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Gay & Bisex

Il prete di campagna - 1


di LuogoCaldo
30.11.2024    |    7.012    |    18 8.3
"Mi stavo preparando per la messa e, indossata la tunica talare, mi ero sfilato le mutande come facevo ormai di consueto prima di ogni celebrazione..."
Quando decisi di prendere i voti ero ancora molto giovane.
Ambizioso, appassionato di teologia, studente indefesso dei misteri della fede sognavo per me una carriera da alto prelato.
L’arcangelo terreno del Signore onnipotente.
Scoprii presto però che le gerarchie della casa di Dio non sono così dissimili da quelle dei palazzi dei suoi figli e che la mia brillante favella, la mia forza di volontà e la resilienza delle mie aspirazioni avrebbero potuto essere frustrate quante volte avrei trovato il coraggio di insistere.
Fu così che all’età di trentasei anni mi lasciai alle spalle le ambizioni cardinalizie per accontentarmi di una collocazione pastorale in un assolato paesino di campagna.
Il seme dell’insoddisfazione avvelena però anche l’animo più incorruttibile e una smania di calore si fece strada nel mio petto con l’incedere strisciante delle serpi: si palesò alla stregua di un pensiero impuro per poi prosperare e radicarsi prepotentemente come fanno le ossessioni.
Prima di intraprendere il cammino avevo avuto le mie esperienze, eppure rinunciare al sesso non aveva rappresentato una grande difficoltà.
A volte, al mattino, sotto al piumone, quando ancora non indossavo l’abito talare ed ero semplicemente Francesco, mi stupivo della violenza delle mie erezioni, agguantavo il grosso tronco che avevo tra le cosce sotto al tessuto sottile delle mutande e contraevo e rilassavo il palmo della mano.
Ripensavo a quando, in campeggio sul lago di Gambulaga, nella magica notte del mio quindicesimo compleanno, la seconda moglie di mio padre m’aveva sorpreso nudo sul giaciglio della tenda, con l’uccello eretto e gli occhi riversi al soffitto per l’intensità del piacere.
“Ero passata a darti la buona notte …”. Aveva detto con un filo di voce.
Ero sconvolto dal desiderio.
Senza interrompere la mia attività l’avevo guardata allontanarsi, esitare sotto la pioggia e, infine, tornare indietro.
Molto più tardi capii che in quella manciata di secondi il diavolo in persona doveva essersela presa.
Era montata cavalcioni sul mio bacino, si era sollevata la camicia da notte e aveva piantato saldamente il mio sesso dentro al suo.
I sospiri avevano lentamente sovrastato il rumore del temporale.
“Sei una grandissima troia”. Avevo mugolato senza riuscire a trattenermi.
“Si”. Aveva sussurrato gemendo e continuando ad impalarsi sul mio obelisco. “Tuo padre non ce l’ha così grosso … dammelo tutto, aaah… aaaah”.
E aveva incominciato a scoparmi con frenesia, liberandosi i seni e lasciando che glie li ghermissi fino a provocarle i lividi.
“Avanti porco scaricati, innaffiami la figa … Ah …Ah … Maiale …. Ahhhh ”
“Cagna”. Avevo urlato serrandole le mammelle come se fossero grappoli d’uva da spremere. “Sei proprio una cagna”.
Una furia sconosciuta aveva preso possesso di me e senza accorgermene avevo iniziato a schiaffeggiarla con forza.
“Si … Siiiii. Continua ti prego … Continua …. Sei una bestia cazzo … Una bestia … Aaaah …. Aaaaaah …. ”.
E mentre la sfondavo sollevando i lombi sulle cosce taurine un liquido copioso le era colato dalla figa e m’aveva inondato il bacino prima che il mio sesso esplodesse dentro di lei in un orgasmo che ci aveva lasciati inermi.

