tradimenti
L’ho spinta a tradire (racconto) Parte 5
di ToroRm2020
28.01.2021 |
15.229 |
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"«Non vuoi leccarla?» mi provocò..."
Per la ventesima volta ricominciai a leggere il primo paragrafo della pratica che avevo davanti senza riuscire a capirne una sola parola. Avevo dormito pochissimo, la sera precedente. Moira a letto mi aveva fatto fare gli straordinari, ma non si trattava solo di questo. Avrei dovuto essere al settimo cielo, facevo sesso con l’intensità e la frequenza di un ragazzino che aveva appena scoperto la fica, ma nonostante tutto c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.
«Hai l’aria malinconica» mi aveva detto Moira quella mattina mentre prendevamo un cappuccino al bar. «Ti ho fatto stancare troppo ieri sera?»
«Di quella fatica non mi stanco mai» avevo risposto, ed ero sincero. Moira mi aveva chiesto di incularla con violenza, e l’avevo sbattuta contro la testiera del letto per quasi mezz’ora senza smettere un momento di morderle le labbra e intrecciare la lingua con la sua, da dietro, godendo di quel corpo snello e definito da mezzofondista, con i muscoli scolpiti e lucidi di sudore.
«Sfondami senza pietà» mi aveva incitato, «fammi sentire quanto ti piace farmi il culo.»
Contemporaneamente si era infilata un vibratore nella fica, uno dei numerosi giocattoli che teneva nel comodino, in quello che lei chiamava il suo cassetto da porca, dentro cui conservava palline, vibratori e parecchi altri sex toys.
E quello era stato solo il primo round, concluso con un orgasmo da Guinness dei primati sia per me che per lei, che non si era preoccupata minimamente di nascondere agli altri inquilini del palazzo la sua soddisfazione.
Ci eravamo addormentati entrambi poco dopo, l’una nelle braccia dell’altro, ma verso mezzanotte mi ero svegliato con la bocca di Moira intorno al cazzo già in tiro.
Succhiava con passione facendo scorrere le labbra su e giù lungo l’asta fin quasi alla base, arrivando a lacrimare nello sforzo di prenderlo tutto in gola. Avevamo proseguito con un 69, io sotto lei sopra, variando l’intensità delle reciproche leccate per arrivare quasi contemporaneamente a godere l’uno nella bocca dell’altra.
Ma, nonostante tutto, quella mattina mi ero svegliato di umore grigio, come se un velo oscuro si fosse frapposto tra me e la luce del sole.
Avevo sorriso a Moira dicendole che era solo mancanza di sonno, nascondendo la bugia dietro la tazza orlata di schiuma.
Ero a casa sua da quasi due settimane, e ci divertivamo molto insieme, eppure dentro di me avvertivo un vuoto, un’assenza che, anche se cercavo di ignorarla, aveva esattamente la forma di Clelia, una sagoma dai bordi strappati come la fotografia che mi ero lasciato dietro quando ero andato via di casa.
Mi mancavano i piccoli gesti quotidiani, le abitudini condivise, le chiacchiere leggere e i film guardati insieme sul divano. Mi mancava anche il sesso con lei, forse meno intenso di quello che facevo con Moira, ma comunque bellissimo.
Negli ultimi mesi ero passato dall’eccitazione folle alla disperazione, scivolando attraverso tutte le sfumature intermedie. Vedere Clelia scopare con Giulio, guardare il video che mi avevano “regalato”, sentirla raccontare quanto aveva goduto a prenderlo nel culo mentre la sborra le colava sul mento, aveva compresso tutto il marasma che avevo dentro in una pietra dura dai bordi taglienti, un diamante industriale di pura rabbia allo stato cristallino.
Ma la cosa più brutta era stata rendermi conto che era in gran parte colpa mia, dato che ero stato io a dare inizio al gioco perverso che alla fine ci aveva stritolato. Era proprio vero che quando gli dei volevano punirci facevano avverare i nostri desideri.
Mi ero chiesto se stare con Moira fosse davvero ciò che volevo e non ero riuscito a darmi una risposta, il che era già di per sé una risposta.
Ci riflettevo da giorni senza riuscire a venirne a capo.
Tornare con Clelia e rinunciare a Moira? Anche quella non era la soluzione che cercavo.
Chiudere definitivamente sette anni di matrimonio? Appena formulato quel pensiero un senso acuto di perdita mi aveva trapassato il torace come una lama.
