.
Venne a sedersi accanto a me, un po’ spaesato, forse anche annoiato e stanco. Scambiammo qualche frase di cortesia e poi entrammo nel merito del nostro rispettivo lavoro e ruolo. Seppi così che cercava un’organizzazione umanitaria a cui affidare una considerevole somma di denaro e degli aiuti umanitari arrivati con un TIR al suo seguito. L’amico ci tenne a farmi sapere che la sua isola era ai primi posti tra le nazioni che vantano il più alto reddito nazionale lordo pro capite; che ovviamente non vuol dire che tutti i suoi pochi abitanti sono ricchi sfondati, ma significa che sull’isola hanno sede soggetti economici tali, da far sì che in quel piccolo protettorato della corona britannica, si concentri una imponente quantità di ricchezza.
Evidentemente gli feci un’impressione positiva se, così su due piedi, dopo un breve colloquio, e aver sentito il nome dell’organizzazione che rappresentavo, decise di affidarci sia il denaro, sia i beni stipati nel TIR. Era però fondamentale e imprescindibile una completa, dettagliata e documentata rendicontazione di tutte le spese sostenute e della distribuzione effettuata. Promisi che l’avrei fatto io personalmente.
Dopo aver raggiunto telefonicamente Ciki, per dargli le necessarie indicazioni affinché si provvedesse a scaricare il TIR dell’Isola di Man, ritenni che, vista l’ora, si poteva andare a pranzare insieme.
Optammo per il ristorante interno dell’Hotel in cui scoprimmo di alloggiare entrambi, che era anche lo stesso che disponeva della grande sala in cui si svolgevano i briefing.
Già da prima avevo notato qualcosa di peculiare o d’insolito in quel bell’uomo sulla quarantina. Mi aveva colpito il suo modo elegante di vestire; il suo accento che denotava la provenienza da un ambiente altolocato o comunque raffinato; soprattutto mi aveva colpito il suo continuo fissarmi negli occhi, oppure il suo squadrarmi continuamente da capo a piedi. All’inizio avevo pensato che cercasse di farsi un’idea, della persona a cui stava affidando una consistente quantità di beni e denaro, ma adesso, nella situazione conviviale e rilassata del pranzo si fece strada nella mia mente un’altra ipotesi: per caso anche lui era gay?
Dovevo trovare assolutamente il modo di portare la conversazione su questo argomento. Non fu così difficile. A un certo punto dissi: «Sai Alan? Ci sono due cose per le quali ho sentito parlare del tuo paese in precedenza…»
«Ah sì? E quali? » m’interruppe lui, incuriosito.
«La prima risale agli anni sessanta, se ne parlò in tutto il mondo, fu un momento di svolta per la musica pop di allora, quando dalla nave che stazionava nelle vostre acque territoriali trasmetteva… “Radio Caroline”» concludemmo all’unisono.
«Non immagini quanto mi fa piacere che tu me l’abbia ricordata – continuò lui euforico – all’epoca ero un adolescente: alla BBC la musica che amavamo noi giovani veniva trasmessa solo un’ora alla settimana, per il resto solo lagne. Non mi sembrò vero che finalmente ci fosse una radio che lo faceva ogni giorno, tutto il giorno. In quel periodo non avevo molti amici, non legavo granché coi miei coetanei; era la radio la mia migliore amica. Ma come fai a sapere di Radio Caroline? Si poteva ascoltare anche in Italia?»
«No – risposi – però io ho iniziato il percorso che mi ha portato a diventare un giornalista, proprio nella redazione di una delle tante radio libere nate in Italia nella seconda metà degli anni ’70, ispirate dall’esempio di Radio Caroline; infatti all’inizio venivano chiamate radio pirata»
«Ah certo, capisco… e qual è la seconda cosa che sai del mio paese?»
«Beh, quest’altra è molto più recente. Credo che risalga a uno o due anni fa: quando finalmente anche voi vi siete decisi ad abolire il reato di omosessualità. Così se dovessi venire a visitare l’Isola di Man, non rischierò di essere messo in prigione»
A questo punto Alan, visibilmente sorpreso dalla mia affermazione così intimamente personale, si fece scuro in volto, ma anche lui decise di aprirsi: «Ah sì, ecco… è stato un anno fa, e ripensare a questa cosa invece mi rattrista molto; perché mi ricorda il terrore di essere incriminato che ho avuto in tutta la mia vita, per il solo fatto di voler essere quello che sentivo di essere»
«Oh scusami, non immaginavo…» aggiunsi, mentendo spudoratamente.