Nella mia nuova collocazione, il desiderio non si rivolse subito nella direzione di un oggetto definito.
Si manifestò in sordina e quando eruppe non riuscii più a contenerlo.
Inizialmente mi limitavo a celebrare messa con il sesso libero sotto l’abito talare.
Mi appagava sentire il peso delle palle che cadevano penzoloni mentre posavo l’ostia sulla lingua dei fedeli.
In solitudine, la notte, immaginavo che uno di loro sollevasse la tunica e, con la bocca, cominciasse a lavorarmi l’asta, come se fosse il totem di una divinità.
Fu durante una di queste comunioni peccaminose che, per la prima volta, le mia libidine si incanalò verso una precisa direzione.
Levato lo sguardo dal volto rugoso di una assidua frequentatrice di messa vidi un giovane biondo, con gli occhi verdi come l’erba in primavera.
Non avrà avuto più di sedici anni.
La sua pelle era bruna e turgida come se fosse stata impregnata di rugiada.
Le labbra gonfie come frutti maturi.
Ebbi l’impulso di appoggiargli la mano sulla testa e di piegarlo al mio cospetto.
Avrei voluto ficcargli la trave in gola davanti a tutta la folla.
Me lo immaginai nudo dall’ombelico in giù come un fauno mitologico, incitato a succhiarmi il cazzo da tutti i presenti come se fosse lo scettro di un semidio pagano.
La mano iniziò a tremarmi mentre s’avvicinava alla sua bocca e quando fui per entrare dentro di lui l’ostia mi scivolò dalle dita.
Il ragazzo piantò i suoi occhi di smeraldo dentro ai miei, si inginocchiò lentamente per recuperare la comunione e nel farlo strusciò il viso contro il sesso attraverso la stoffa della tunica.
Il rigore dell’ uccello lo fece sussultare e, nel risalire, il piccolo porco replicò l’avvicinamento.
Lo guardai inorridito.
Doveva essere il diavolo in persona.
Aveva indovinato il mio segreto e mi fissava con una lascivia che non poteva essere quella di un essere umano.
“Ti sei confessato prima di venire figliolo?”. Fu l’unica domanda che riuscii a proferire.
Lui mi guardò spaventato.
“Ehm … veramente no”. Rispose.
“Allora questa non posso dartela”. Conclusi asciutto. “Rendimela!”. Ordinai strappandogli l’ostia dalle mani. “E ora torna a sederti e prega per i tuoi peccati”.
Da quel momento, però, giocare solo con me stesso non mi bastò più.
Rivedevo il fauno in ogni ragazzo che varcava la soglia della chiesa e il ricordo delle sue labbra mi dava il tormento.
La notte un fuoco maledetto mi si accendeva tra le gambe e quelle che fino ad allora erano state ore di preghiera si trasformavano in sessioni di piacere col fantasma del piccolo avventore.
Presto l’immaginazione non fu più sufficiente.
Cominciai ad allestire confessionali … atipici.
Smisi di ricevere i ragazzi nel gabbiotto e presi ad invitarli direttamente in sagrestia.
Chiudevo la porta a chiave, mi sedevo a gambe aperte sulla panca votiva e li facevo accomodare in ginocchio dinanzi a me, direttamente tra le mie cosce.
“Raccontami i tuoi peccati figliolo”. Esordivo.
E lasciavo che il fiato licenzioso di quelle creature mi riscaldasse l’inguine.
Mi capitò di perdere quasi il senno per le esperienze che mi raccontavano, ma fu durante la notte di Natale del mio primo anno d’incarico che le cose precipitarno.

Fuori della finestra il cielo era opalescente per i lampi e le saette.
Mi stavo preparando per la messa e, indossata la tunica talare, mi ero sfilato le mutande come facevo ormai di consueto prima di ogni celebrazione.
Sentivo lo scroto particolarmente pesante e pensavo che dopo l'eucarestia avrei dovuto svuotarmelo quando, all’improvviso, l’uscio della sagrestia si dischiuse.
“Buona sera padre … è troppo tardi per le confessioni?”
Un ragazzino di non più di quindici anni apparve nella luce del sagrato.
La pelle diafana brillava sullo sfondo della notte e il golfino e la camicia sembravano completamente zuppi per la pioggia.
“È quasi l’ora della messa …” Risposi colpito dalla bellezza di quella creatura. “ Ma quanti peccati vorrai confessarmi tu …? Avanti, vieni …” Lo invitai.
E accomodatomi sulla panca gli feci il cenno di inginocchiarsi ai miei piedi.
“Parla pure, figliolo”. Lo esortai. “Che segreti hai da raccontarmi?”
I miei genitali erano appena scaldati dal fiato del ragazzo, ma fu il fuoco delle sue rivelazioni che incendiò i miei lombi.
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