Cosa cazzo dovevo fare allora? E perché il mondo all’improvviso sembrava aver perso tutti i suoi colori?
Chiusi con rabbia la cartellina che conteneva la pratica e presi a massaggiare la radice del naso tra pollice e indice, nel tentativo di ridurre il cerchio alla testa che mi tormentava da quando mi ero svegliato.
«Ciao» sentii dire ad un tratto, e per un lungo istante pensai di averlo immaginato. Non poteva essere lei. Invece sulla soglia dell’ufficio, con indosso un vestito a portafoglio rosso che non le avevo mai visto prima, c’era Clelia.
«Ciao» risposi automaticamente. «Che ci fai qui?» aggiunsi poco dopo, in tono duro, cercando di tenere la rabbia sotto controllo.
«Volevo vederti.»
«Bel vestito. È nuovo, se non sbaglio. È un suo regalo?»
«Sì, è nuovo, ma se con lui ti riferisci a Giulio, sappi che è una storia morta e sepolta.»
«Come il nostro matrimonio» aggiunsi, notando con una certa soddisfazione che accusava il colpo.
«Ho sbagliato» rispose, gli occhi bassi, dopo aver cercato le parole per qualche secondo.
«Abbiamo sbagliato entrambi» concessi, «ma ormai il danno è fatto. Non ho ancora sentito l’avvocato per le pratiche di separazione. Appena so qualcosa ti avverto.»
«Non sono qui per quello.»
«Potevi chiamarmi, se ti serviva qualcosa.»
«L’ho fatto, ma scattava sempre la segreteria.»
L’avevo bloccata sia sul telefono che su Whatsapp, ma non avevo intenzione di farglielo sapere.
«Cosa vuoi?» chiesi brutalmente.
«Mi manchi» confessò lei, e per un istante la corazza di indifferenza che ostentavo collassò su se stessa, lasciandomi fragile e indifeso. Dovetti stringere la mandibola fin quasi a farmi male per evitare di rispondere “Anche tu”.
«Passerà» dissi invece. «È solo questione di tempo.»
«Non deve per forza finire così.»
«È già finita. Devi solo accettarlo come ho fatto io. Per quanti sforzi facciamo, niente tornerà più come prima.»
«Questo lo so, ma diverso non significa per forza peggiore.»
«Ci siamo fatti le corna a vicenda, io sto con un’altra e scopo come non facevo da anni…» ribattei, sputando con maligna soddisfazione parte del veleno che avevo dentro. «Cosa ti fa pensare che abbia voglia di tornare indietro?»
La osservai per vedere come incassava il colpo, ma solo un lieve irrigidirsi della postura tradì il turbamento che le mie parole dovevano averle causato.
«Sei felice con Moira?» chiese.
«Molto» risposi, consapevole di mentire, o quantomeno di esagerare.
«Ho sempre capito quando non mi dicevi la verità» mi fece notare.
«Quello che provo non è più affar tuo» dissi, dandole involontariamente conferma di aver visto giusto.
«Invece sì, perché sono tua moglie, e perché ti amo.»
«Smettila, per favore.»
«Non finché non ammetterai che ho ragione.»
«Come vuoi. Hai ragione. Adesso puoi andare via, per cortesia? Moira potrebbe passare e non voglio che ti trovi qui.»
Per tutta risposta, Clelia chiuse la porta dell’ufficio e girò la chiave, poi tornò a voltarsi verso di me.
«Apri quella porta» intimai, senza molto successo. Mi alzai con l’intenzione di aprirla io stesso, ma in quel momento Clelia slacciò la cintura che teneva chiuso il vestito rivelando l’intimo ultra sexy che portava sotto: un minuscolo perizoma in latex tenuto su da due laccetti sottilissimi, e nient’altro. Il seno sodo era nudo, i capezzoli eretti.
«Che intenzioni hai?» chiesi, sentendomi stupido già prima di finire di parlare. Era evidente cosa volesse. L’incognita era cosa volevo io.
Sentii il cazzo diventare immediatamente durissimo, cosa che stabilì senza dubbio che almeno una parte di me aveva le idee molto chiare in proposito.
«Rivestiti» mormorai, in modo quasi inaudibile e decisamente poco convincente.
«Hai il cazzo duro» affermò Clelia con sicurezza, sorprendendomi sia per il linguaggio che per l’intraprendenza. «Tu puoi anche mentirmi, ma lui no.»