«Ma no, non devi scusarti. In realtà quando è successo questo, sono stato felicissimo, spero che d’ora in poi potrò vivere più serenamente»
«Certo, sarà così, vedrai… ma ora credo sia il momento di pensare di nuovo al nostro lavoro. Immagino ci siano delle carte che devo firmare»
«Naturalmente. Le ho qui nella mia borsa, possiamo metterci in un angolino tranquillo della hall dell’albergo e procedere». E così facemmo. Alla fine ci salutammo cordialmente con l’intenzione di risentirci più avanti.
Però non immaginavo che quel “più avanti” sarebbe stato la sera stessa.
Saranno state le dieci circa; mi ero appena fatto la doccia; stavo disteso sul letto a guardare un po’ di televisione, quando squillò il telefono sul comodino: era il portiere dell’albergo che mi chiedeva se poteva passarmi la chiamata di Mister Alan Bell.
«Certamente!» risposi.
«Perdonami Mario, se ti disturbo – attaccò lui – ma domani dovrò partire molto presto e mi sono accorto che ho dimenticato di consegnarti un paio di protocolli, che spiegano dettagliatamente come dev’esser fatta la rendicontazione, te li posso portare in camera se vuoi, oppure possiamo vederci nella hall».
Rimasi a pensarci per qualche secondo; questa cosa aveva tutta l’aria di essere una scusa; avrebbe potuto inviarmeli via fax, ma decisi di assecondarlo: «Preferirei che me li portassi in camera, ho appena fatto la doccia e stavo per andare a letto»
«Sì, tranquillo, sarà questione di pochi minuti, te li porto io… qual è il numero della tua camera?»
«409. È al quarto piano»
«Benissimo, tra poco sono da te».
Infatti dopo pochi minuti bussò alla porta. Indossavo soltanto l’accappatoio e sotto ero completamente nudo.
«Posso entrare?» chiese, e mostrando i fogli che aveva in mano, aggiunse: «Vorrei che tu li leggessi in mia presenza, così se c’è qualcosa che non ti è chiaro, posso spiegartelo»
«Oh sì, certo. Scusami se ti accolgo in questo stato…»
«Ma no, nessun problema».
Presi i fogli e andai a sedermi alla piccola scrivania che c’era in camera; lui si accomodò su uno sgabello lì a fianco.
Iniziai a leggere, e dopo alcuni miei movimenti apparentemente casuali, feci in modo che la cintura dell’accappatoio, si slacciasse, esponendo in bella vista le mie pudenda e fingendo di non essermene reso conto, concentrato com’ero nella lettura dei documenti. Un paio di volte mi rivolsi a lui all’improvviso, con la scusa di non aver ben capito alcuni termini; in tutti e due i casi lo sorpresi con lo sguardo rivolto al mio basso ventre. Finito di leggere, mi alzai in piedi, e senza preoccuparmi di riallacciare l’accappatoio mi misi davanti a lui e dissi: «Bene, è tutto chiaro, ora possiamo procedere…» dopodiché, anch’io mi guardai in basso: un esplicito invito che Alan colse al volo.
Allungò una mano e cominciò a tastarmi i testicoli e il pisello, che reagì prontamente.
Restando seduto, dopo un po’ si chinò per prendermelo in bocca e capii subito che avevo fatto bene a stare al suo gioco: ci sapeva fare. Se l’avessi lasciato continuare sarei venuto in pochi secondi, così dissi: «Perché non ti spogli? Dai, mettiamoci comodi sopra al letto».
Si spogliò velocemente e quando si tolse i boxer elasticizzati, rivelò una cospicua dotazione, peraltro già in tiro.
Ci siamo baciati, leccati, succhiati, stretti, strusciati, accarezzati dappertutto; per un bel po’, con grande passione. A un certo punto Alan si è voltato di schiena, così gli ho passato le mie dita tra le chiappe per stimolargli il buco dell’ano, e saggiarne la disponibilità a lasciarsi penetrare. Con mia grande sorpresa notai che era già “pronto”: l’aveva già lubrificato!
Non so perché, ma questa cosa mi fece eccitare ancor di più, allora senza esitare lo penetrai, restando distesi sui fianchi. I suoi “yes”, “yeah”, “fuck me”, “fuck me hard”, mi incitavano a mettercela tutta. Quando stetti sul punto di eiaculare, gli presi il cazzo e glielo masturbai, finché lo sentii dire “Oh my God”, mentre il suo seme mi bagnava le dita.
Dopo pochi secondi venni anch’io, ma uscii da lui e gli schizzai il mio sperma sulla schiena.; poi mi sdraiai supino, stremato. Nessuno di noi due disse niente; nella stanza si udivano soltanto i nostri ansimi.
CONTINUA... (la seconda parte è già disponibile sul mio profilo)
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