Deglutii a vuoto, mentre lei mi guardava la patta dei pantaloni, tesa e gonfia.
Si avvicinò alla scrivania, ci girò attorno e mi spinse indietro con un dito, in modo da creare uno spazio in cui infilarsi, poi sedette sul ripiano e spalancò le cosce. Si infilò due dita in bocca e le insalivò con cura, per poi scendere fino al cavallo delle mutandine. Scostò il sottile lembo di tessuto rivelando le piccole labbra aperte e umide. Non c’era traccia di peli.
«L’hai rasata» mi sfuggì, nonostante cercassi di rimanere impassibile.
«So che ti piace» rispose, infilando le dita dentro per poi tornare a leccarle. «E ho scoperto che piace anche a me.»
Cominciò un ditalino languido, lento, il cui scopo era catalizzare la mia attenzione sulla sua fica.
«Non vuoi leccarla?» mi provocò.
«Perché stai facendo questo?»
«Perché ti voglio.»
Quasi senza rendermene conto mi trovai seduto sulla poltroncina a rotelle con la faccia all’altezza della fica bagnata di mia moglie, il cui comportamento da troia mi stava facendo andare fuori di testa.
Cercai di resistere, ma il profumo del sesso era inebriante. Passai più volte la lingua sulla labbra, incapace di distogliere lo sguardo dallo spettacolo che avevo di fronte.
Per superare l’impasse, Clelia mi prese per la nuca e mi guidò verso l’interno umido delle sue cosce.
«Goditela tutta» mormorò, con voce morbida come il pelo di una gatta persiana.
Cinque centimetri… Tre… Uno…
Affondai la lingua tra le pieghe umide della fica e persi il controllo. Cominciai a grugnire come un porco, leccando e mordendo quella carne profumata e dolce. Senza quasi rendermene conto strappai il perizoma con le dita. La pelle liscia come seta era deliziosa sotto la lingua, e a ogni leccata Clelia rispondeva con un gemito in contrappunto. Scesi fino al perineo e sollevando le cosce le baciai anche il culo, carezzando con la punta della lingua lo sfintere grinzoso che Giulio aveva violato e io no, pensiero che non riuscì a scalfire minimamente la mia eccitazione.
«Bravo, bagnami bene lì» si raccomandò.
Stavamo, stavo, correndo un rischio enorme a scoparla sulla mia scrivania, nel mio ufficio, ma in quel momento niente avrebbe potuto fermarmi.
Le infilai la lingua in vagina, strappandole un sospiro e, contemporaneamente, feci scivolare l’indice nell’ano, che oppose poca resistenza a quell’improvvisa penetrazione. Cominciai a succhiare il clitoride, aumentando il ritmo con cui facevo andare il dito, senza preoccuparmi troppo di farle male.
«Mettimelo nel culo» disse Clelia d’un tratto. «Voglio il tuo cazzo dentro di me.»
Non poteva essere la Clelia che era stata mia moglie per sette anni a dire quelle cose, ma era dalla sua bocca che venivano le parole.
Interruppi il lavoro di lingua, mi alzai in piedi e sbottonai i pantaloni con una certa difficoltà, a causa dell’erezione che tendeva la stoffa e della frenesia che rendeva impacciati i miei movimenti.
Pur avendo fatto l’amore con lei più volte di quante riuscissi a ricordare, in quel momento sentivo di avere di fronte una donna diversa, che condivideva con Clelia solo l’aspetto fisico. Il cazzo venne fuori prepotente e durissimo, pronto a prendersi ciò che riteneva suo di diritto.
Clelia si chinò leggermente in avanti e lo prese in mano, stringendolo con una forza che mi sorprese. Portò il viso direttamente sopra l’asta, a una decina di centimetri di distanza, e infilò un dito all’angolo della bocca fino a far colare un filo di saliva direttamente sulla cappella turgida.
Mi chiesi se fosse stato Giulio a insegnarle quella tecnica, ma anche stavolta quel pensiero molesto non influì minimamente sul mio desiderio.
Le dita sottili cosparsero la saliva sul glande, preparandolo alla penetrazione.
«Prendimi…» mi invitò.
Le sollevai le cosce con le braccia per esporre il culo sodo mentre lei poggiava i gomiti sul ripiano per facilitarmi il compito, poi mi feci sotto e cominciai a spingere piano, forzando la resistenza dello sfintere poco alla volta finché non sentì l’anello muscolare serrarsi sull’asta: ero entrato nel culo di mia moglie per la prima volta. L’intenzione era stata di sfondarla senza nessun riguardo, più per vedetta che per piacere, ma la luce che vidi nei suoi occhi mi fece cambiare idea. Cominciai a muovermi lentamente per non farle male, guadagnando un centimetro alla volta e fermandomi quando la vedevo irrigidirsi. In quel momento la sentii vicina come mai prima.
Come l’oscillazione di un pendolo, rallentai il movimento a mano a mano che affondavo più profondamente dentro di lei, osservando sul suo volto il dolore che si trasformava pian piano in piacere. Clelia mi posò le gambe sulle spalle, offrendosi completamente a me.
Con il pollice cominciai a carezzarle il clitoride, aiutato nello sfregamento dalle secrezioni fluide e abbondanti. Trovai il ritmo giusto, una sinfonia di organi sessuali con il contrappunto di gemiti e sospiri.
Il retto era più stretto e avvolgente della vagina, e assicurava una stimolazione più intensa, legata anche alla situazione particolarmente eccitante che stavamo vivendo: se non stavo attento non sarei durato molto.
«Ci sono quasi» disse Clelia. «Non fermarti, ti prego.»
Non ne avevo la minima intenzione, perché ero molto vicino anch’io. Sentii i muscoli di lei contrarsi involontariamente, segno che era prossima a godere.
Estrassi e affondai completamente il cazzo, più e più volte, e finalmente la fortissima tensione sessuale che si era creata tra noi si sciolse in un orgasmo feroce e liberatorio. Prima venne lei poi, meno di venti secondi dopo, mi liberai anch’io. Clelia emise un lungo gemito a labbra chiuse mentre le riempivo il retto di sperma. Anche gli occhi erano serrati, forse per assaporare meglio le sensazioni che stava provando. Se quello che mi aveva detto sul rapporto anale con Giulio era vero, questa era la prima volta che provava piacere nel farlo.
Per un attimo chiusi anch’io gli occhi, e quando li riaprii mi accorsi che stava piangendo in silenzio, le guance rigate di lacrime.
«Perché?» le chiesi, concentrando in quell’unica parola tutte le domande che avrei voluto rivolgerle negli ultimi mesi.
«Perché ti amo» rispose piano, «e mi dispiace per tutto quello che è successo.».
Uscii da lei e mi ricomposi alla meglio. Il minuscolo perizoma si era rotto quando nella foga avevo strappato uno dei laccetti. Clelia si limitò a sfilarlo e a metterlo in borsa, poi richiuse il vestito sul quel corpo snello che conoscevo così bene.
«È stato bello, ma questo non cambia le cose» misi in chiaro. «Abbiamo avuto la nostra occasione ed è andata com’è andata. Adesso io sto con Moira.»
«Non ti sto chiedendo di rinunciare a lei» rispose. «Sono venuta a dirti che ti amo e che spero di poter ricominciare su nuove basi.»
«Non vedo come.»
«Io ci sono, e se vuoi anche Moira, per me va bene» spiegò, con un leggero tremito nella voce. «Se vuoi averci entrambe, insieme, io ci sono lo stesso. In cambio ti chiedo solo una cosa…»
Mi baciò piano sulle labbra, poi si diresse alla porta, che aprì girando la chiave. Con la mano sulla maniglia si voltò a guardarmi. Gli occhi erano lucidi.
Mi ci vollero alcuni secondi per assimilare ciò che aveva detto e per mettere insieme una risposta, che in realtà consisteva ancora una volta in una sola parola.
«Cosa?»
«Vorrei solo che tu mi credessi quando dico che ti amo più di quanto tu possa immaginare» mormorò. Poi, dopo un ultimo sorriso malinconico, aprì la porta e uscì.
In quel preciso istante mi resi conto che il mal di testa se n’era andato, insieme a quella sensazione di vuoto che mi aveva tormentato per giorni. Cercai la rabbia che non mi aveva lasciato un attimo da quando ero uscito dalla casa che avevamo condiviso per sette anni, quella pietra dura e tagliente incastonata in mezzo al torace, e non trovai neanche quella.
“Non deve per forza finire così”, aveva detto.
Mi chiesi se potevamo avere un’altra possibilità e sentii qualcosa nascere dentro di me, un sentimento che non credevo di riuscire a provare ancora dopo quella sera di due settimane prima.
Speranza. Si trattava di speranza.
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